sabato 12 luglio 2008

Ecclesiastico

Ecclesiastico Feb 18
Il diritto ecclesiastico è da distinguere da altre discipline che hanno una denominazione in qualche modo affine, come il diritto canonico, la storia delle istituzioni religiose. Il diritto ecclesiastico nasce come materia accademica che tratta dell’atteggiamento dello stato nei confronti del fenomeno religioso. Diritto ecclesiastico, nell’impostazione del nostro ordinamento, è la disciplina che lo stato detta o fa propria in rapporto al fenomeno religioso sia sotto il profilo individuale sia sotto il profilo collettivo ed istituzionale, quindi sia sotto il profilo delle libertà che dei rapporti con la chiesa e con le confessioni religiose. E’ evidente già la distinzione del diritto ecclesiastico dal diritto canonico. Il diritto canonico è il diritto proprio della chiesa. La chiesa cattolica, come ordinamento giuridico, disciplina i propri rapporti interni può anche determinare l’atteggiamento della chiesa nei confronti degli stati. E’ l’esatto versante speculare rispetto al diritto statale. Anche il diritto canonico ha importanza per il diritto dello stato che lo può prendere in considerazione o per l’autonomia che ha o perché costituisce il presupposto della disciplina statale. Determinati istituti disciplinati dal diritto canonico finiscono con l’avere un rilievo nell’ambito dello stato. Il diritto ecclesiastico si distingue anche dal diritto proprio delle altre confessioni religiose che si organizzino come ordinamenti giuridici. Il diritto della chiesa cattolica è il più completo, è quello che, da un punto di vista giuridico, ha un grado di raffinatezza altrettanto elevata del diritto statale. Non a caso, storicamente, una serie di istituti giuridici sono stati trapiantati dall’uno all’altro ordinamento. Esistono anche altre istituzioni che hanno proprie norme che disciplinano i rapporti tra gli organi della confessione e gli aderenti alla confessione religiosa. Qualificheremmo quindi il diritto canonico e il diritto proprio delle altre confessioni come diritti religiosi. Il diritto ecclesiastico non è un diritto religioso, ma è un diritto sulla religione, in rapporto alla religione. Se il diritto ecclesiastico è diritto statale come si colloca nel contesto complessivo dei vari rami nei quali si ripartisce il diritto dello stato? Abbiamo la tradizionale classica divisione tra diritto pubblico e diritto privato. Il diritto pubblico è costituzionale, amministrativo, tributario, penale. In senso lato potremmo dire che il diritto ecclesiastico è prevalentemente collocato nell’ambito del diritto pubblico, ma non solo, perché attraversa le categorie del diritto pubblico ed attinge anche a categorie del diritto privato. L’oggetto del diritto ecclesiastico rende trasversale il suo modo d’essere in rapporto alle altre discipline. Possiamo esemplificare: nell’ambito del diritto pubblico il diritto ecclesiastico si colloca sul versante del diritto costituzionale quando tratta della libertà religiosa, che storicamente è il primo dei diritti di libertà e uno tra i più importanti tra i diritti fondamentali. Si colloca ancora nell’ambito del diritto costituzionale quando considera la collocazione delle istituzioni religiose. Quando l’art. 7 della costituzione stabilisce che “Stato e Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrane”, dà una impostazione sul modo d’essere dello stato nei confronti delle istituzioni religiose. Si colloca sul versante del diritto amministrativo quando stabilisce la competenza delle amministrazioni civili del ministero degli interni di un “fondo edifici di culto”, che gestisce l’amministrazione di beni destinati ad un uso religioso, o quando stabilisce le competenze delle prefetture in ordine all’attività di enti ecclesiastici, o disciplina i modi di riconoscimento della personalità giuridica agli enti ecclesiastici. Si colloca sul versante del diritto internazionale quando ha ad oggetto i rapporti esterni tra stato e chiesa cattolica: quando prende in considerazione il concordato (accordo internazionale) o quando prende ad esame un vero e proprio trattato internazionale quale il trattato lateranense. Ci muoviamo in ottica di diritto tributario quando si detta una disciplina speciale per il regime fiscale di alcune attività o enti che hanno fine di religione o di culto. Ci muoviamo in un versante privatistico quando, mediante strumenti bilaterali o con concordato, vengono disciplinati gli effetti civili che il matrimonio religioso può avere o quando siamo in presenza di un’attività negoziale degli enti ecclesiastici.
A queste prospettive di collocazione del diritto ecclesiastico si aggiunge un elemento storico-politico. La disciplina dei rapporti con la chiesa e con le istituzioni religiose ha una propria evoluzione nel tempo che incide sulla stessa interpretazione del sistema, ed ha una indubbia valenza politica che è distinta da quella giuridica ma che ha ugualmente un’incidenza ai fini dell’interpretazione dell’assetto che la disciplina giuridica detta. Un esempio fra tanti può essere il concetto di laicità nella storia. Con questo si può concludere che il diritto ecclesiastico ha una autonomia scientifica e didattica legata all’identità della materia che viene trattata. E’ pure una materia che copre aree diverse. Allora si presta particolarmente a mettere alla prova concetti che vengono elaborati nell’ambito delle diverse discipline. Sotto un certo aspetto potremmo dire che è una “disciplina interdisciplinare”, che consente di superare le barriere tra i diversi ambiti, cercando di unificare metodologicamente gli strumenti di elaborazione concettuale.
La prima singolarità è data dalle stesse fonti del diritto ecclesiastico. Se ci collochiamo nel versante delle altre discipline, ci imbattiamo in fonti graduate in un sistema ma che sono tutte quante quasi esclusivamente fonti statali (unilaterali): costituzione, leggi, regolamenti. Sono fonti che promanano da un solo ordinamento. Nel diritto ecclesiastico, oltre le fonti unilaterali statali, dobbiamo prendere in considerazione le fonti bilaterali, cioè quelle che nascono da un accordo tra lo stato e la chiesa. Bisogna anche prendere in considerazione fonti confessionali che siano il presupposto della disciplina statale. Quando la disciplina statale interviene riconoscendo un istituto di diritto canonico, è evidente che la disciplina canonica rileva per lo stato. Chi rappresenta l’ente parrocchia, diocesi, è disciplinato dal diritto della chiesa. Allora le modifiche di quel diritto sono presupposto per la disciplina statale. Riassumendo, le fonti sono: unilaterali statali, bilaterali, confessionali che hanno rilevanza nell’ordinamento dello stato.
Per quello che riguarda le fonti unilaterali statali può nascere immediatamente un problema di competenza, che non riguarda certo la costituzione. La costituzione è sopraordinata. Possiamo, nell’ambito della costituzione, distinguere principi fondamentali o supremi che non sono suscettibili di revisione costituzionale, e tra questi possiamo includere i diritti di libertà (libertà religiosa e assetto dei rapporti tra stato e chiesa), introducendo una gerarchia all’interno della stessa costituzione. Ma il problema di competenza si pone essenzialmente per la competenza legislativa, che può essere statale e regionale. L’ambito dei rapporti tra stato e confessioni religiose è un ambito di competenza esclusiva dello stato, con effetti singolari. In alcuni ambiti materiali c’è una competenza regionale (valorizzazione dei beni culturali di interesse locale, ambito sanitario e assistenza religiosa). Si incrocia una competenza statale per quello che riguarda i rapporti con le confessioni religiose con competenze regionali per quello che riguarda la materia sulla quale incide il rapporto con le confessioni religiose. Altre fonti unilaterali statali sono le norme del codice civile che si riferiscono alla condizione degli edifici di culto e la loro non sottraibilità al vincolo di destinazione. Inoltre, le fonti in materia penale destinate a tutelare il sentimento religioso punendo le offese alla religione con sanzioni specifiche.
Le fonti bilaterali (che costituiscono grande parte del diritto ecclesiastico) sono menzionate nella stessa costituzione. La prima fonte bilaterale è costituita dai patti lateranensi e in particolare, oltre il trattato, dal concordato, attualmente nella forma e nella veste dell’accordo di revisione del concordato del 1984. Sono fonti bilaterali anche una serie di intese di rango sub-primario che nel quadro concordatario sono state adottate. Sono fonti bilaterali anche le intese tra lo stato e le confessioni religiose diverse dalla cattolica, sulla cui base sono state emanate, in forza dell’art. 8 della costituzione, leggi statali che disciplinano i rapporti con ciascuna confessione religiosa.
Fonti unilaterali confessionali. Alcune sono riferibili al diritto canonico, alle norme emanate soprattutto in materia patrimoniale dalla conferenza episcopale italiana (per quello che riguarda gli assetti relativi alle autorizzazioni canoniche, alle competenze), come anche, in misura diversa, le fonti unilaterali di altre confessioni religiose.
Partiamo dall’impostazione costituzionale. Nel nostro sistema la costituzione è al centro e alla base dell’ordinamento. E’ un documento che ha valore non solo politico ma anche giuridico: la costituzione è legge suprema. La nostra costituzione, che si inserisce nelle c.d. costituzioni lunghe, si occupa in modo specifico del fenomeno religioso, cioè dedica un’apposita disciplina a questo aspetto. Anzi, è stato uno dei temi più ampiamente discussi in seno all’assemblea costituente. La nostra costituzione non è dativa (concessa come lo Statuto Albertino) né proposta ad una approvazione popolare, ma è stata elaborata all’esterno. E’ stata discussa dall’assemblea costituente eletta per la prima volta a suffragio universale diretto pieno. Per la prima volta hanno partecipato le donne. L’assemblea parlamentare nasce all’esito della sconfitta bellica. I due paesi che avevano vissuto questa esperienza (Italia e Germania) sono ricondotti alla elaborazione di una costituzione di impostazione democratica. Un solo punto non è stato oggetto di decisione dell’assemblea, ed è stato quello istituzionale, ossia la scelta tra forma repubblicana o forma monarchica (fatta con referendum). L’atteggiamento che in assemblea costituente si sviluppa rispetto al fenomeno religioso è garantire in senso pieno la libertà religiosa, individuale e collettiva, e la libertà anche delle confessioni di minoranza alle quali era assicurato, come culti ammessi, uno spazio di libertà. La richiesta di assicurare la libertà religiosa veniva anche dalle potenze vincitrici della guerra. In Italia si poneva un problema del tutto particolare che era costituito dalla soluzione data dal regime precedente alla c.d. questione romana. Per questione romana si intende il problema politico tra stato italiano e stato pontificio sorto dopo la conquista di Roma (Breccia di Porta Pia) da parte delle truppe piemontesi, anno 1870. Lo stato italiano cercò di risolvere questo problema (intero ed esterno, di politica internazionale, visto che la Francia era nel passato sempre intervenuta per difendere la condizione dello stato pontificio). Di fronte a questo problema (per cui il sommo pontefice si ritiene limitato nella espressione della sua libertà, si verifica la estinzione dello stato pontificio per debellatio, ossia per occupazione armata, occupazione che nel passato non aveva mai attraversato la Citta Leonina, cioè i palazzi apostolici) lo stato italiano cerca di risolvere la questione con la legge delle guarentigie, nel 1871. Guarentigia significa garanzia. La legge delle guarentigie prevede appunto le garanzie attribuite al sommo pontefice per l’esercizio della sua funzione. Erano garanzie di ordine personale e reale, cioè attraverso una serie di immunità. L’immunità è una garanzia di una funzione nel cui esercizio un soggetto non è sottoposto ad altri poteri, è immune dall’interferenza da altri poteri. L’immunità non è un privilegio se tende a garantire il libero esercizio del potere che nel caso del parlamentare è espressione della sovranità, e nel caso del pontefice è espressione di una sovranità spirituale. L’immunità si usa anche in altri settori. Le immunità diplomatiche sono esenti rispetto alla giurisdizione di quello stato. Nelle garanzie c’è ancora la extraterritorialità: il luogo nel quale si esercita una determinata funzione ancorata ad una sovranità estranea allo stato ma dallo stato riconosciuta, vede, per autolimitazione dello stato imposta allo stato, il non esercizio di poteri statali in quell’ambito. L’extraterritorialità indica che lo stato non esercita i propri poteri nei limiti in cui è essenziale per garantire la funzione. Non potrà fare perquisizioni, mandare la forza pubblica. Se viene commesso un reato da un soggetto con immunità diplomatica non potrà essere perseguito penalmente. La legge delle guarentigie usa questa tecnica, e assimila il pontefice, stabilendone l’inviolabilità della persona (sacra e inviolabile) alla posizione del sovrano, cioè alle stesse immunità delle quali godeva il re. Si assicura il pieno esercizio della sua funzione spirituale, lo si indennizza per la perdita del “patrimonio di S. Pietro” con un assegno annuo (costantemente rifiutato dalla Santa Sede). Se c’era questo contesto, come mai la questione romana rimase viva fino al 1929 (patti lateranensi)? Perché la legge della guarentigie non ha risolto la questione romana, nonostante questa legge di stato fosse considerata fondamentale? Un parere del Consiglio di Stato del 1871 assimila la legge delle guarentigie allo Statuto Albertino. Non viene accettata perché è una legge unilaterale statale. Nn viene accettata anche per ragioni politiche, perché s’era stati in presenza di un atto bellico nei confronti dello stato della città del vaticano. Essendo legge unilaterale statale, anche se garantisce il libero esercizio della funzione ecclesiastica, è rimessa alla volontà del soggetto che l’ha posta in essere e non ha alcuna garanzia costituzionale. Il parere del Consiglio di Stato, mentre la individua come legge che si colloca tra i principi supremi dell’ordinamento dello stato, si muove nell’ottica del separatismo cavouriano lavoro e non ha alcuna garanzia internazionale. La questione romana diventa oggetto di contatti anche nell’ambito della conferenza di Parigi dopo la prima guerra mondiale. Non trova soluzione in quel contesto. La trova nel 1929 con la c.d. conciliazione. Anche le espressioni tendono a sintetizzare il modo d’essere di una vicenda politica. Via della Conciliazione è stata realizzare in quell’occasione proprio per sottolineare un evento che vuole avere portata storica. Si arriva alla conciliazione mediante contatti e negoziati che non seguono il canale ufficiale diplomatico. Normalmente questi rapporti hanno la linea di contatto che non esiste tra lo stato italiano e la Santa Sede. In una condizione di rottura lo scambio di rappresentanti diplomatici avrebbe significato il riconoscimento della situazione esistente da parte della Santa Sede. Il rapporto avviene soggetti privati che mantengono i contatti tra le due parti: l’avvocato Pacelli e il consigliere di stato Barone. Esistono anche altri contatti. I Patti Lateranensi furono sottoscritti l’11 febbraio del 1929 in uno degli edifici storici ecclesiastici: Palazzo Lateranense, la sede del vescovo di Roma. Come accade spesso per gli accordi internazionali i patti prendono il nome dal luogo in cui vengono sottoscritti, e tanto questo nome ha forza di identificazione che l’art. 7 della costituzione fa riferimento espressamente ai patti lateranensi. I problemi che si ponevano di fronte alla questione romana erano:
· se e come assicurare una sovranità territoriale alla Santa Sede, come garantirne la libertà e indipendenza nell’ambito di funzioni che sono di governo universale della chiesa e di rapporto con gli altri stati (disciplinato dal Trattato lateranense);
· come disciplinare la condizione giuridica della chiesa in Italia (disciplinato dal Concordato lateranense).
Il primo gruppo di questi problemi è stato oggetto del Trattato lateranense. Il secondo gruppo invece del Concordato. Sono chiamati in modo diverso, anche se fanno parte degli stessi patti. Il trattato ha la denominazione propria di tutti i patti internazionali. E’ un vero e proprio trattato internazionale con il quale si costituisce un ordinamento territoriale (Stato della Città del Vaticano) sottoposto alla sovranità della Santa Sede e tale da garantire in modo visibile l’indipendenza della Santa Sede. Il Concordato è sempre un atto che si colloca all’esterno dell’ordinamento dello stato. E’ di tipo internazionalistico. Alcuni distinguono tra ordinamento internazionale e ordinamento concordatario, che operano con modalità analoghe, ma sarebbero differenziati. Il concordato è un accordo tipico che risponde ad una remota tradizione e riguarda la condizione giuridica della chiesa nello stato. Non riguarda perciò la chiesa universale ma riguarda una disciplina che è destinata a divenire essenzialmente norma interna dello stato, oltreché norma della chiesa particolare, cioè della chiesa italiana, in questo caso. Sono chiamati patti lateranensi (unitariamente considerati) perché tra di essi storicamente e politicamente si colloca un legame. Il concordato venne ritenuto dalla Santa Sede il necessario complemento e completamento del trattato. Tanto che il pontefice apertamente dichiarò che questo collegamento che “stavano insieme e insieme cadevano”. Se veniva meno il concordato sarebbe venuto meno anche il trattato. Quindi la questione romana era stata risolta in un negoziato che riguardava non solo la libertà e condizione della Santa Sede nell’ambito internazionale ma riguardava anche la condizione della chiesa in Italia, e quindi il riconoscimento del matrimonio canonico, l’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche, le altre discipline che riguardavano le relazioni tra stato e chiesa.
Come mai l’art. 7 della costituzione fa riferimento ai patti lateranensi e come mai la costituzione si occupa in maniera così precisa e diffusa di aspetti ecclesiastici? I patti lateranensi erano stati stipulati da un regime caduto con il conflitto. Il nuovo ordinamento repubblicano in qualche misura si collocava in antitesi con il precedente regime, e in continuità dello stato. C’è una discontinuità di regime. Nel costituire l’ordinamento repubblicano l’idea era quella di mantenere la pace religiosa, cioè non riaprire aspetti che potessero toccare nuovamente la questione romana, o sollecitare un conflitto con la chiesa in un momento di delicata transizione. La garanzia che il nuovo ordinamento dava alla chiesa era il mantenimento della disciplina bilaterale, degli accordi sottoscritti dallo stato in precedenza attribuendo ad essi una garanzia costituzionale. E’ raro che una costituzione richiami dei patti internazionali. L’art. 7 espressamente fa riferimento a questi patti e non ad altri. Forse solo molto indirettamente c’è un riferimento nel nuovo art. 117 ai patti internazionali e alle norme comunitarie come vincolo per la legislazione dello stato. Questo richiamo dei patti lateranensi è stato oggetto di un dibattito assai ampio nell’assemblea costituente. Esisteva una forte contrapposizione ideale: per alcuni la questione appariva solo come una costituzionalizzazione dei patti lateranensi, per altri invece era un chiaro riconoscimento dell’indipendenza della chiesa e del rispetto degli obblighi assunti dallo stato da render coerenti con la costituzione repubblicana. Si intrecciano valutazioni giuridiche con valutazioni politiche. Tra le singolarità del dibattito in assemblea costituente si ricorda l’azione di Dossetti (ancora si discute quale influsso abbia avuto su quella formulazione la segreteria di Stato di Montini e continuano ricerche e pubblicazioni di documenti su questo). L’art. 7 sancisce: “Lo stato e la chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrane. I loro rapporti sono regolati dai patti lateranensi. Le modificazioni dei patti accettate dalle due parti non richiedono procedimento di revisione costituzionale”. Vedremo di analizzare questo testo che può essere ripartito in 3 affermazioni fondamentali:
1. Riconoscimento della sovranità e indipendenza dello stato e della chiesa ciascuno nel suo ordine (elemento di carattere ricognitivo). Si introduce un elemento forte di innovazione dal punto di vista della posizione dello stato.
2. Riconoscimento di un atto storico (i patti lateranensi) con il valore che può avere di recezione o meno nella costituzione.
3. Le modificazioni e le modalità con le quali possono essere modificati (elemento dinamico). Anche questa è una singolarità
Questa formulazione (che è originale e risponde ad una esigenza fortemente avvertita anche in ambito ecclesiastico) nasce dalla proposta che in seno all’assemblea costituente formula, porta avanti e difende Giuseppe Dossetti, professore di diritto ecclesiastico, eletto nella DC che ha abbandonato dal via politica, s’è fatto sacerdote, ha partecipato ai lavori del Concilio e ha avuto una posizione di rilievo nella vita culturale del paese. Questa posizione di Dossetti è collegata a valutazioni che venivano da parte della Santa Sede. All’epoca, nella segreteria di Stato, si trovava Montini. C’erano forze antagoniste a questa formula. Sia pure con una forte ispirazione ideale, da parte laica si riteneva inappropriato che nella costituzione si facesse riferimento ad una sovranità della Santa Sede con un atto ricognitivo che implicava un riconoscimento come se si trattasse di un ordinamento simile a quello di un altro paese. Soprattutto si riteneva che cristallizzare nella costituzione i patti lateranensi significava una sorta di atto di omaggio e recezione rispetto ad un patto che attribuiva privilegi alla chiesa e in qualche aspetto poteva essere in contrasto con la costituzione. Per esempio l’art. 5 del concordato prevedeva il divieto, per i sacerdoti apostati o irretiti da censura di esercitare uffici pubblici o al diritto contatto col pubblico. Era una norma che era nata espressamente per allontanare dall’insegnamento Ernesto Bonaiuti, sacerdote modernista, e che, in un ordinamento costituzionale che garantiva l’eguaglianza di accesso ai pubblici uffici, si sarebbe posta in contrasto con la costituzione. Ma non si trattava solo di questo. Contrastando questa posizione vi erano le forze socialiste, mentre votarono a favore di questa formula i membri dell’assemblea costituente del partito comunista, con un intervento del loro lider Togliatti, sembra non discusso neanche in seno agli organi del partito. L’importanza che veniva attribuita a questo articolo della costituzione era tale che, in rapporto ad esso, l’unica volta intervenne De Gasperi, non come capo del governo ma come membro dell’assemblea costituente. De Gasperi sottolinea che si corre il rischio di riaprire la questione istituzionale se non si trova una soluzione a questo problema. Da parte del partito comunista ci fu una visione realistica delle cose per evitare di portare nel nuovo ordinamento ragioni di conflitto con la chiesa. Da questo momento nasce tutto un problema di compatibilità tra norme concordatarie e norme costituzionali, che troverà la sua composizione nell’accordo di revisione del concordato del 1984. In questo arco di tempo ci sarà una diversa spinta, da alcune parti politiche a rendere uniforme la condizione della chiesa cattolica e quella delle confessioni religiose riconducendo tutta la disciplina nel contesto ideale dell’art. 8 che si riferisce alle altre confessioni religiose, da altre parti politiche a provvedere alla revisione del concordato. Le linee che si confrontano sono quella della revisione della costituzione per superare l’art. 7, e quella della revisione del concordato per adeguarlo alla costituzione. Questi sono i due punti di sviluppo. La questione romana è un elemento storico ma che rimane anche nel sottofondo dell’evoluzione dell’ordinamento. La novità della disciplina del 1929 non è tanto quella di una riconfessionalizzazione dello stato (come si diceva), quanto di una bilateralità di disciplina. Con il trattato il Vaticano mantiene alla sola città leonina il suo ambito di potere temporale. L’elemento essenziale che distingue l’impostazione del 1929 da quelle precedenti è quella non più della unilateralità dello stato ma dell’accordo con la chiesa (cioè della bilateralità) e quindi di una garanzia esterna di tipo internazionalistico che vincola lo stato.

Ecclesiastico Feb 25
La libertà religiosa può essere classificata come individuale (esperienza del singolo), collettiva (fenomeni associativi), istituzionale (il movimento religioso dà vita ad una organizzazione che si atteggia ad ordinamento). Gli artt. 7 e 8 della costituzione nascono dall’art. 5 del progetto della costituzione. Hanno una matrice unitaria per i principi che enunciano e le modalità del loro funzionamento. La norma principe è l’art. 8 comma 1. L’art. 8.1 si riferisce non solo alla chiesa cattolica considerata all’art. 7 quanto alle altre confessioni religiose. L’art. 8: “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica…”. Questo significa che quel “tutte” del primo comma comprende quelle diverse della cattolica ma anche la cattolica. Tutte sono egualmente libere e quelle diverse dalla cattolica hanno diritto ad organizzarsi. L’art. 8.1 si riferisce tanto alle confessioni religiose diverse dalla cattolica quanto alla chiesa cattolica considerata come confessione religiosa. Dal punto di vista logico è la disposizione più ampia che comprende tutte le confessioni religiose. I soggetti considerati sono le confessioni religiose. La garanzia assicurata è che tutte sono “egualmente libere davanti alla legge”. Questa formula ha qualche assonanza con l’art. 3 della costituzione. Art. 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali dinnanzi alla legge..”. C’è un’assonanza e una diversità tra le due formule. Da una parte abbiamo la dicitura “tutti i cittadini” e dall’altra “tutte le confessioni”. Di parallelo c’è l’individuazione di soggetti nella loro universalità di comprensione (tutta la categoria di cittadini, di confessioni). L’elemento di diversità è che nell’art. 8 “ugualmente” si riferisce alla libertà, quindi c’è un’uguaglianza nella libertà. Pur muovendosi nel solco del generale principio di eguaglianza, l’art. 8 implica anche delle diversità. Si discute che il principio di eguaglianza si riferisca, oltre che ai cittadini, anche ai non cittadini, oppure riguardi anche le persone giuridiche. L’art. 3 stabilisce il principio di parità di trattamento. L’art. 8.1 stabilisce una pari libertà. Ci possono essere delle differenziazioni di trattamento purché non incidano sul godimento della libertà. Si disse sin dall’assemblea costituente che ciascuna confessione è diversa dall’altra, per contenuto di fede, per modalità organizzative, per presenza sociale. Allora si farebbe un torto alla loro stessa identità se si uguagliassero in una uniformità di considerazioni. Quello che deve essere assolutamente garantito è l’eguale godimento del diritto di libertà. Il che significa che non tutte le differenziazioni di trattamento sono ammissibili perché se incidono su una diversa misura nel godimento della libertà vengono a urtare contro il principio stabilito dall’art. 8.1. E’ un principio che pone in questa condizione di pari libertà anche la chiesa cattolica. Questo aspetto è un elemento che concorre ad eliminare aspetti di confessionismo sociale. Si deve escludere l’idea di una religione di stato. Solo per esemplificare, le ricadute sono in materia di apertura di edifici di culto: se l’esistenza di luoghi aperti al culto pubblico è uno degli elementi che assicura in concreto l’esercizio della libertà religiosa, non potrà essere esclusa nessuna confessione dalla facoltà di aprire edifici al culto pubblico. Cosa diversa è se per un sostegno pubblico ci debba essere un rapporto pubblico con il dato dimensionale, con il fabbisogno reale. Tornando al punto di partenza, se dovessimo collocare in ordine logico le diverse disposizioni contenute negli artt. 7 e 8 della costituzione, porremmo al primo punto l’eguale libertà di tutte le confessioni religiose. La chiesa cattolica è citata nell’art. 7: “Lo stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani”. L’andamento di questa disposizione appare ricognitivo e non prescrittivo; non ordina ma prende atto; non impone comportamenti ma stabilisce un principio. In assemblea costituente era sostenuto da alcuni (Calamandrei) che questa fosse una disposizione inutile, anzi oscura o sbagliata, perché se due ordinamenti sono sovrani non è l’attribuzione che uno di essi faccia all’altro che ne determina la qualità. La sovranità è una caratteristica propria quindi dell’ordinamento della chiesa. Questa disposizione è importante perché su di essa si fonda il secondo comma dell’art. 7. E’ il fondamento strutturale del principio di bilateralità che costituisce l’altro cardine del sistema. Questa formulazione è in controtendenza con la impostazione tradizionale ottocentesca che rivendicava solo alla figura “stato” la qualificazione di essere sovrano; la chiesa, sotto questo aspetto, poteva essere libera nello stato, nell’ambito della sovranità statale. La formula di Cavour era “libera chiesa in libero stato”. In fondo questa era anche la linea della legge delle guarentigie: per quanta ampia libertà assicurasse alla chiesa, la considerava nell’ordinamento statale, come attuazione del principio cavouriano. C’è il riconoscimento della indipendenza e sovranità della chiesa, cioè della chiesa come ordinamento giuridico primario. Non deriva la propria giuridicità dal diritto dello stato. Nella impostazione ottocentesca il diritto canonico veniva visto nel rango statutario, e non come norma giuridica primaria. “Indipendenza e sovranità” significa che la chiesa ha un proprio ordinamento giuridico. Allora in questa formula troviamo una traccia esplicita del principio pluralistico che riempie di sé tutta la costituzione. L’impostazione di fondo della costituzione è il riconoscimento di una pluralità di ordinamenti. In questo caso, al massimo livello, perché si fa riferimento alla sovranità. Nella costituzione si fa un uso molto parsimonioso del termine “sovranità”: art. 1, art. 11. Stato e chiesa sono reciprocamente indipendenti e sovrani, perché il tipo di valutazione è bidirezionale. Si stabilisce un principio di parità tra questi ordinamenti: la chiesa non è sottomessa o sottoposta allo stato o al suo ordinamento; lo stato non è sottomesso o sottoposto alla chiesa o al suo ordinamento. Ma come fanno a coesistere queste due sovranità? L’esistenza delle sovranità è semplice quando esse si esprimono rispetto a comunità diverse. La nostra esperienza statale è assestata sul principio della territorialità degli ordinamenti giuridici. Il territorio è tradizionalmente considerato uno degli elementi dello stato (territorio, poi popolo e governo). In questo caso questo schema non vale per la chiesa in quanto tale, perché la comunità dei cittadini e la comunità dei fedeli può essere in larga misura rappresentata dagli stessi individui, dalle stesse persone fisiche. Perciò vi è una sovrapposizione degli ordinamenti, non una giustapposizione di essi. Non c’è una divisione orizzontale. Il diritto dell’uno e il diritto dell’altro pretendono obbedienza da parte degli stessi individui. Il destinatario delle norme canoniche e il destinatario delle norme statali è spesso la stessa persona nella qualità di fedele o di cittadino. Ci sono le sovranità singolari che dovrebbero elidersi reciprocamente se non ci fosse la precisazione del riconoscimento che l’art. 7 ne dà come “ciascuno nel proprio ordine”. C’è una distinzione degli ordini, una coesistenza degli ordinamenti che può essere non conflittuale perché sono distinti gli ordini e quindi sono distinte le competenze. Hanno competenze diverse che non dovrebbero essere configgenti. Questa è l’attuazione di un principio dualistico che ha una radice e un fondamento cristiano (“Date a Cesare”). L’impostazione dualistica (basata sulla distinzione di competenze e la presenza di due poteri) è diversa da altre tradizioni come l’esperienza pagana, la tradizione islamica, la tradizione giudaica. Se allora le sovranità coesistono ma sono distinte per competenza e per ordini, il problema è individuare la linea di confine tra i rispettivi ordini, che non è una linea territoriale, ma una linea di confine tra competenze. Il rispetto di quella linea di confine garantisce la piena e pacifica affermazione delle due sovranità. L’art. 7.1 si ispira ed enuncia una impostazione dualistica paritaria nel sistema di relazione tra stato e chiesa. La coesistenza di questi ordinamenti con competenze diverse implica una loro complementarietà. Non sono antagonisti, ma in qualche modo convergenti. In questo si incentra l’idea delle materie miste. “Miste” significa “materie nelle quali incidono gli interessi e le competenze sia dello stato che della chiesa”. Non è res propria esclusivamente dell’uno o dell’altro ordinamento. Le materie miste possono essere terreno di conflitto se ciascuno di essi rivendica la competenza a disciplinarne in esclusiva. Può essere materia di convergenza se ciascuno dei due ordinamenti disciplina un aspetto di quell’oggetto materiale e quasi implica e presuppone che la disciplina di quell’oggetto materiale sia integrata dall’altro ordinamento. Sotto questo aspetto si attua una integrazione tra i due ordinamenti. Volendo esemplificare, anche quando la chiesa ha affermato fortemente la propria competenza a disciplinare il negozio matrimoniale stabilendo che non può esservi matrimonio scisso dal carattere sacramentale, non ha mai preteso di disciplinare i rapporti patrimoniali che ne discendono. Anche quando la chiesa ha regolamentato la propria organizzazione, la struttura dei propri enti e la rappresentanza degli stessi configurati come persone giuridiche non ha mai preteso di dettare la disciplina dei contratti. In presenza di materie miste l’atto formale che coordina le competenze è tradizionalmente il concordato ecclesiastico. Il concordato opera di massima nei cosiddetti sistemi di relazioni basati sul coordinamento tra stato e chiesa. Questa espressione vale sinteticamente a distinguere questi sistemi dai sistemi di unione nei quali vi è una fusione e confusione di ruoli (chiese di stato, modello teocratico dello stato). In questi due casi abbiamo alternativamente o la subordinazione della religione allo stato (chiesa di stato, espressione della statualità anche in campo religioso) o subordinazione dello stato alla religione (teocrazia). Nei sistemi di separazione la distinzione tra chiesa e stato può portare a un disconoscimento delle caratteristiche proprie della chiesa e del suo ruolo e l’assimilazione della chiesa a qualsiasi altra figura associativa o istituzionale. Abbiamo una separazione tra chiesa e stato quando non c’è un reciproco riconoscimento, che porta a considerare la chiesa non con le caratteristiche istituzionali proprie ma alla stregua di altri fenomeni di tipo associativo o di tipo istituzionale. Nei sistemi di coordinazione invece i due enti si prendono reciprocamente in considerazione e cooperano in rapporto alla finalità a ciascuno di essi propria. Ecco da dove nasce la impostazione o il fondamento del principio di libateralità. Principio di bilateralità: non è un ordinamento che disciplina unilateralmente le relazioni con l’altro ma che le relazioni reciproche sono basate sul reciproco consenso, su un atto bilaterale paritario quale è appunto il concordato ecclesiastico, che è una convenzione tra enti sovrani (tra la Santa Sede e uno specifico stato) per regolamentare la situazione giuridica della chiesa in quello stato. Si riversa sulle caratteristiche di questo atto l’altra caratteristica di partenza dell’essere i due enti sovrani incidenti sulla medesima comunità. Sotto questo aspetto si potrebbe quasi dire che il concordato è asimmetrico perché non disciplina la condizione dello stato nella chiesa. Certo, può prevedere dei poteri che lo stato esercita in ambito ecclesiastico. Pensate al potere di presentazione dei vescovi, o il consenso attraverso la clausola politica per la nomina dei vescovi da parte della Santa Sede. Ma l’essenza del concordato è la disciplina della condizione giuridica della chiesa in un ordinamento statale. Dal punto di vista soggettivo è un accordo di tipo esterno rispetto all’ordinamento dello stato. L’ordinamento concordatario è del tutto analogo se non integrato con l’ordinamento internazionale, ed è perciò caratterizzato dalla sovranità dei soggetti. Cosa diversa avviene quando, ad esempio, il principio di bilateralità si esprime a livello nazionale con accordi tra il governo e la conferenza episcopale, organo della chiesa nazionale. In quel caso l’accordo non è internazionalistico. Il concordato ha queste movenze internazionali per l’internazionalità dei soggetti che lo stipulano; lo ha tradizionalmente per la sua evoluzione storica come istituto; lo ha dal punto di vista procedurale. Il concordato, come ogni altro accordo internazionale, è negoziato, sottoscritto, ratificato mediante una legge di autorizzazione alla ratifica e un ordine di esecuzione che immette le norme concordatarie nell’ordinamento dello stato. E’ un atto esterno rispetto al quale vale il principio generale delle norme di diritto internazionale pacta sunt servanda. Valgono tutte le regole internazionalistiche. Ogni violazione è violazione che può sviluppare teoricamente tutti i tipi di reazione che l’ordinamento internazionale prevede. In caso di conflitti gli stati possono, per loro accordo, possono sottoporsi a una giurisdizione internazionale. Non esiste un governo internazionale che ha una potestà di giurisdizione ma è sempre la volontà dei soggetti in un ordinamento che opera alla base degli impegni. In caso di conflitto gli stati possono sottoporsi ad una decisione di una corte internazionale. Questo non accade per i concordati perché la Santa Sede, tradizionalmente, non accetta di essere giudicata: prima sedes a nemine iudicatur. I concordati, come tutti gli accordi internazionali, possono essere attuati, disattesi o violati, modificati, denunciati. Seguono le vicende dei rapporti tra stato e chiesa e hanno dei contenuti diversi in rapporto al diverso tipo di stato con il quale operano. E’ evidente che un concordato o un accordo tra la Santa Sede e uno stato con impostazione totalitaria o autoritaria tende a riservare spazi di libertà per la chiesa e per i cattolici. Il concordato con un ordinamento che garantisce già i diritti fondamentali e le libertà ecclesiastiche ha un contenuto diverso. Spesso i concordati segnano la transizione dallo stato autoritario allo stato democratico (come è stato per la Spagna franchista). Le vicende concordatarie seguono l’evoluzione delle vicende storiche. Sono innestate sulle competenze che l’ordinamento costituzionale di ciascuno prevede. Negli stati federali a volte i concordati sono stipulati dagli stati federati (in Germania dai singoli Länder, anche se sopravvive il concordato con il Terzo Reich). Nell’assetto italiano il concordato vigente è quello del 1984. Ma prima nel 1929 ci furono i patti lateranensi. Il concordato lateranense aveva risolto la questione romana ed era stato stabilizzato (per alcuni recepito) nella costituzione attraverso l’art. 7.2. La prima frase ha una forma ricognitiva: “I loro rapporti sono regolati dai patti lateranensi”. Il concordato del 1929 è un concordato con uno stato autoritario e tende a garantire degli spazi di libertà per la chiesa, oltre ad affermare alcuni elementi considerati di tipo confessionistico. Gli spazi di libertà riguardavano l’associazionismo cattolico, il limite posto al regime autoritario che tendeva a monopolizzare la formazione della gioventù, la libertà nomina degli investiti di uffici ecclesiastici, pur con una clausola politica che consentiva al governo di esprimere riserve in via confidenziale sulla nomina dei vescovi. La impostazione complessiva faceva perno su due elementi fondamentali:
1. il riconoscimento del matrimonio canonico come sacramento destinato a produrre effetti civili
2. insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche come materia ordinaria (si diceva: “fondamento e coronamento dell’istruzione”)
Anche nelle espressioni formali (sacralità riferita al matrimonio, fondamento e coronamento riferito all’istruzione) alcuni dicevano che ci fossero degli elementi di confessionalizzazione dello stato pienamente coerenti con il richiamo che i patti lateranensi facevano al principio, già stabilito dallo Statuto Albertino, della religione cattolica come unica religione dello stato. Esistevano delle norme non compatibili con la costituzione. L’art. 5 del concordato del 1929, oltre a chiedere l’autorizzazione ecclesiastica per chi volesse coprire, tra gli ecclesiastici, funzioni pubbliche, escludeva da queste funzioni sacerdoti che avevano avuto la sanzione ecclesiastica della censura o erano apostati. Si riteneva che anche le cariche pubbliche elettive non potevano essere attribuite a costoro. Era evidente in questo e in altri casi il conflitto con norme costituzionali (quali l’eguaglianza nell’accesso ai pubblici uffici). La costituzione stessa prefigura modificazioni del concordato, rispettose del principio di bilateralità. Quando la costituzione fa riferimento a modificazioni accettate dalle due parti, riafferma il principio di bilateralità, non solo per l’atto genetico originario (in concordato del 1929) ma anche per la successiva evoluzione. Il principio di bilateralità è la regola della disciplina delle relazioni tra stato e chiesa e la regola delle modificazioni della disciplina delle relazioni tra stato e chiesa. Non è un principio che si è esaurito nell’atto che ha dato ad esso espressione, ma è un principio che ispira tutta l’evoluzione del diritto ecclesiastico. Ecco che recuperiamo due grandi pilastri: per quanto riguarda i soggetti l’indipendenza e sovranità (vedremo con le altre confessioni religiose questo come si coniuga); per quanto riguarda le relazioni principio di bilateralità.

Ecclesiastico Mar 3
Non esiste una chiesa o una confessione religiosa di stato. La dimensione religiosa è una dimensione della società, che riguarda la comunità. Non c’è una scelta di fede da parte dello stato. Eguale libertà (per le confessioni religiose) non significa tuttavia eguaglianza, cioè un trattamento identico per tutte le confessioni religiose, che possono essere confessioni molto diverse, nella loro struttura, nelle loro esigenze e nel modo di rapportarsi con lo stato. Alcune hanno una struttura gerarchica fortemente organizzata. La chiesa cattolica si pone come ordinamento giuridico primario e sovrano; ha un complesso di principi, una struttura gerarchica ed un diritto addirittura codificato che disciplina tutti i rapporti, ed ha autorità rappresentative. Ci sono poi confessioni con un minore grado di strutturazione istituzionale, certamente organizzate con uffici propri, ma con strutture molto diverse e a volte con il rifiuto di una dimensione giuridica articolata e complessa. C’è tuttavia eguaglianza nel godimento della libertà. Non ci possono essere diversità di trattamento che incidano sulla libertà individuale, collettiva e istituzionale. Non solo la libertà religiosa nel suo significato più ristretto (espressione della fede, esercizio del culto, il godimento delle libertà istituzionali e quindi anche la libertà di associazione o di riunione, che possono essere sia strumentali in rapporto alla libertà religiosa o indipendentemente da questa forma). Quindi eguale libertà non necessariamente implica identità di trattamento e di disciplina. Naturalmente le diversità di disciplina devono essere giustificate.
Gli altri 2 commi dell’art. 8 della costituzione rispecchiano i principi di fondo posti alla base dell’art. 7 della costituzione: il principio della autonomia istituzionale o indipendenza delle confessioni religiose e l’altro principio della bilateralità dei rapporti con lo stato e della disciplina dei rapporti con lo stato. Art. 8 secondo comma: “Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano”. I soggetti di questo comma sono le confessioni religiose diverse dalla cattolica. Si elimina da questo elenco la chiesa cattolica poiché i suoi rapporti con lo stato sono già stati disciplinati nell’art. 7 della costituzione. L’art. 8 comma secondo individua i soggetti per opposizione o residuale (“tutte quelle diverse da…”). Se collocate questa espressione “confessioni religiose” nel contesto del lessico normativo e nella sua evoluzione vedete che ha una successione di espressioni formali diversa da quella storicamente adottata dal legislatore. Se ci riferiamo allo Statuto Albertino, che individuava nella religione cattolica apostolica romana la sola religione dello stato, le altre confessioni venivano delineati come “culti tollerati”, cioè culti ai quali era assicurata una libertà di manifestazione. La tolleranza è la prima delle manifestazioni di livello più basso per il godimento della libertà. Si tollera ciò che non si contrasta ma che non ha un pieno diritto. Questo anche se, immediatamente dopo lo Statuto Albertino, una legge di iniziativa parlamentare (legge Tineo) stabilì che una differente appartenenza confessione non formava divieto per il godimento dei diritti civili o politici e per l’accesso alle cariche pubbliche. Questa, più che una precisazione, era una integrazione dello statuto, che era possibile poiché lo statuto era una costituzione flessibile: ogni legge posteriore poteva derogare anche la norma statutaria. I culti tollerati erano la chiesa valdese, che tradizionalmente era insediata in alcune valli del Piemonte, nell’ambito delle chiese riformate; le comunità ebraiche, che hanno sempre mantenuto una loro diversità anche sociale oltreché religiosa. Anche l’espressione “culto” riferita ad una comunità appare piuttosto una trasposizione, poiché il culto è il rito o l’atto di omaggio nei confronti della divinità. E’ una modalità di espressione del sentimento religioso e della religiosità. La seconda espressione che storicamente si manifesta in questo settore è con la legislazione immediatamente successiva al concordato del 1929 che completa il sistema di diritto ecclesiastico dell’epoca e disciplina “i culti ammessi”. Mantiene l’espressione sostantiva di “culto” e, attraverso la qualificazione “ammessi”, sostanzialmente consente di prefigurare che vi possano essere dei culti non ammessi, cioè che non tutte le comunità religiose abbiano diritto di cittadinanza nell’ordinamento dello stato (con la possibilità di limitare quindi alcune espressioni di libertà). La costituzione usa un’espressione diversa: “confessione religiosa” e non usa la parola culto. Anche qui il termine evoca un elemento di livello contenutistico della fede. A caratterizzare l’identità della confessione religiosa è il contenuto della fede. Questo elemento si mantiene perché ciascuna confessione religiosa è caratterizzata da un contenuto di fede che si distingue dalle altre per propria specifica identità. Se vogliamo arrivare a una definizione della nozione di confessione religiosa che la costituzione adotta e ci offre dobbiamo individuare questo contenuto dalla considerazione ricognitiva che la costituzione fa delle confessioni religiose. Perché ci sia una confessione religiosa è necessario che ci sia un gruppo sociale, una comunità, unificata dall’identità di fede religiosa. Diremmo una plurisoggettività permanente, una molteplicità di individui che formano una comunità. Confessione religiosa quindi non solo come contenuto di fede ma comunità che professa quella fede religiosa. L’esserci o meno una comunità è un elemento di carattere sociologico. La comunità implica una consistenza e una identificazione aldilà dei singoli soggetti che la compongono. Se consideriamo dal punto di vista civile una comunità territoriale, una città, abbiamo flussi di uscita e di entrata permanenti, ma l’identità della comunità permane perché questi flussi non incidono sulla esistenza e permanenza della comunità, che si manifesta allora come stato permanente. Le acque di un lago con emissari ed immissari mutano costantemente ma il lago mantiene la sua identità, pur nella variazione degli elementi che continuano a comporlo. Sotto questo aspetto la comunità permanente si distingue da elementi occasionali che possiamo avere nelle riunioni che si compongono e si scompongono (la riunione ha una caratterizzazione più episodica) e si distingue dalle associazioni nelle quali tuttavia il vincolo può dar vita a qualche aspetto di comunità. Il dato sociologico è il dato di base: è la comunità, caratterizzata dalla fede religiosa. Gli altri elementi sono le norme e l’organizzazione. Questi elementi sono ricavabili dall’art. 8 della costituzione: “Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti”. L’esistenza di una organizzazione nell’ambito di una comunità significa che la comunità ha una struttura di uffici e funzioni che sono riferite alla funzione stessa della comunità. L’organizzazione indica una sorta di attribuzione di governo. La comunità non può che essere una comunità organizzata nella quale o singoli individui o articolazioni più complesse assolvono le funzioni proprie del gruppo. Intendiamo ufficio nel senso classico, cioè attività che si sviluppa nell’interesse non solo di colui che ne è investito. Un esempio è l’ufficio di carattere personale, incentrato sulla figura di una persona, che prende però decisioni per il gruppo. Un esempio è il monarca assoluto, titolare di un potere nell’ambito dell’organizzazione del gruppo sociale. Nel caso di una confessione religiosa, l’ufficio del sommo pontefice è personale, cioè è una persona che è investita di una funzione. E’ personale anche l’ufficio del vescovo. Ci può essere un’organizzazione che invece è strutturata in uffici complessi nella loro articolazione. Il parlamento, l’organo collegiale per eccellenza, fa parte della articolazione organizzativa costituzionale dello stato. Le modalità e le complessità dell’organizzazione possono essere le più varie. Quello che rileva è che il gruppo non è allo stato fluido ma ha una propria organizzazione e quindi una propria struttura organizzativa. La struttura organizzativa è raccordata alle finalità proprie del gruppo. Ogni struttura organizzativa (e introduciamo così l’altro elemento, quello della normazione) è disciplinata da regole. Se esercita un potere e una funzione, lo fa in base a norme che attribuiscono quel potere o individuano e ne delimitano la funzione. Queste norme possono essere autonome o eteronome, cioè date dallo stesso gruppo sociale o attribuite da altri. L’art. 8 stabilisce un principio di autonomia, riconoscendo che le confessioni religiose hanno il diritto di organizzarsi sulla base di una normazione propria, con dei propri statuti. Lo statuto disciplina lo scopo e l’articolazione organizzativa interna, oltreché gli elementi patrimoniali e personali, gli uffici, i poteri. C’è un limite a questa autonomia, deducibile dall’ultima parte del secondo comma dell’art. 8: “in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano”. Questa formula contiene elementi continuità e novità rispetto ad altre espressioni. C’è un limite che abitualmente è utilizzato come clausola di esclusione dall’ingresso di norme interne nell’ordinamento statale. Per esempio, nel rapporto fra ordinamenti c’è il limite del mantenimento dell’ordine pubblico. E’ un limite che copre anche il campo privatistico e internazionale, qualificando attraverso questo strumento la inderogabilità o di norme cogenti che limitano l’autonomia dei privati o di norme inderogabili che non consentono l’ingresso di norme o atti stranieri altrimenti applicati. E’ una clausola di restrizione e salvaguardia. Si era ritenuto, nel precedente regime, che alcune confessioni religiose, per la loro espressione di culto, contrastassero con l’ordine pubblico inteso come ordine di polizia. Ma anche l’espressione “ordine pubblico” ha una molteplicità di significati. Ci può essere una manifestazione che contrasta con l’ordine pubblico; ci può essere un contratto che contrasta con l’ordine pubblico. E’ una espressione classica. Come in altri casi, l’adozione di terminologia diversa da parte del costituente tende ad epurare le espressioni usate del carico interpretativo che avrebbero in base ad un uso precedente diverso (in questo caso, l’uso del termine “ordine pubblico”, sostituito con “ordinamento giuridico italiano”). Se si fosse usato “purché non siano in contrasto con l’ordine pubblico” si sarebbero inseriti all’interno dell’ordinamento dello stato dei limiti posti dallo stato alla confessione religiosa. Ricaviamo due elementi dall’espressione usata nell’art. 8: una (“purché non contrasti con i principi dell’ordinamento giuridico italiano”) dalla caratterizzazione alle confessioni religiose come ordinamento autonomo, riconosciuto in quanto non contrasta con l’ordinamento dello stato. E allora questo riferimento, sia pure indiretto, autorizza, in chiave di attuazione del principio pluralistico (cioè di pluralità degli ordinamenti giuridici), quello che avevamo precedentemente indicato: una comunità, con organizzazione e norme autonome, che individuano le caratteristiche proprie di un ordinamento giuridico secondo una concezione pluralistica. L’art. 8 è forse una delle maggiori espressioni della impostazione pluralistica della costituzione. Il riconoscimento di ordinamenti diversi da quello dello stato in un campo, quello religioso, che non è di competenza dello stato. Ci si muove in un grado diverso perché non viene riconosciuta la sovranità delle confessioni religiose, ma viene riconosciuta una loro autonomia istituzionale. Sono ordinamenti con funzioni autonome nella organizzazione: ciò significa che lo stato non può disciplinare l’organizzazione di una confessione religiosa. E l’organizzazione della confessione religiosa è riconosciuta dallo stato in quanto non contrasti con l’ordinamento giuridico italiano. Il che significa non in un ambito di autonomia privata. In ipotesi, nell’ambito dei fenomeni associativi si ritiene che ci sia un principio di democraticità. Non è così per le confessioni religiose. Gli uffici delle confessioni religiose possono non far derivare i loro poteri dalla volontà dei soggetti che partecipano alla comunità. La titolarità degli uffici può essere connessa ad altri elementi. Il non contrasto con l’ordinamento giuridico italiano riguarda gli statuti o i contenuti. E’ evidente che le prescrizioni di una certa confessione religiosa si possano riversare sui comportamenti sociali. Vediamo concretamente in quali settori s’è posto il caso. Ci sono alcune confessioni religiose che escludono che si possa prestare servizio militare (armato o non armato) o il servizio sostitutivo. Lo stato ha maturato una esperienza che ha consentito di riconoscere l’obiezione di coscienza, cioè il diritto di sottrarsi da obbligazioni altrimenti dovute per ragione di coscienza. Di fronte al dovere costituzionale della difesa della patria, si pone in contrasto con l’ordinamento giuridico dello stato la confessione che abbia quei contenuti riferibili a una scelta di obiezione di coscienza? O ancora, in altre confessioni religiose, è esclusa per motivi di coscienza la emotrasfusione. Questo può comportare a problemi particolari quando non si tratti di adulti ma si tratti di minori, per i quali la potestà è esercitata dai genitori. Vi è un conflitto con i principi dell’ordinamento dello stato? Quello che dice l’art. 8 della costituzione non riguarda il contenuto di fede e non può incidere sui contenuti di fede. Il contrasto con l’ordinamento giuridico italiano si pone quando la confessione religiosa abbia un contenuto e una prassi lesiva dei diritti fondamentali (ad es. se ha trai suoi principi e tra le sue pratiche uccisioni rituali o la poligamia). Certamente non ci può essere ingresso a norme e comportamenti che siano in conflitto con diritti e regole stabiliti dallo stato, ma il contenuto dell’art. 8 ha una finalità più limitata e si riferisce alle strutture organizzative, alle modalità espressive del gruppo, non ai contenuti della fede religiosa rispetto ai quali opera invece l’art. 19 della costituzione. L’art. 19 dice: “Tutti hanno il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale e associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”. I contenuti di fede non trovano limitazione alcuna. Il limite non è nelle credenze, cioò di cosa la persona crede o di cosa la comunità e quindi la confessione crede come contenuto della fede religiosa. Ma il limite sta in un altro elemento, cioè dal buon costume, riferito non ai contenuti i fede ma ai riti, alle attività di carattere abituale di espressione della fede. Anche qui l’ordine pubblico non compare, perché si fa riferimento a un altro elemento in qualche modo elastico ma egualmente capace di limitare la manifestazione di atti che sono in contrasto con il buon costume. Ora, sul versante organizzativo-strutturale esiste quel non contrasto con l’ordinamento italiano. Il che tuttavia non significa che sia un elemento irrilevante, perché potrebbe accadere che un gruppo di carattere religioso che si articola in associazioni segrete o che abbia per finalità il terrorismo si colloca fuori dal versante garantito dall’art. 8. Ha diritto a organizzarsi secondo propri statuti per svolgere una attività che addirittura è difficile qualificare religiosa? L’elemento religioso, anche laddove sia motivazione di questi comportamenti sociali, non è un elemento di auto qualificazione del gruppo. Non è che il gruppo stesso definisce ciò che è religioso e ciò che non lo è. Ma il significato delle parole è quello che vive ed opera secondo la lettura che ne dà l’ordinamento dello stato. Il terrorismo potrebbe essere reputato dal gruppo attività religiosa ma certamente non verrebbe considerata dall’ordinamento dello stato. Comunque si tratta di ipotesi marginali. Il secondo comma dell’art. 8 vuole essere un riconoscimento di autonomia istituzionale delle confessioni, largamente assimilabile al riconoscimento dell’indipendenza della chiesa cattolica. L’elemento di fondo è che lo stato non può interferire nell’organizzazione della confessione religiosa, la quale si organizza autonomamente secondo proprie regole, delle quali lo stato prende atto e che lo stato non fa proprie. Su questa base, il terzo comma dell’art. 8 prefigura l’attuazione dell’altro pilastro: il principio di bilateralità nelle relazioni tra stato e chiesa. Art. 8.3: “I loro rapporti con lo stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”. Partiamo dalla individuazione dei soggetti (le rappresentanze delle confessioni religiose) che concludono intese con lo stato. Analizzeremo poi il carattere di novità che ha l’espressione “intesa”. “Regolati per legge” indica una evidente riserva di legge. L’espressione “intese” (non accordi, non convezioni) ha un carattere di novità che qualifica in senso molto ampio. Fermandoci adesso all’elemento della rappresentanza, c’è l’interesse di far parte di una rappresentanza organica, cioè s’attesta la volontà per certe confessioni religiose di avere soggetti (rappresentanti) che sono investiti di questo potere sulla base delle regole proprie della confessione religiosa. Non è lo stato che individua i propri interlocutori né i poteri che essi hanno di manifestare la volontà della confessione religiosa. I rappresentanti sono espressione di un ufficio della confessione, manifestano perciò un aspetto organizzativo, secondo le regole proprie della confessione religiosa.
Differenza art. 8 e art. 19. L’art. 19 esprime il diritto di libertà religiosa ancorato all’espressione individuale e collettiva della scelta religiosa. L’art. 8 riguarda la dimensione istituzionale, non i contenuti della credenza religiosa, ma l’aspetto istituzionale (cioè organizzativo e normativo) della confessione. Il 19 può essere anche scisso da una confessione religiosa perché ci può essere una credenza religiosa del tutto individuale, ugualmente protetta nel diritto di manifestarsi. Il più delle volte l’espressione religiosa è connessa ad una comunità. La credenza religiosa è garantita anche se uno solo ha quella espressione di fede. Non può dar luogo a elementi associativi, senza che ci siano gli elementi della confessione religiosa (comunità, organizzazione, normazione). La confessione gode della libertà di manifestazione, può avere regole proprie. Ma la distinzione è: (nell’art. 8) riconoscimento come ordinamenti delle confessioni religiose, nella loro autonomia quale base per il rapporto con lo stato; (nell’art. 19) ambito di godimento del diritto della libertà religiosa.

Ecclesiastico Mar 10
La volta scorsa abbiamo visto come si afferma per le confessioni religiose diverse dalla cattolica il principio di autonomia istituzione delle confessioni religiose. Oggi vediamo il secondo pilastro della struttura costituzionale, cioè come si attua il principio di bilateralità in quest’ambito. Ricordate che la chiesa cattolica ha come primo principio quello della sovranità propria. Nella distinzione degli ordini c’è una assoluta primarietà di questo ordinamento: l’ordinamento della chiesa è un ordinamento giuridico primario che non deriva dallo stato e ha una propria competenza coesistente con le competenze dello stato. per le altre confessioni religiose c’è l’autonomia istituzionale, cioè la capacità di dettare norme proprie e di darsi autonomamente una organizzazione. Anche qui, da un punto di vista pluralistico, siamo in presenza di ordinamenti giuridici. Quel che ne discende è che lo stato non può, con proprie norme, disciplinare l’organizzazione di una confessione religiosa, la sua struttura, le regole che disciplinano i rapporti interni alla confessione religiosa. Posto questo principio ne nasce quasi come una logica conseguenza che lo stato non possa dettare unilateralmente la disciplina dei suoi rapporti con le confessioni religiose. Se ci sono delle materie nelle quali convergono competenze confessionali e competenze statali occorre che alla base vi sia un consenso. Perciò lo stato prende atto della disciplina confessionale quando questa sia il presupposto della disciplina statale (quando ad esempio lo stato prende in considerazione la condizione dei ministri di culto presuppone una disciplina propria delle confessioni religiose che individuano questi soggetti; quando lo stato attribuisce rilievo alla celebrazione del matrimonio in forma religiosa deve concordare con le confessioni le modalità di questo contatto tra l’ordinamento dello stato e l’ordinamento confessionale). Perciò da una parte abbiamo il primo pilastro: principio di autonomia e sovranità per la chiesa cattolica. Il secondo pilastro: principio di bilateralità nelle relazioni tra stato e confessioni religiose. Abbiamo visto che questo principio di bilateralità si esprime, per quanto riguarda la chiesa cattolica, con il concordato. Questo singolare tipo di accordo che ha caratteristiche internazionalistiche sia per la qualità dei soggetti (sia lo stato che la Santa Sede sono enti sovrani, hanno la personalità giuridica internazionale) sia per la forma con la quale questo accordo è stipulato, sia per le procedure che sono del tutto analoghe alle procedure relative ai trattati internazionali (negoziazione a livello governativo per lo stato, sottoscrizione da parte dei plenipotenziari e di chi ha mandato a sottoscrivere da parte dello stato e da parte della chiesa, autorizzazione alla ratifica, ratifica che perfeziona l’accordo). La sottoscrizione significa il confezionamento di un testo idoneo ad essere l’oggetto della volontà dei due soggetti. Non è perciò ancora giuridicamente vincolante se non secondo un principio di buona fede. Se dovessimo assimilare questo schema allo schema privatistico dovremmo dire che ne può sorgere una sorta di responsabilità precontrattuale, semmai si potesse usare questa terminologia o questi istituti in ambito internazionale. Il vincolo sorge nel momento di scambio delle ratifiche, cioè nel momento in cui i due soggetti stipulanti dichiarano reciprocamente la volontà di obbligarsi. Anche qui, su scala internazionale, si ha un modello non dissimile da quello proprio del contratto nel rapporto tra proposta e accettazione (c’è una contestualità). Lo scambio delle ratifiche presuppone il formarsi della volontà dei soggetti destinata ad essere dichiarata all’altra parte con la ratifica. Ecco perché la ratifica presuppone da parte dello stato una legge di autorizzazione alla ratifica. L’organo che forma la volontà dello stato sul piano normativo è il parlamento. Il trattato è destinato a inserire norme nell’ordinamento. Ecco perché la legge di autorizzazione alla ratifica contiene abitualmente l’ordine di esecuzione; cioè si autorizza il governo alla ratifica e si stabilisce che sarà data esecuzione all’interno dello stato all’accordo che viene raggiunto travasando quindi, mediante l’ordine di esecuzione, le norme pattizie in norme interne dello stato. Mentre il governo negozia e raggiunge l’accordo, il parlamento delibera, forma la volontà dello stato e con lo scambio delle ratifiche l’accordo si perfezione nell’ambito internazionale e diventa l’atto bilaterale da eseguire all’interno dello stato. Nel caso del concordato abbiamo l’attuazione del principio di bilateralità al massimo livello. Le norme pattizie sono destinate ad essere immediatamente tradotte in norme interne. A queste può essere necessario aggiungere norme di attuazione che distinguiamo dall’ordine di esecuzione trattandosi di norme interne che incidono sul tessuto normativo per rendere possibile l’adempimento degli obblighi internazionali o pattizi quando non è sufficiente la mera recezione delle norme pattizie attraverso l’ordine di esecuzione, perché dovrebbero essere per esempio modificati istituti giuridici, adottate norme di organizzazione etc. Ne avete un esempio nel riconoscimento del matrimonio religioso che richiede norme organizzative relative alla tenuta dei registri dello stato civile, degli atti di matrimonio, richiede procedure statali, competenze e attività degli ufficiali dello stato civile, cioè una disciplina interna che sia idonea a recepire ed eseguire le norme pattizie. L’ordine di esecuzione consente, nella sua generica espressione, di trasferire l’obbligazione esterna dello stato in obblighi a carico di tutti coloro che devono osservare quelle norme. A volte si richiede che per l’attuazione di questo impegno ci siano altre regole che lo stato stabilisce autonomamente in conformità dell’obbligo internazionale. Se questo è il sistema di attuazione del principio di bilateralità per i rapporti con la chiesa cattolica, su una lunghezza d’onda simile ma di grado diverso si esprime l’attuazione del principio di bilateralità per le confessioni religiose diverse dalla cattolica. Abbiamo già una diversità di soggetti. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica non hanno un ente esponenziale, un centro di imputazione al quale sia riconosciuta la soggettività internazionale; non stipulano trattati internazionali come può fare la Santa Sede. Sono organismi autonomi ma non hanno o non vedono riconosciuto il carattere proprio della sovranità. Allora la garanzia che l’art. 8 predispone per attuare il principio di bilateralità è l’istituto dell’intesa. L’art. 8.3 dice: “I loro rapporti con lo stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze”. La forma adottata “regolate per legge” enuncia innanzitutto una riserva di legge: non ci possono essere altre fonti normative che disciplinano le relazioni tra lo stato e le confessioni religiose. Questa è una garanzia politico-istituzionale. Non è rimessa all’autorità del governo (attraverso regolamenti o altri atti) la competenza a disciplinare queste relazioni, ma è l’organo rappresentativo della volontà popolare che attraverso la legge (con una integrazione alla legge) può disciplinare queste relazioni. La riserva di legge è detta “rinforzata” perché non vi è un’assoluta libertà del legislatore di provvedere, sia dal punto di vista procedurale sia dal punto di vista dei contenuti. Se la norma costituzionale stabilisse solamente una garanzia ristretta alla riserva di legge non attuerebbe affatto un principio di bilateralità, essendo solo il legislatore a dettare i contenuti della disciplina delle relazioni con le confessioni religiose. Manterrebbe anzi una competenza statale unilaterale a disciplinare questi rapporti, sino ad una forma che potremmo dire “giurisdizionalista”. L’elemento aggiuntivo che la costituzione prevede è che la legge sia adottata sulla base di intese. C’è quindi in atto esterno alla legge e alla procedura legislativa che in qualche modo la condiziona. Questo atto sono le intese con le rappresentanze delle confessioni religiose. Ecco che si manifesta il principio di bilateralità. La legge è condizionata dalle intese con le rappresentanze delle confessioni religiose, naturalmente per un oggetto definito, cioè le relazioni tra lo stato e le confessioni religiose. La materia, sia pure genericamente, è indicata dalla norma costituzionale. Il termine “intesa” ha carattere di novità. Come l’espressione “confessioni religiose” entra nella costituzione nel lessico normativo, così vale per il termine “Intese”, diverso da quello di accordo, convenzione, trattati, patti. Nel testo costituzionale c’è un qualche margine di indefinitezza in una certa misura intenzionale, poiché si trattava di aprire ad un fenomeno ed a un istituto nuovo, da costruire. Difatti il termine “Intesa”, aldilà della specifica previsione in materia ecclesiasticistica, ha una qualche latitudine di applicazioni. Nell’ambito del diritto pubblico l’espressione “intesa” è presente nelle “intese fra stato e regioni”, che si qualificano al loro interno come intese deboli o intese forti a seconda del grado di forte vincolatilità che essere hanno. Le intese sono caratterizzate da una alterità di soggetti. Le intese sono caratterizzate da un obiettivo comune, da una comunità di interessi, e una duplicità di competenze. Ci si intende per l’esercizio di poteri che riguardano ciascuno dei soggetti, poteri incidenti sulla medesima materia, che necessitano una qualche forma di coordinamento. L’intesa è sempre un convenire su un obiettivo o su di una regola. L’intesa orienta e vincola l’azione dei soggetti che la raggiungono. L’art. 8.3 non chiarisce i contenuti definiti dell’intesa e la esperienza successiva è stata di un doppio segno: passando da alcune cosiddette piccole intese in determinate e specifiche materie, al sistema complessivo di intese nel senso più ampio della previsione costituzionale (dopo il 1984, accordo di revisione del concordato).
Le “piccole intese” sono così qualificate perché individuano intese riferite esclusivamente a una specifica materia o istituto e in qualche misura singolare dal punto di vista procedurale. La materia era quella previdenziale, cioè il sistema di previdenza per i ministri di culto e la loro iscrizione in un apposito fondo previdenziale costituito presso l’INPS. La disciplina di questo fondo assicurativo era ed è dettata da norme statali, ma la garanzia della bilateralità era data dall’essere operante il fondo per i ministri di culto di ciascuna confessione religiosa se vi era una intesa “per adesione”. La scansione di atti in questo ambito era: legge (legge non operativa per tutte le confessioni religiose se non sulla base di una adesione della confessione stessa). Sotto questo aspetto l’intesa, ristretta nel contenuto, aveva comunque forza condizionante rispetto alla legge. La legge si applica a condizione di una adesione delle confessione e di una intesa con la stessa. Ci sarebbe poi stato un decreto ricognitivo dell’esistenza di questa intesa, ai fini dell’operatività della legge. E dal punto di vista temporale, in questi casi la legge segue l’intesa e ne condiziona l’applicazione. Lo sviluppo della piena attuazione del principio costituzionale che si ha già con la prima intesa con le chiese valdesi e metodiste, seguita da almeno altre sei intese con confessioni religiose diverse dalla cattolica. L’aspetto procedurale e quello formale sono diversi. La legge segue l’intesa, l’intesa precede la legge. L’intesa si manifesta in una forma di vero e proprio accordo, cioè la redazione di un testo sottoscritto dalle rappresentanze della confessione religiosa rappresentata e sottoscritto dal governo. L’intesa diviene l’oggetto di una iniziativa legislativa che per dare esecuzione all’intesa ne ripete largamente il contenuto per le parti prescrittive dell’accordo (cioè quelle parti che enunciano regole, e non contengono mere dichiarazioni), cioè il contenuto dell’intesa diventa l’oggetto del’articolato proprio del disegno di legge. L’intesa viene allegata al disegno di legge di iniziativa governativa. La diversità rispetto al concordato è che non esiste una ratifica o un ordine di esecuzione, non c’è uno scambio di ratifiche. La legge non fa riferimento all’atto esterno per rinviare alle sue norme. L’ordine di esecuzione dice invece “piena ed intera esecuzione sarà data al…”, formula che traghetta le norme del concordato all’interno dell’ordinamento dello stato. Qui c’è una iterazione de testi per il loro contenuto. La formula della prima legge sulla base di intese che viene adottata, intitolata “Norme per la regolazione dei rapporti tra lo stato e le chiese rappresentate dalla tavola valdese” (legge 449/1984, 11 agosto del 1984) è la seguente: “I rapporti tra lo stato e le chiese rappresentate dalla tavola valdese sono regolati dalle disposizioni degli articoli che seguono (cioè dalla legge) sulla base dell’intesa stipulata in 21 febbraio 1984 allegata alla presente legge”. La disciplina, le norme sono quelle della legge. Vedremo i problemi relativi ai rapporti tra intesa e legge. Si afferma, sempre nell’art. 1, che, dalla data di entrata in vigore della legge, cessano di avere efficacia ed essere applicate a queste chiese le disposizioni delle vecchie norme sui culti ammessi (legge 1159/’29). Il testo dà una enunciazione che è immediatamente prescrittiva. Il testo dell’intesa allegata alla legge la formula è leggermente diversa: “La repubblica italiana, nel richiamarsi all’art. 8 della costituzione, e la tavola valdese, nel considerare la legislazione sui culti ammessi non rispettosa dell’eguale libertà riconosciuta dalla costituzione a tutte le confessioni religiose, e pertanto non idonea a regolare i rapporti con le chiese da esse rappresentate…”. Ci sono delle enunciazioni che sarebbero piuttosto proprie di un preambolo di un accordo. Non troverete nella legge l’affermazione che la legge del 1929 non è idonea a disciplinare i rapporti con le confessioni religiose, che è perciò incostituzionale secondo la prospettiva che è data dalla tavola valdese. La legge è quindi sulla base di intese, nel senso che ne deve rispecchiare il contenuto prescrittivo, le norme, non le dichiarazioni. Ci possono essere delle dichiarazioni unilaterali che però non hanno la necessità o l’opportunità di tradursi in un comando legislativo. Un caso di questo tipo è l’art. 4 dell’intesa: “La tavola valdese, nella convinzione che la fede non necessita di tutela penale diretta, riafferma il principio che la tutela penale in materia religiosa deve essere attuata solamente attraverso la professione e l’esercizio dei diritti di libertà riconosciuti dalla costituzione e non mediante la specifica tutela del sentimento religioso. La repubblica italiana prende atto di tale affermazione”. Le norme penali sul vilipendio della religione, all’epoca della religione dello stato e in particolare quelle che differenziavano dal punto di vista della tutela penale la religione cattolica dalle altre confessioni, viene ritenuta dalla tavola valdese non necessaria ogni tipo di tutela penale per le confessioni religiose. Questa formulazione è presente nell’art. 4 della legge senza più l’indicazione “la repubblica italiana prende atto di tale affermazione” che potrebbe avere il significato di una sorta di adesione alla prospettiva della confessione religiosa che stipula l’intesa. L’intesa, oltreché prescrivere, contiene a volte dichiarazioni della confessione religiose in rapporto a convinzioni che ha su quello che riguarda la disciplina dei rapporti con lo stato. “Sulla base di intesa” significa che l’intesa costituisce il nucleo essenziale del contenuto della legge. Non necessariamente la legge deve essere totalmente a ricalco dell’intesa. Certamente non deve rispecchiarne solo lo spirito ma anche i contenuti prescrittivi, ma questo non significa che debba recepire ogni dichiarazione contenuta nell’intesa né che debba usare in toto le medesime espressioni verbali. Il fatto che l’intesa sia legata alla legge è una singolarità. In genere sono allegate alla legge tabelle, altri atti. E’ allegato alla legge l’accordo esterno del quale si dà esecuzione nei trattati. Qui invece è allegata alla legge l’intesa, che ha caratteristiche simili a quelle che hanno atti analoghi in ordinamenti di lunga tradizione pluriconfessionale. Ad esempio nell’ordinamento tedesco ci sono concordati tra lo stato e la chiesa cattolica e Kirchen verträgen (accordi ecclesiastici) tra lo stato e le chiese che hanno uno statuto pubblicistico, cioè che sono persone giuridiche di diritto pubblico. Questi accordi muovono in un ambito pubblicistico. Costituiscono quindi un elemento atipico nella procedura legislativa nella quale si inserisce un elemento esterno e singolare rispetto alla ordinaria procedura legislativa. Ecco perché si è fatto riferimento alla definizione di “riserva di legge rinforzata”, perché non solo deve essere una legge a disciplinare la materia, ma è una legge con un supplemento procedurale e contenutistico, costituito appunto dall’intesa, che ne condiziona il contenuto. Mentre le intese per adesione condizionavano l’applicazione della legge a una confessione religiosa, in queste intese pienamente rispondenti al modello costituzionale si condiziona il contenuto della legge. Abbiamo descritto l’andamento procedurale delle piccole intese e la loro forza. Le piccole intese sono successive alle legge e condizionano l’applicazione della legge alle singole confessioni religiose che attraverso l’intesa condizionano l’applicazione della legge, ma la volontà legislativa (come modello) era già definita. Con questo tipo di intese-accordo inserita nel procedimento legislativo l’intesa condiziona il contenuto della legge nel suo formarsi, non condiziona l’applicazione. La legge, dovendo essere sulla base di intesa, non può, per gli aspetti prescrittivi, non può discostarsi dal contenuto prescrittivo convenuto con la confessione religiosa. Allegando l’intesa alla legge da una parte viene rafforzata l’idea di una legge che è di attuazione dell’intesa, trae alimento da essa; dall’altra ha anche una finalità e potenzialità interpretativa, nel senso che si può ben ritenere che l’interpretazione da dare alla legge deve essere conforme all’intesa, e sotto questo aspetto anche conforme alla volontà comune delle parti (criterio ordinario di interpretazione finanche dei contratti). La garanzia non è solo quella della fonte legislativa, ma anche la garanzia dei contenuti. Ne segue che una legge che fosse in contrasto con l’intesa, che non ne rispecchiasse il contenuto, sarebbe in contrasto con la costituzione perché in contrasto con il principio stabilito della “legge sulla base di intesa”. Sarebbe una legge incostituzionale, non per il contenuto materiale, ma per la mancanza di rispetto di quel principio di bilateralità che è alla base del sistema. Ecco perché questo tipo di legge viene anche qualificata come fonte atipica, perché si discosta dalla fonte tipica. Potremmo dire che non basta la volontà unilaterale dello stato che è alla base delle fonti tipiche ma occorre una volontà dello stato (la legge) che abbia avuto il consenso nei contenuti da parte della confessione le cui relazioni con lo stato disciplina. La atipicità è sia nell’aspetto procedurale (intesa-accordo) sia nell’aspetto sostanziale costituito dalla disciplina convenuta. L’intesa è convenuta con “le relative rappresentanze”. Riaffiora il principio di autonomia nell’individuazione dei soggetti che possono rappresentare la confessione religiosa in questo accordo. Rappresentano coloro che, secondo le regole proprie della confessione religiosa, hanno questo potere. Non è lo stato a scegliere i rappresentanti della confessione religiosa. Questo pone a volte dei problemi. Mentre è semplice questo percorso per quello che riguarda le chiese e le confessioni tradizionali, è molto più complesso per quello che riguarda l’islam, che non ha un ente esponenziale unificante. Il sistema delle intese reagisce anche sull’organizzazione delle confessioni. In particolare, per quello che riguarda le comunità israelitiche, esisteva una legge che ne disciplinava la struttura, l’unione delle singole comunità, regolando anche l’appartenenza a queste comunità. Questo modello di disciplina legislativa di una confessione religiosa fosse in contrasto con la costituzione e come l’intesa con le comunità ebraiche abbia superato questo meccanismo riattribuendo forza all’autonomia statutaria di questi gruppi confessionali.

Ecclesiastico Mar 31
Integriamo un passaggio sul rapporto tra intesa e legge per verificare quale tipo di rimedi ci possono essere in rapporto ad una eventuale difformità tra intesa e legge. L’intesa condiziona la legittimità costituzionale della legge perché la costituzione, imponendo attraverso l’intesa l’attuazione del principio di bilateralità nei rapporti tra stato e confessione religiosa, esclude che ci possa essere una disciplina unilaterale statale ed esclude non solamente che questa disciplina vi possa essere in assenza di una intesa ma ancor più in contrasto o in difformità con l’intesa. Ecco perché si ritiene che il disegno di legge attuativo dell’intesa sia inemendabile in sede parlamentare. Ricordiamo qual è la sequenza che si è attuata nella esperienza dal 1984 in poi: il governo negozia un’intesa con la rappresentanza della confessione religiosa; l’intesa si presenta in forma di articolato che può contenere alcune dichiarazioni di principio ma contiene normalmente la disciplina prescrittiva delle materie miste, di comune interesse; la sottoscrizione da parte dei rappresentanti delle confessioni e del rappresentante del governo (solitamente il presidente del consiglio) costituisce la base di una deliberazione del consiglio dei ministri che, secondo la legge che disciplina l’ordinamento della presidenza del consiglio, è collegialmente competente ad approvare gli atti relativi alle relazioni con le confessioni religiose. Questa materia è di esclusiva competenza statale in rapporto alla distinzione tra competenze legislative statali e regionali. L’art. 117 della costituzione indica come di competenza esclusiva dello stato la materia delle relazioni con le confessioni religiose, quindi non di legislazione concorrente né esclusiva regionale. Vi è poi un disegno di legge che è approvato dal consiglio dei ministri ai fini della presentazione al parlamento per l’esame; ne è autorizzata la presentazione dal presidenza della repubblica nell’ambito delle sue competenze costituzionali. Il disegno di legge contiene le norme a carattere prescrittivo che l’intesa aveva previsto. Al disegno di legge è allegata l’intesa. Il disegno di legge deve rispecchiarne in contenuto. Potremmo dire che ha un contenuto vincolato. Questo vincolo si estende alla sede parlamentare. Questo non significa che il parlamento debba necessariamente approvare la legge e con essa il contenuto dell’intesa. E’ vincolato nei contenuti, ma non nell’an, cioè nel “se approvare o meno”. Normalmente approverà perché è evidente che il governo è espressione della maggioranza parlamentare. Può accadere che il parlamento può chieda delle modifiche o inviti il governo a rinegoziare l’intesa. Perciò è una ipotesi di scuola quella di una difformità tra intesa e legge. Potrà non esserci una legge perché il parlamento non approva il contenuto dell’intesa. E’ una ipotesi di scuola che potrebbe verificarsi. Che tipo di rimedi sono possibili? Ci troveremmo di fronte ad un vizio di legittimità costituzionale della legge. L’art. 8 della costituzione pone una riserva di legge rinforzata (la materia non può che essere disciplinata dalla legge). E’ una riserva rinforzata perché non è sufficiente che sia la legge a disciplinare: occorre che ci sia questo atto esterno ulteriore dell’intesa. Si è indicata questa fonte come atipica rispetto alla fonte tipica legislativa, perché c’è un procedimento diverso da quello ordinario. Se la legge, sulla base di intesa, è viziata per difformità dall’intesa i rimedi sono quelli propri che l’ordinamento prevede per le leggi o gli atti aventi forza di legge in contrasto con la costituzione. Può essere, secondo le vie ordinarie, percorso l’itinerario di un giudizio di legittimità costituzionale dinnanzi alla corte costituzionale. Tuttavia, secondo le modalità e con le discipline proprie della giustizia costituzionale, cioè sempre in via incidentale, nel corso di un giudizio nel quale quella legge deve trovare applicazione. Non c’è un percorso che consenta un ricorso diretto alla corte costituzionale per denunciare questo vizio. Non c’è possibilità, per la confessione religiosa, di adire direttamente la corte, ma c’è la possibilità, per chiunque veda applicata la legge in maniera difforme dall’intesa, di agire in giudizio e in quella sede sollevare la questione di legittimità costituzionale. L’art. 8 della costituzione funziona anche da strumento di garanzia che salvaguarda il percorso procedurale e, attraverso questo, la correttezza del rapporto con la confessione religiosa secondo lo schema costituzionale.
Contenuti delle materie miste. Sono indicate con questa espressione quelle materie nelle quali c’è una sovrapposizione-convergenza di competenze dello stato e della chiesa o delle confessioni religiose. “Miste” perché riguardano un aspetto secolare e un aspetto spirituale. Ciascuna delle parti rivendica una sua competenza in questo settore. Si tratta quindi di coordinare le competenze. Dal punto di vista della qualificazione del sistema, il nostro sistema non è né separatista (nel quale lo stato e la chiesa si ignorano) né confessionista (nel quale vi è una preferenza per una confessione religiosa e una sottoposizione della sfera temporale a quella religiosa) ma un sistema di coordinazione, nel quale c’è una coesistenza di due sovranità o autonomie e vi è una disciplina dei rapporti che non è una sola disciplina di confine ma è una disciplina di integrazione di queste competenze; cosa che vediamo concretamente nell’esperienza. Basti pensare alla materia matrimoniale. Vi è la rivendicazione di una competenza religiosa (per la chiesa cattolica si tratta di un sacramento). E’ un atto che ha una rilevanza religiosa anche per le altre confessioni. Per lo stato è un contratto, un istituto particolare disciplinato dall’ordinamento statale, che dà vita a nuovi rapporti di famiglia. Gli atti con i quali la bilateralità si esprime (concordati, intese) servono proprio a disciplinare questo coordinamento. Così in altre materie: ordini religiosi e congregazioni (con personalità giuridica), insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche.
Vediamo adesso gli istituti ai quali questi rapporti si riferiscono. Il primo è quello del matrimonio. Quali sono le vicende dell’evoluzione normativa relativa a questo settore? Anche in questo ambito abbiamo una evoluzione normativa certamente remota, ma prendiamola in considerazione con l’esperienza delle codificazioni civili e con la linea della laicizzazione di una serie di istituti in precedenza rimessi al diritto della chiesa sia pure, talvolta, in una situazione di supplenza rispetto all’assenza di una disciplina statale. Il riferimento è all’introduzione del matrimonio civile. Con la codificazione napoleonica e con quelle successive la laicizzazione delle istituzioni porta alla introduzione del matrimonio civile, la cui disciplina normativa ricalca fortemente quella del diritto canonico in rapporto alla capacità dei soggetti, in rapporto alle cause di nullità, sino alla nomenclatura del considerare gli impedimenti e alla distinzione tra impedimenti dispensabili (cioè rispetto ai quali vi è una autorità che possa superare ciò che impedisce il matrimonio e autorizzarne la conclusione) e impedimenti non dispensabili. L’impronta della disciplina ha questa radice. Quali sono le ragioni dell’introduzione del matrimonio civile obbligatorio e quali sono le modalità di questa introduzione? In precedenza il matrimonio era raccordato all’appartenenza confessionale della persona. Sulla base della confessione religiosa alla quale si apparteneva, vigeva la disciplina normativa per esso prevista. Il matrimonio degli ebrei era disciplinato dal Talmud. Ancora vi è una traccia di questo sistema plurinormativo (di riserva al gruppo religioso) in alcuni ordinamenti nei quali vi è una compresenza di tradizioni e popolazioni diverse. In Israele o in Libano il diritto matrimoniale e di famiglia è disciplinato per gli ebrei dal diritto ebraico, dagli islamici dal diritto islamici, dai cattolici dal diritto canonico etc. In Libano ogni gruppo vede riservata la disciplina alla propria tradizione religiosa. Qual è la ragione dell’introduzione del matrimonio civile negli ordinamenti europei? E’ una ragione connessa alla garanzia della libertà religiosa. Se è libera l’appartenenza alla chiesa, deve essere garantita anche a chi non professa quella religione o alcuna religione la possibilità di contrarre matrimonio (che abbia effetti civili), fondare una famiglia. In passo ulteriore che viene fatto non è quello della compresenza del matrimonio civile con quelli religiosi. L’innovazione introdotta con le codificazioni è quella del matrimonio civile obbligatorio. Questo significa che l’ordinamento dello stato non riconosce alcun rilievo al matrimonio religioso. Il matrimonio modellato sul contratto è una ipotesi contrastata dalla dottrina canonistica che afferma che non può esistere un matrimonio che non sia al tempo stesso sacramento. Le modalità possono essere ulteriormente diverse: l’ordinamento può limitarsi a non riconoscere effetti al matrimonio religioso e riconoscerli esclusivamente all’istituto che la legislazione disciplina; può giungere a vietare il matrimonio religioso, ferendo in tal modo anche la libertà religiosa; può giungere ad imporre che il matrimonio civile preceda quello religioso. Nella tradizione italiana l’introduzione del matrimonio civile come matrimonio obbligatorio avviene con la prima codificazione civile italiana del 1865, con le modalità esclusive del non riconoscimento del matrimonio religioso, senza imporre alcun obbligo o divieto di contrarre previamente il matrimonio civile rispetto a quello religioso. Perciò, da quel momento, abbiamo due istituti matrimoniali reciprocamente indifferenti. L’ordinamento canonico non riconosce il matrimonio civile, anche se canonisticamente il problema della forma del matrimonio nasce con il Concilio di Trento. Da un punto di vista canonico i ministri del sacramento del matrimonio sono gli sposi, cioè il matrimonio nasce dallo scambio del consenso. Il parroco è un testimone qualificato. Nel diritto canonico tridentino lo scambio del consenso poteva avvenire in qualsiasi modo (in forma pubblica ma anche clandestina, con tutte le complicazioni del caso). Il Concilio di Trento impone la celebrazione del matrimonio di fronte al parroco proprio degli sposi. Perciò, teoricamente, essendo questa (la forma del matrimonio) una disciplina normativa non di diritto divino, se non vi fosse questa disciplina tridentina, lo scambio del consenso potrebbe avvenire ovunque e comunque, quindi anche nella forma civile. Non è irrilevante, dal punto di vista canonistico, che questo consenso vi sia anche in quella forma. Torniamo alla disciplina post ’65. Ci sono due istituti per ciascuno dei quali l’altro è uno sconosciuto. Non vi è alcun rapporto tra di essi. Nella prassi si assisteva a una doppia celebrazione, come avviene in alcuni paesi ancora diffusamente. I cittadini fedeli della chiesa contraggono matrimonio civile dinnanzi all’ufficiale dello stato civile e il matrimonio canonico in chiesa. Un doppio rito che vede sovrapposti questi due rapporti, unificati con una forma duplice nel momento genetico. Questo provocava problemi, testimoniati dalle relazioni dei procuratori generali nelle inaugurazioni degli anni giudiziari della fine ‘800 e inizio ‘900. In molte categorie avveniva che venisse celebrato il matrimonio canonico e non il matrimonio civile, e questo complicava problemi relativi al diritto di famiglia. In altri casi vi era una difformità tra i due matrimoni, con complicazioni di fatto nei rapporti. Dal punto di vista della chiesa, pastoralmente, si tendeva a obbligare anche a far celebrare matrimonio civile oltreché canonico, per dare anche una stabilità civile a questo legame. Il sistema muta con il concordato del 1929. Il concordato del ’29, con i patti lateranensi, fa cambiare l’assetto complessivo dei rapporti fra stato e chiesa, non solo perché vi è questa disciplina comune (quindi della forma), ma anche perché si disciplinano gli istituti relativi alle materie miste. Tra i primi di questi la materia matrimoniale, con una sorta di unificazione dei regimi sia nel momento genetico del matrimonio, sia nel momento giurisdizionale (cioè su chi fosse colui che giudica sulla validità del matrimonio). L’art. 34 del concordato del 1929, con una certe enfasi, riconosce al sacramento del matrimonio gli effetti civili. Non ne fa una celebrazione in forma religiosa di un matrimonio civile, ma riconosce l’istituto matrimoniale disciplinato dal diritto canonico. Attribuisce al matrimonio canonico gli effetti civili attraverso lo strumento della trascrizione nei registri dello stato civile. La linea della laicizzazione degli istituti aveva portato anche alla creazione dei registri dello stato civile, nei quali vengono custoditi gli atti di nascita, di matrimonio e di morte, ossia lo stato civile della persona come condizione della sua esistenza e del suo rapporto di famiglia. In precedenza si ricorreva ai registri di battesimo, matrimonio e morte, tenuti dal parroco in ogni parrocchia. Se rileva questo tipo di registrazione, è nei registri dello stato civile che dovrà essere trascritto il matrimonio religioso. La trascrizione diventa lo strumento di collegamento tra i due ordinamenti (statale e della chiesa). Questa combinazione dei due istituti prevede un parallelismo delle procedure. L’atto di matrimonio è solitamente preceduto dalle pubblicazioni. Le pubblicazioni sono degli avvisi che le parti hanno intenzione di contrarre il matrimonio, al fine di verificare se vi siano delle opposizioni giuridiche a questo matrimonio. Si tratta di verificare pubblicamente se, aldilà delle stesse risultanze dei registri dello stato civile, vi siano delle cause che sono ostative alla celebrazione del matrimonio. E’ una verifica formale legale, perché è difficile che vi sia qualcuno che vada a controllare queste pubblicazioni degli annunci matrimoniali. Sono in fondo alle chiese e alla casa comunale. All’esito di questa conoscenza pubblica si afferma la certificazione che quel matrimonio può essere contratto. Il percorso delle pubblicazioni è parallelo nei due ordinamenti. L’elemento di giunzione diventa l’atto di celebrazione del matrimonio che avviene dinnanzi al parroco o a un suo delegato, cioè secondo la disciplina tridentina. Ma con una particolarità: all’atto della celebrazione canonica, nella forma concordataria, sia aggiunge la lettura degli articoli del codice civile che disciplinano i rapporti tra gli sposi. Questo vuole essere un inserimento che costituisce una qualche presenza statale nella forma di celebrazione del matrimonio concordatario, il cui atto viene poi redatto in duplice origine. Abbiamo due atti di matrimonio: uno custodito nella parrocchia dove è contratto: l’altro trasmesso dal parroco all’ufficiale dello stato civile perché provveda alla trascrizione nei registri dello stato civile. Questo simboleggia l’unificazione tra gli atti genetici del rapporto matrimoniale, rispetto al quale rimane estranea tutta la vicenda dei rapporti patrimoniali, salvo la possibilità di introdurre, nell’atto di matrimonio, delle dichiarazioni particolari che riguardano la scelta del regime patrimoniale della famiglia o il riconoscimento di figli nati prima del matrimonio.
Sul testo vedere la parte relativa al matrimonio, e in dettaglio la procedura di trascrizione, la tipologia delle trascrizioni, la giurisprudenza costituzionale e le modifiche apportate dall’accordo di revisione del concordato del 1984 che modifica il tipo di rapporto tra stato e chiesa, passando da un rapporto tra istituzioni a un rapporto mediato dalla volontà delle parti. In precedenza il rapporto tra istituzioni è ufficioso. Nel 1984 si capovolge questo meccanismo.

Ecclesiastico Apr 7
Trattiamo degli istituti nei quali si esprime la disciplina concordataria e che concorrono a comporre le materie miste, nelle quali c’è una convergenza o sovrapposizione di competenze dello stato e della chiesa. Una delle materie tradizionalmente di incontro e di scontro tra stato e chiesa è quella matrimoniale. Che vi sia una sovrapposizione è reso evidente dall’esperienza che si ha. I matrimoni celebrati in chiesa hanno una diretta rilevanza civile. L’introduzione del matrimonio civile obbligatorio, cioè unica forma per lo stato per la costituzione di un vincolo matrimoniale e di una famiglia è avvenuta, nel nostro paese, con il primo codice civile unitario del 1865, sull’onda delle codificazioni. L’esigenza che vi sia una disciplina del matrimonio civile risponde ad una garanzia di libertà religiosa. Anche il non appartenente a una o ad alcuna confessione religiosa deve vedere garantito il suo diritto al matrimonio. D’altra parte, anche se ci poniamo in una prospettiva canonistica del diritto della chiesa, il matrimonio è un istituto di diritto naturale basato sullo scambio del consenso tra gli sposi capaci di contrarlo. Il matrimonio civile tra non battezzati non è sacramento ma è pienamente matrimonio. Con il battesimo, e nella inscindibilità del contratto e del sacramento, il matrimonio deve essere, per l’appartenente alla chiesa, celebrato necessariamente nella forma canonica. La stessa forma canonica ha subito nel tempo delle variazioni nella disciplina normativa perché anche il matrimonio-sacramento nasce dallo scambio del consenso e vede negli sposi i ministri del sacramento. Siamo abituati a vedere il matrimonio “celebrato” dinnanzi al parroco o a un sacerdote da lui delegato e con la presenza di testimoni, ma anche il sacerdote è un teste qualificato, non è il ministro del matrimonio. Questa forma di matrimonio, necessariamente celebrato dinnanzi al parroco proprio degli sposi o a un sacerdote da questi delegato, nasce come obbligatoria e vincolante e tale da render nullo il matrimonio per un vizio di forma solamente con il Concilio di Trento. E’ perciò una legge ecclesiastica e non di diritto divino questo vincolo. In un contesto letterario Renzo e Lucia cercano di fare una sorpresa a Don Abbondio, di scambiarsi il loro consenso prendendolo di soppiatto, e Don Abbondio si copre, non vuole assistere. La difficoltà che avevano per sposarsi esisteva proprio perché il loro parroco era quello e non poteva essere sufficiente lo scambio di consenso né lo scambio del consenso poteva avvenire dinnanzi ad altri. Poi a causa della peste vengono attribuiti poteri speciali e il matrimonio celebrato dinnanzi a Fra Cristoforo è valido. Questa legge ecclesiastica esiste per evitare i matrimoni clandestini. Se lo scambio del consenso, con sufficiente capacità cognitiva e volitiva, era sufficiente per contrarre matrimonio dal punto di vista canonico, vi poteva essere il caso di matrimoni che erano validi in coscienza, perché lo scambio del consenso vi era stato, mentre il foro esterno poteva accadere che il matrimonio venisse celebrato fra altri soggetti, con persona diversa, con una situazione di contrasto tra foro interno foro esterno. Ecco allora il perché di questa forma vincolata di matrimonio. Ancora oggi vi sono dei casi particolari nei quali può accadere che il matrimonio canonico sia celebrato senza l’assistenza del parroco quando questa sia impossibile. Se il matrimonio civile in Italia è introdotto con la codificazione del 1865, qual era la situazione precedente? Era una situazione di rilevanza diretta dei matrimoni religiosi, secondo la confessione di appartenenza, considerando questo come altri atti attinenti allo stato delle persone, riferibile alla scelta confessionale. Potevano esserci dei contratti di matrimonio che regolavano gli aspetti patrimoniali, in vista e in funzione del matrimonio. Questo sistema di pluralità di discipline in rapporto alle appartenenze confessionali è ancora esistente in alcuni paesi nei quali non vi è una integrazione tra i gruppi, ma una radicata distinzione (in Libano o in Israele i diritti religiosi disciplinano la materia matrimoniale e familiare; perciò ci sarà un matrimonio ebraico, un matrimonio cattolico, un matrimonio islamico). E’ l’appartenenza confessionale che individua la disciplina. C’è un ritrarsi dello stato dalla diretta normazione in questo settore. Nell’introdurre il matrimonio civile obbligatorio lo stato può avere un doppio tipo di atteggiamento: escludere ogni rilevanza al matrimonio religioso o attribuirla in varia misura; vietarne o consentirne la celebrazione. In realtà l’introduzione del matrimonio civile obbligatorio si inserisce anche nell’orientamento di politica ecclesiastica che tende alla laicizzazione di una serie di istituti giuridici, alcuni dei quali anche svolgevano una sorta di supplenza della chiesa rispetto allo stato. Consideriamo i registri dello stato civile, cioè della condizione civile della persona, che raccolgono gli atti di nascita, gli atti di matrimonio, gli atti di morte. In precedenza queste tre condizioni della persona erano documentate e certificabili attraverso gli atti di battesimo, di matrimonio canonico, di morte (celebrazioni dei funerali), percorrendo la vita delle persone. Si diceva che fossero “lo stato delle anime”, cioè degli appartenenti alla chiesa. L’atteggiamento che lo stato può aver avuto è una posizione antagonistica e antiecclesiastica nel senso di vietare la celebrazione del matrimonio religioso (o la benedizione delle nozze, come pure si diceva) se non fosse stato prima celebrato il matrimonio civile. L’impostazione della codificazione del 1865 è di indifferenza, cioè di irrilevanza del matrimonio canonico. Poteva essere celebrato indipendentemente dal matrimonio civile, prima del matrimonio civile, dopo il matrimonio civile tra le stesse persone o tra persone diverse senza che questo avesse alcun rilievo per l’ordinamento dello stato. Quindi un doppio regime separato, di reciproca impermeabilità. Dal punto di vista della disciplina il matrimonio civile ricalcava largamente la struttura della disciplina canonica; anche nella terminologia. Con riferimento agli impedimenti alla celebrazione del matrimonio, cioè quelle situazioni che ne ostacolano la celebrazione determinandone la invalidità, il matrimonio civile si rifaceva alla disciplina canonica. Considerava alcuni come impedimenti dispensabili, rispetto ai quali un atto amministrativo singolare avrebbe consentito alle parti di contrarre matrimonio, altri atti indispensabili, tali da non potere mai consentire la celebrazione del matrimonio. A questo sistema del doppio regime si poteva trovare unificazione nell’effettività dell’esperienza quando tra le stesse persone venisse contratto sia il matrimonio civile sia il matrimonio religioso, indipendentemente dalla successione temporale di questi atti. Ne sono derivati alcuni inconvenienti, perché spesso, in alcune categorie di persone o per scelta personale, veniva celebrato il solo matrimonio religioso (e dal punto di vista dello stato questo aveva una portata negativa per l’assenza di un rapporto che desse luogo a un rapporto familiare civilmente strutturato). Dal punto di vista della chiesa vi era una esigenza di stabilizzare il vincolo, tanto che dal punto di vista pastorale si sollecitare alla celebrazione anche del matrimonio civile oltreché di quello religioso. In un periodo nel quale non era previsto e configurato lo scioglimento del matrimonio (il divorzio) questo meccanismo portava talvolta alla coesistenza di due rapporti differenziati. Il modello di rapporto tra stato e chiesa muta con il concordato lateranense del 1929. Con il concordato assistiamo in linea generale ad una sorta di riconfessionalizzazione dello stato. Viene rinverdito il principio che era affermato nello statuto Albertino del 1848 secondo il quale la religione cattolica era la religione dello stato (lo stato aveva una sua religione). Un tempo era la religione professata dal sovrano alla quale seguiva l’imputazione di questa religione allo stato ed era la religione dei cittadini. L’affermazione dello statuto Albertino era stata logorata perché aveva consentito anche l’attuazione di indirizzi di politica legislativa fortemente antiecclesiastici, non solo in materia matrimoniale, ma con gli orientamenti relativi alla laicizzazione e secolarizzazione della beneficienza e assistenza, con la legge Crispi del 1890, con le leggi eversive dell’asse ecclesiastico. In fondo la stessa introduzione del matrimonio civile obbligatorio con il corollario dell’irrilevanza del matrimonio religioso costituiva già un duro colpo per le disposizione dello statuto Albertino. Nel 1929, nel contesto di riavvicinamento tra lo stato e la chiesa, di superamento della frattura profonda causata dalla presa di Roma e dalla legge delle guarentigie, dal contrasto tra stato e chiesa, si assiste ad una linea di formale riconfessionalizzazione dello stato, con il recupero del principio della religione dello stato e la sostanzializzazione di questo principio in una serie di istituti. Tra questi, quello matrimoniale, con una premessa contenuta nell’art. 34 del concordato del 1929, di un orientamento dello stato che tende a ridonare all’istituto del matrimonio la dignità che deriva dall’essere sacramento. C’è un riferimento alla sacralità del matrimonio che in una legge civile apparirebbe non correttamente posto. Nel 1929 si cerca una sorta di possibile riunificazione del matrimonio-atto, cioè del negozio matrimoniale, che può essere disciplinato dal diritto canonico. Con il termine “matrimonio” si intende tanto il negozio che geneticamente dà vita al rapporto matrimoniale, quanto il rapporto matrimoniale stesso. Tant’è vero che anche quando si parla di scioglimento del matrimonio si dice appunto “del matrimonio”, facendo riferimento al rapporto. Diversamente, quando si parla di nullità di matrimonio, si fa riferimento all’atto, cioè al momento generativo del rapporto. Vengono dunque riconosciuti gli effetti civili, cioè gli stessi effetti del matrimonio civile, al matrimonio-negozio disciplinato dal diritto canonico. Il matrimonio-rapporto, che segue all’atto, rimane disciplinato dal diritto dello stato, e perciò i rapporti personali e patrimoniali tra i coniugi. L’atto che genera il rapporto è disciplinato tanto per la capacità dei soggetti, quanto per la forma nella quale si esprime e nella validità del negozio dal diritto canonico, ovviamente per coloro che vogliono accedere a questo matrimonio. Non si torna all’antica disciplina e ad un matrimonio canonico obbligatorio per i cattolici, cioè ad una obbligatorietà del matrimonio religioso per gli appartenenti a quella confessione religiosa. E’ uno dei tipi di matrimonio tra i quali si può esprimere una scelta del cittadino. Questo sistema è destinato a ricongiungere in un solo atto la duplicità degli effetti canonici e civili. Tutto questo accade con l’istituto della trascrizione del matrimonio canonico nei registri dello stato civile. La trascrizione dà letteralmente il senso di un trasferimento di documentazione di un atto da un sistema all’altro. Anche in ambito civilistico si incontra qualche la trascrizione: nei registri immobiliari, dell’ipoteca. La trascrizione è la riproduzione di atti in registri pubblicamente accessibili che hanno rilevanza per l’ordinamento. In questo caso la trascrizione consente il trasferimento di un atto, che è nato nell’ordinamento canonico, nell’ordinamento statale. Questo elemento di giunzione tra i due ordinamenti è preceduto e può esser seguito da una fase procedimentale. Il matrimonio è preceduto dalle pubblicazioni; un tempo si sarebbe detto dalle promesse di matrimonio. Le pubblicazioni sono annunci destinati a dare pubblicità alla richiesta degli sposi di celebrare il matrimonio: ciò non perché si sappia in giro ma perché si verifichi una pubblica conoscenza legale, non per forza reale. Le pubblicazioni non sono assolutamente dei contratti preliminari. Non possono esistere dei contratti che impongano di contrarre matrimonio. La garanzia che gli ordinamenti prevedono è quella della libertà della volontà matrimoniale, né l’attivazione del procedimento di pubblicazione è vincolante per i soggetti, perché ha una finalità preordinata a contrarre matrimonio. Non è una dichiarazione anticipata di volontà che vincola. Le pubblicazioni non sono preordinate a costituire un vincolo, ma a accertare che sussistano le condizioni per contrarre matrimonio anche aldilà e indipendentemente da quelle che sono le risultanze dei registri dello stato civile. Questo procedimento (pre-negozio matrimoniale) è preordinato ad accertare che vi sia la libertà di stato (che le persone non siano già legate da altro vincolo matrimoniale), che non vi sia una incapacità legale, una interdizione (questo vale per lo stato), che non vi siano altri impedimenti non noti che impediscono la celebrazione di quel matrimonio. Le opposizioni sono destinate a giudicare se questo sussiste e sono preordinate al matrimonio e sono due procedure parallele che si sviluppano. Esistono casi in cui il matrimonio può essere contratto anche senza che vi siano le pubblicazioni. Le pubblicazioni sono destinate a dare una conoscenza legale, mediante l’affissione nella casa comunale e nelle parrocchie proprie degli sposi. Le pubblicazioni hanno una durata ed efficacia limitata nel tempo. Avvenute le pubblicazioni si unificano i momenti genetici con la celebrazione del matrimonio canonico nella quale il concordato del 1929 e la legislazione attuale prevede l’inserimento di alcuni elementi che sono propri del matrimonio civile, coma la lettura degli articoli del codice civile che riguardano i diritti e doveri reciproci degli sposi. E’ una formalità che si inserisce in un atto che ha natura religiosa e sarebbe inappropriato e improprio in quella sede, ma è una segnalazione della commistione e del contrarre un matrimonio c.d. concordatario, cioè secondo la disciplina del concordato. La forma è la forma canonica. Il matrimonio è disciplinato dal diritto canonico secondo il concordato del 1929, e in larga misura la disciplina permane. Questo significa che la capacità degli sposi, il regime degli impedimenti, era quello disciplinato dal codice di diritto canonico e non dal codice civile. Perciò abbiamo non una forma religiosa di celebrazione del matrimonio civile sulla base di una sorta di delega dell’ufficiale dello stato civile, cosa che è consentita ma che riguarda altro rispetto a questo sistema; ma matrimonio religioso, perciò un tipo distinto di matrimonio, destinato ad avere effetti civili. Che ci sia questa distinzione logica è reso evidente da una sentenza della corte costituzionale del 1971 che nasce da una situazione di incapacità naturale di uno degli sposi, il quale si rivolgeva al giudice dello stato perché questo fosse accertato. Anticipiamo un passaggio nella prospettiva del riconoscimento della giurisdizione ecclesiastica anche sulla nullità del matrimonio. Qui, con questa decisione della corte, si percepisce la qualificazione del matrimonio concordatario come tipo ad effetti civili di matrimonio-negozio, e non come forma di celebrazione del matrimonio civile in forma religiosa. Nella disciplina concordataria del 1929 e nell’accordo di revisione del concordato del 1984 non siamo di fronte a una forma religiosa di celebrazione del matrimonio civile, ma di effetti civili attribuiti al matrimonio religioso. E’ una differenza logica. Il parroco non è un delegato dell’ufficiale dello stato civile, ma svolge una funzione propria che ha rilevanza per l’ordinamento dello stato. La corte costituzione distingue tra scelta del tipo di matrimonio e dichiarazione di volontà matrimoniale, anche se le due cose spesso coincidono temporalmente. Per quello che è l’incapacità naturale, questa determina l’inidoneità del soggetto a scegliere se vuole contrarre matrimonio canonico con effetti civili o matrimonio civile. Quindi, se vi è incapacità naturale, può opporsi alla trascrizione del matrimonio canonico che abbia contratto, senza avere la capacità di scegliere positivamente quello come tipo di matrimonio che avrebbe voluto contrarre.
L’altro grande pilastro sul quale si basa il sistema costruito con il concordato è il riconoscimento della giurisdizione ecclesiastica sulla nullità del matrimonio, limitatamente agli effetti che possono avere le pronunce ecclesiastiche di nullità di matrimonio. La ragione logica e il fondamento di questo sistema è connesso al riconoscimento del negozio matrimoniale quale disciplinato dal diritto canonico. Quel matrimonio costituisce il presupposto per la produzione degli effetti civili. La nullità del matrimonio fa venire meno quel presupposto e il giudice sulla validità del matrimonio è il giudice dell’ordinamento nel quale in negozio è sorto e dal cui diritto è disciplinato. Perciò vi è una coerenza logica in questo anche se, secondo l’impostazione tradizionale, il riconoscimento della giurisdizione ecclesiastica in materia matrimoniale, incide su uno degli elementi che vengono considerati comunemente essenziali alla sovranità. Tradizionalmente la giurisdizione è un effetto della sovranità. In questo caso, nel regime del 1929, secondo l’interpretazione prevalente, si afferma la giurisdizione esclusiva della chiesa sulla nullità dei matrimoni concordatari. Il meccanismo del collegamento, nel sistema del 1929, era dato ancora una volta da uno strumento di certificazione: il Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, che in quell’ordinamento è un giudice di legittimità, avrebbe verificato che si trattava di un matrimonio concordatario, e che si era avuta una sentenza ecclesiastica di nullità definitiva. Il termine che viene usato è diverso da quello al quale siamo abita nell’ordinamento civile, cioè di sentenza passata in giudicato. Una sentenza è passata in giudicato quando è irreformabile. Si dice in maniera significativa anche se imprecisa che il giudicato facit de albo nigro, cioè la verità accertata dal giudicato si impone anche alla verità “vera”. Questo per una garanzia nei rapporti e una certezza degli stessi. Nell’ordinamento canonico, per quello che riguarda lo stato delle persone, non esiste un giudicato. E’ sufficiente che vi sia una doppia sentenza conforme. Quando due organi giudiziari, successivamente aditi secondo le regole processuali, giungono alla medesima conclusione, la sentenza diventa definitiva. Questa differenza esiste perché nell’ordinamento canonico è privilegiata la verità vera, non la verità definita processualmente che definitivamente si sovrappone alla verità vera. Aldilà di questo la distanza tra l’impostazione civile e l’impostazione canonica è meno ampia di quanto non si possa immaginare: nell’ordinamento civile ci possono essere dei rimedi straordinari che in condizioni particolarissime e molto limitate possono rimettere in discussione il giudicato, nell’ordinamento canonico la novae causae propositio, cioè l’azione diretta a superare l’esecuzione di una sentenza definita della doppia conforme richiede nuovi e gravi argomenti. La Segnatura controlla che la sentenza sia divenuta definitiva e, secondo il modello del 1929, trasmette la decisione (non il testo integrale della sentenza) alla corte d’appello competente per territorio, cioè quella nella cui circoscrizione l’atto di matrimonio è stato trascritto. Da qui nasce un procedimento civile molto semplificato. La corte d’appello è l’organo che, secondo la disciplina processuale civile, abitualmente è deputato alla c.d. delibazione delle sentenze straniere, cioè a dare ingresso nell’ordinamento dello stato a decisioni giurisdizionali adottate da giudici di altri ordinamenti e rendere queste stesse esecutive nello stato, previo un controllo che la corte d’appello compie. In questo caso il controllo era molto limitato, era un controllo estrinseco, cioè l’essere un matrimonio concordatario, l’esserci l’attestazione della Segnatura Apostolica, e seguiva una esecutività che veniva disposta dalla corte d’appello, con l’ordine all’ufficiale dello stato civile di annotare il contenuto della sentenza per dare ad essa esecuzione. Il rapporto che nel 1929 si instaurava era un rapporto tra istituzioni. Questo procedimento era avveniva d’ufficio, senza che vi fosse una richiesta delle parti, come in qualche misura d’ufficio era il rapporto tra parroco e ufficiale dello stato civile nell’ipotesi della trascrizione. La trascrizione avveniva mediante la trasmissione da parte del parroco entro cinque giorni, all’ufficiale dello stato civile, di un’originale dell’atto di matrimonio. L’atto di matrimonio veniva redatto in doppio originale, uno destinato ad essere conservato nei registri parrocchiali, l’altro destinato ad essere trasmesso all’ufficiale dello stato civile il quale, nelle ventiquattro ore successive alla ricezione dell’atto di matrimonio, avrebbe dovuto provvedere alla trascrizione di questo atto di modo ché gli effetti del matrimonio retroagivano al momento della celebrazione. Il sistema della trascrizione prevedeva anche la possibilità di una c.d. trascrizione tardiva. La prima che abbiamo invece descritto era qualificata come trascrizione tempestiva. Si usava l’espressione di trascrizione ritardata quando l’atto di matrimonio fosse stato trasmesso nei 5 giorni ma l’ufficiale dello stato civile non avesse provveduto nelle 24 ore alla trascrizione. In questo caso gli effetti sarebbero stati comunque retroattivi. La trascrizione tardiva avveniva quando l’atto di matrimonio veniva inviato dal parroco all’ufficiale dello stato civile dopo i 5 giorni ordinariamente previsti dalla legge. In questo caso nasceva il problema della volontarietà degli effetti civili. Era necessaria la volontà degli sposi perché l’atto di matrimonio canonico venisse trasmesso all’ufficiale dello stato civile o l’autorità ecclesiastica poteva procedere indipendentemente dalla volontà degli sposi? La soluzione giurisprudenziale dominante era (nel 1929) quella di un rapporto tra istituzioni, e quindi di una scoloritura della volontà degli sposi. Ricordiamo anche perché la trascrizione tardiva fosse possibile occorreva che le condizioni per la celebrazione del matrimonio ci fossero al momento in cui questo era stato celebrato e si fossero mantenute per tutto l’arco di tempo che era intercorso sino alla richiesta di trascrizione. Dunque, non poteva essere trascritto tardivamente un matrimonio contratto quando uno degli sposi era vincolato da altro matrimonio civile, o non poteva essere trascritto tardivamente un matrimonio canonico quando successivamente era stato contratto matrimonio civile anche se questo fosse stato sciolto. Lo stato libero, e quindi le condizioni per contrarre matrimonio dovevano ricorrere sia nel momento iniziale che per il tempo intercorso sino alla richiesta di trascrizione. Tornando alla giurisdizione, il rapporto era un rapporto tra istituzioni, con un temperamento che la giurisprudenza costituzionale aveva imposto: anche nel processo di esecutività delle sentenze canoniche di nullità doveva essere dato spazio al diritto di difesa delle parti. Anche in un procedimento di ufficio le parti dovevano avere avviso e potevano costituirsi nel procedimento per sostenere e per opporsi all’attribuzione di effetti alla sentenza canonica di nullità.
Nell’accordo di revisione del concordato e nella disciplina che si basa sull’art. 8 dell’accordo di revisione del concordato (non tanto nell’architettura del sistema che rimane basato su questi due pilastri: rilevanza del matrimonio disciplinato dalle norme canoniche e della possibilità di attribuire ad esso effetti civili; riconoscimento di una giurisdizione ecclesiastica) vengono introdotti dei limiti sia per il riconoscimento del momento genetico che per il riconoscimento del momento giurisdizionale. Questi limiti introdotti non comportano una dissoluzione del sistema. La novità è data dal mutamento di prospettiva: non più un rapporto tra istituzioni, ma una prospettiva nella quale risalta la volontà e l’iniziativa delle persone interessate (gli sposi). Questo è desumibile dalla specifica disciplina che riguarda la c.d. trascrizione tardiva. La trascrizione può ora essere effettuata anche dopo i termini che rimangono invariati per la trascrizione tempestiva, su richiesta dei due contraenti o anche di uno di essi, con la conoscenza e senza l’opposizione dell’altro. C’è incluso in principio della volontarietà degli effetti civili. Non solo volontà di contrarre matrimonio ma volontà comune (manifestata o comunque implicita nella non opposizione) che quel matrimonio abbia anche effetti civili, rimessa agli sposi. Non può accadere che ci sia una trascrizione del matrimonio canonico non voluta dalle parti, cosa che in passato accadeva quando le parti contraevano matrimonio canonico senza che venisse trascritto anche per fini patrimoniali, per mantenere una condizione pensionistica. Spesso, quando ne poteva derivare un pubblico scandalo o nasceva la prole, anche con l’opposizione delle parti il parroco procedeva a chiedere tardivamente la trascrizione del matrimonio. Ora è la volontà delle parti che è d’impulso e coessenziale alla trascrizione. Tornando alle restrizioni poste al riconoscimento degli effetti civili: la disciplina prevede che siano riconosciuti gli effetti civili ai matrimoni contratti secondo le norme del diritto canonico. Non si fa più riferimento al sacramento del matrimonio. Ci possono essere, dal punto di vista canonico, matrimoni che sono sacramento e sono validi e non sono contratti dinnanzi al parroco (in situazioni del tutto eccezionali, quando non è possibile la presenza del parroco per un lungo tempo, o in articulo mortis). In questi casi il matrimonio non è celebrato dinnanzi al parroco. Effetti civili sono riconosciuti a patto che l’atto relativo sia trascritto nei registri dello stato civile. Non è la trascrizione l’elemento generativo: è piuttosto una condizione per il prodursi degli effetti. Non abbiamo il sovrapporsi di due consensi matrimoniali, uno canonico e uno civile, ma è unico il consenso matrimoniale. Non c’è un doppio negozio unificato nel rito, ma un unico negozio che produce anche effetti civili. Si prevede che il matrimonio sia preceduto dalle pubblicazioni nella casa comunale. Subito dopo la celebrazione il parroco o il suo delegato spiegherà ai contraenti gli effetti civili del matrimonio. Il riferimento è sempre al parroco. Il rettore di una chiesa non potrà celebrare matrimonio senza aver la delega del parroco. Le scelte fatte per la cerimonia matrimoniale in chiese diverse da quelle proprie della parrocchia degli sposi presuppongono sempre la delega del parroco. Non è un qualsiasi sacerdote o il parroco di una parrocchia che non sia degli sposi a poter celebrare il matrimonio senza la delega. Non può essere diversa dal parroco la persona che celebra se non in caso di delega. “Il parroco o il suo delegato spiegherà ai contraenti gli effetti civili del matrimonio, dando lettura degli articoli del codice civile riguardanti i diritti e i doveri dei coniugi, e redigerà in doppio originale l’atto di matrimonio nel quale potranno essere inserite le dichiarazioni consentite secondo la legge civile”. Qui l’art. 8 in parte richiama e riassume alcune disposizioni che sono proprie della legge matrimoniale, legge di attuazione del concordato del 1929. Questa legge sopravvive nelle parti in cui non è in contrasto con la nuova disciplina normativa. Questa disposizione, con la frase “potranno essere inserite le dichiarazioni consentite secondo la legge civile”, risolve un problema in precedenza discusso e variamente risolto: l’inserimento nell’atto di matrimonio (e questa era l’ipotesi temporalmente più remota) del riconoscimento di figli naturali; la scelta di un regime patrimoniale diverso da quello legale della comunione degli utili e degli acquisti. Questo pone il problema se il parroco sia pubblico ufficiale o meno, e quali ricadute abbiano queste ipotesi. Se l’atto di matrimonio non è atto pubblico allora il falso contenuto in esso è falso ideologico e allora sanzionabile. Qui il punto distintivo è quello procedimentale. L’atti di matrimonio, teoricamente, potrebbe non essere trasmesso all’ufficiale dello stato civile. Allora è il momento della certificazione canonica che acquista una caratterizzazione pubblicistica. Certamente si può ritenere che faccia fede quello che è contenuto nell’atto di matrimonio, a cominciare dallo scambio del consenso, dall’individuazione dei soggetti, dalla presenza dei testimoni, dall’aver effettuato le dichiarazioni contenute nell’atto di matrimonio. L’altro elemento di restrizione: “La santa sede prende atto che la trascrizione che non potrà aver luogo quando gli sposi non rispondano ai requisiti della legge civile circa l’età richiesta per la celebrazione del matrimonio”. Ci può essere un disallineamento tra disciplina civile e disciplina canonica circa l’età matrimoniale perché la disciplina canonica è ecclesiastica. Dal punto di vista canonistico l’età matrimoniale è l’età della maturità psicofisica. Quando c’è sufficiente capacità di comprendere il significato del matrimonio, di volerlo e di autodeterminarsi, e quando c’è capacità fisica, cioè sessuale, vi è un diritto al matrimonio, come diritto naturale. Anche qui prevale un elemento di verità ancorata alla persona, come per quello che riguarda la capacità di intendere e volere. Non esiste un sistema di capacità legale, di interdizione, di accertamento formale di incapacità che si sovrappone alla realtà naturale. E’ possibile una dispensa per il minorenne. Anche per il matrimonio civile ci può essere una autorizzazione a contrarre matrimonio prima della maggiore età. In linea di principio ci può essere una diversità di disciplina tra i due ordinamenti e la celebrazione canonica, nell’ipotesi in cui non sia autorizzata la celebrazione del matrimonio civile prima dell’età maggiore, non potrebbe portare alla trascrizione. C’è un elemento di salvaguardia nella disciplina dell’accordo di revisione del concordato, nel senso che quando non potesse esser più proposta una azione di nullità rispetto a un matrimonio civile nullo per difetto di età o per difetto di altri requisiti, può essere trascritto il matrimonio canonico. C’è una forma di trascrivibilità dei matrimoni che non potevano essere trascritti nel momento in cui sono stati celebrati ma che diventano trascrivibili successivamente. L’altro elemento di restrizione è che non può essere trascritto il matrimonio canonico quando tra gli sposi sussiste un impedimento che la legge civile considera inderogabile. L’obiettivo di fondo è che la porta di ingresso rispetto al matrimonio sia identica per i due ordinamenti, cioè che non si possa contrarre matrimonio canonico con effetti civili quando non potrebbe essere contratto tra le stesse persone il matrimonio civile. Tutto questo in una linea che vuol salvaguardare il principio di eguaglianza. In relazione all’art. 8 il protocollo addizionale che accede all’accordo di revisione del concordato stabilisce espressamente che “non può essere derogato l’impedimento derivante dall’essere uno dei contraenti interdetto per infermità di mente”. Questo significa che può esserci anche un caso di interdizione per infermità di mente nel quale l’infermità è superata, e perciò c’è capacità naturale. Ma per l’ordinamento dello stato deve essere revocata l’interdizione perché questa capacità si riacquisti. Per l’ordinamento della chiesa occorre una capacità di intendere e di volere nel momento in cui il matrimonio è contratto, e ci possono essere infermità nelle quali alcuni ritengono che ci siano dei lucidi intervalli, cioè delle fasi regressive dell’infermità psichica che consentono in quella fase di avere piena cognizione e volontà. L’infermità va accertata caso per caso al momento della celebrazione del matrimonio. Nell’ordinamento dello stato ci possono essere incapacità naturali idonee a determinate l’incapacità legale o naturali per loro natura transeunte (lo stato di ebbrezza, l’uso di sostanze stupefacenti). Da un punto di vista canonico, siccome l’elemento rilevante è sempre la volontà degli sposi, non c’è una incapacità legale: l’incapacità è sempre naturale, cioè sempre determinata da una non adeguata capacità di determinarsi (che può essere determinata da cause transeunti, o permanenti, e va verificata, se esistente, al momento della celebrazione). Ancora: “Se sussiste tra gli sposi altro matrimonio valido agli effetti civili”. Questo è evidente; ma anche se sussisteva e sia venuto meno. Infine viene richiamato l’impedimento derivante da delitto o da affinità in linea retta, cioè due casi nei quali il divieto di celebrazione del matrimonio è determinato da cause che lo rendono ripugnante alla coscienza comune. Nell’ambito canonistico questi impedimenti sono dispensabili. La dispensa non è un diritto del soggetto a contrarre il matrimonio, ma una valutazione della prospettiva canonica per il bene delle anime, che porta a consentire, in casi abitualmente vietati, di superare questo divieto con un atto singolare che autorizza e consente la celebrazione del matrimonio. Il punto che ci interessa è che c’è una omologazione delle possibilità di contrarre matrimonio canonico e matrimonio civile. Il matrimonio canonico può avere affetti civili quando in quel caso le parti avrebbero potuto contrarre matrimonio civile. Non si vuole consentire che con il matrimonio canonico si stabilisca un rapporto matrimoniale civile che altrimenti non si sarebbe potuto generare.

Ecclesiastico Apr 14
Domanda: dopo il 1984 è possibile che il matrimonio canonico non venga trascritto per volontà contraria degli sposi e quindi non necessariamente il matrimonio canonico abbia effetti civili?
Risposta: la volontà delle parti, ai fini della trascrizione, ha un notevole rilievo rispetto alla disciplina precedente al 1984. Un passaggio della precedente disciplina era questa tendenza all’unitarietà del sistema e la possibilità che fosse trascritto il matrimonio concordatario indipendentemente dalla volontà degli sposi. Si discuteva se fosse necessaria la contestuale lettura degli artt. del c.c. relativi ai rapporti personali e patrimoniali tra gli sposi o se questo potesse anche mancare o successivamente seguire e se fosse di ostacolo alla trascrizione; tuttavia la linea di tendenza era l’unitarietà del sistema. Con l’accordo del 1984 il perno dei rapporti diventano i soggetti, cioè gli sposi, la cui volontà determina l’elemento di congiunzione tra lo stato e la chiesa. Allora ecco che possono sussistere (potevano sussistere anche in precedenza) strutturalmente i due matrimoni. Se gli sposi intendono contrarre matrimonio canonico e non intendono procedere alla trascrizione, questa volontà è dominante. Non è surrogabile da volontà di altri soggetti che sia anche ispirata a motivi rilevanti. In passato poteva accadere che per alcuni cittadini, in funzione dell’attività specifica che svolgevano, vi poteva essere un limite alla libertà di contrarre matrimonio dal punto di vista civile: i militari (per i quali era impossibile, secondo il proprio regolamento disciplinare, contrarre matrimonio prima di una determinata età, per favorire la mobilità che il vincolo familiare avrebbe reso possibile). Questo tipo di limitazione, dal punto di vista canonistico, è del tutto irrilevante, perché la capacità nuziale è ancorata alla maturità psicologia e sessuale della persona. In quei casi poteva accadere che gli sposi contraessero matrimonio canonico, evitando la trascrizione in modo da non contravvenire alle norme disciplinari statali. Poteva avvenire che, successivamente, quando quei limiti venissero meno, si procedesse alla trascrizione, o che intendesse alla trascrizione il parroco perché erano nati dei figli, per attribuire a questo una stabilità o efficacia civile o rimuovere una ragione di scandalo, come la convivenza. Le stesse ragioni di interesse pubblico-ecclesiastico potevano determinare la trascrizione del matrimonio che, in successivamente alla vedovanza, veniva contratto, ma da persone che non intendevano attribuire effetti civili al matrimonio per evitare che si verificassero effetti patrimoniali pregiudizievoli. Questo poteva essere tollerato dal punto di vista canonistico, fin quando non si verificava che quella mancata trascrizione determinasse una situazione di scandalo. L’impostazione dell’accordo del 1984 è che la volontà degli sposi determina e condiziona la trascrizione. Ecco perché essa deve essere voluta. Può essere fatto ricorso all’istituto della trascrizione tardiva, che sopravvive con diversità di condizioni. Occorre la richiesta dei due contraenti o anche di uno solo di essi, purché sia conosciuta e senza l’opposizione dell’altro. Non c’è un nuovo scambio di volontà matrimoniali. La trascrizione non può avvenire se c’è l’opposizione di uno degli sposi. E’ evidente che nella prevalenza dei casi ci sarà una richiesta congiunta degli sposi, altrimenti occorre dar prova che la richiesta di trascrizione è stata fatta e l’altro coniuge ne è a conoscenza. Questo implica che l’ufficiale di stato civile non può procedere alla trascrizione tardiva a seguito della pura e semplice trascrizione di uno degli originali dell’atto di matrimonio, pur effettuando tutti gli altri controlli (esistenza dello stato libero, capacità delle parti). Occorre l’elemento aggiuntivo della richiesta congiunta o nota all’altro coniuge senza opposizione. C’è una sorta di accertamento che si inserisce in questo procedimento. Non è indicata la forma nella quale questo debba accadere, ma deve essere in qualche modo documentato. Se manca questo consenso, la trascrizione non può avvenire e il matrimonio canonico vive ed opera esclusivamente nell’ordinamento della chiesa. Perciò nell’ordinamento dello stato gli sposi mantengono lo stato civile libero. Per l’ordinamento dello stato non sono coniugi. Potrebbero contrarre o non contrarre matrimonio civile. Potrebbero addirittura contrarre civilmente un matrimonio diverso. Potrebbe accadere che ci sia un matrimonio canonico che non ha effetti civili, e un matrimonio civile sia tra le stesse persone che tra persone diverse. Ecco perché dal punto di vista della pastorale matrimoniale (dal 1865 al 1929) si invitava a contrarre entrambe i matrimoni.
Prima del 1865 l’unificazione era data dalla disciplina religiosa, come disciplina dei negozi matrimoniali (matrimonio cattolico per i cattolici, ebraico per gli ebrei etc.). Con il 1865 c’è la laicizzazione dell’istituto matrimoniale che però non sopprime il diritto della chiesa ad avere un proprio diritto. Ci sarà un conflitto tra ordinamenti, che viene risolto dalle scelte personali del soggetto. Allora coesistono matrimonio civile e canonico. Possono sovrapporsi. Nel 1929 si dà la possibilità di riunificare, non si obbliga alla riunificazione. Lo stato non vieta al cattolico di celebrare matrimonio civile. Non ne deriva una incapacità per ragione di appartenenza religiosa, che sarebbe in contrasto con la costituzione. Dal 1865 al 1929 i due regimi sono reciprocamente indifferenti. Per l’ordinamento canonico può aver rilevanza il matrimonio civile quando si tratta di soggetti non battezzati, per i quali è una delle forme di celebrazione (lo scambio del consenso c’è, il matrimonio preesiste alla disciplina come sacramento). Teoricamente, se non ci fosse la disciplina del Concilio di Trento che impone, come norma ecclesiastica, che lo scambio del consenso avvenga dinnanzi al parroco proprio, lo scambio del consenso, anche davanti all’ufficiale dello stato civile, costituirebbe matrimonio. C’è questa disciplina tridentina della forma del matrimonio. Perciò coesistono matrimonio civile e canonico. Prima del 1929 i due matrimoni possono sovrapporsi, nel senso che gli stessi soggetti contraggono i due matrimoni dinnanzi ai due ordinamenti. Con il 1929 c’è una possibile unificazione. E’ offerta alla libertà delle parti (ed è una espressione di tutela della libertà religiosa) la possibilità di contrarre matrimonio canonico con effetti civili. Questa unificazione non è coattiva. Le volontà delle parti scelgono questo tipo di matrimonio. Perciò c’è sia una volontarietà matrimoniale che una volontarietà degli effetti civili. Con il matrimonio canonico trascritto l’effetto unificante si ha, ma nulla vieta che ci siano casi eccezionali nei quali ci sia il matrimonio canonico o il matrimonio civile tra persone diverse. L’esistenza del matrimonio civile non determina un vincolo per la persona, dal punto di vista canonistico. Poi l’azione pastorale tende comunque a unificare le due situazioni. Come tra il 1865 e il 1929 si voleva che le stesse persone contraessero il matrimonio civile oltreché canonico per assicurare una stabilità pubblica a quel vincolo, così anche oggi può accadere questo. Questo intreccio di situazioni dà plasticamente l’idea di cosa sia una materia mista, in cui c’è una competenza dei due ordinamenti che tendono a disciplinare in maniera uniforme con i concordati. Se si dicesse che chi ha contratto matrimonio solo religioso non si può sposare civilmente con altre persone, si verrebbe a ledere anche il diritto di libertà religiosa, che comprende anche il diritto di mutare la propria religione. Il matrimonio canonico può essere contratto anche con persona diversa rispetto a quella con la quale è stato contratto matrimonio civile. Ovviamente sarà sollecitata la dissoluzione di quel rapporto. Questo non toglie delle responsabilità morali o di sostegno economico nei confronti dell’altro soggetto. Del resto, questo intreccio si verifica anche per quel che riguarda lo scioglimento e la cessazione del matrimonio. La diversità di situazioni può essere la più varia. E’ contratto matrimonio concordatario, che è trascritto. Interviene una sentenza di divorzio (cioè cessazione degli effetti civili del matrimonio). La persona può contrarre civilmente un altro matrimonio. Se quest’altro matrimonio viene meno (per morte del coniuge o per altro divorzio), se il matrimonio concordatario è annullato, lo stesso soggetto può sposarsi nuovamente canonicamente con effetti civili. Ci sono due condizioni di stato libero in capo alla stessa persona, per l’ordinamento canonico e per l’ordinamento civile. Quando il vincolo è incrociato, cioè copre i due ordinamenti, viene meno lo stato libero in entrambi. Quando il vincolo non è incrociato, perché i due ordinamenti camminano su linee separate, c’è una reciproca valutazione autonoma della libertà di stato. Questo ci introduce anche sugli effetti delle sentenze di nullità. Uno dei pilastri della disciplina del 1929, rimasto nella revisione dell’84, è l’attribuzione degli effetti civili al matrimonio canonico e il riconoscimento della rilevanza della giurisdizione matrimoniale ecclesiastica. Teoricamente potrebbe esserci il primo dei due aspetti e non il secondo. La scelta del concordato del 1929, mantenuta, sia pure con limitazioni, nell’accordo del 1984, è che anche la giurisdizione dei tribunali ecclesiastici sul matrimonio abbia rilevanza per lo stato. Nel 1929 questa rilevanza appariva assoluta: nell’interpretazione data e nella costruzione giurisprudenziale questa giurisdizione era considerata esclusiva, poiché escludeva la giurisdizione statale. Solo la giurisdizione ecclesiastica poteva avere ad oggetto la validità del vincolo matrimoniale. L’art. 34 del vecchio concordato stabiliva la giurisdizione esclusiva dei tribunali ecclesiastici sulle cause di nullità e di dispensa dal matrimonio rato e non consumato, mentre riservava allo stato le cause di separazione personale dei coniugi, che altrimenti sarebbero state oggetto di giudizio anche da parte dei tribunali ecclesiastici. La modalità e la struttura di questo riconoscimento della giurisdizione ecclesiastica constava nella attribuzione dell’efficacia alle sentenze canoniche di nullità matrimoniale, considerate sempre sentenze emanate in un altro ordinamento, diverso da quello dello stato. Il collegamento avveniva attraverso la trasmissione della decisione canonica di nullità una volta che fosse divenuta definitiva da parte del Tribunale Supremo della Segnatura Apostolica alla Corte d’Appello competente per territorio, cioè quella nella cui circoscrizione il matrimonio era stato contratto e trascritto. La Corte d’Appello, con un proprio decreto, avrebbe disposto l’esecutività della sentenza e ordinato all’ufficiale dello stato civile a procedere alle relative annotazioni. Anche in questo ambito il rapporto si manifesta come rapporto tra autorità dei rispettivi ordinamenti. Il procedimento si attiva di ufficio, senza che vi fosse una richiesta delle parti interessate. E’ un procedimento che, per qualche aspetto, si inserisce nell’ambito dei procedimenti di delibazione delle sentenze straniere. Con i giudizi di delibazione si attribuisce efficacia a sentenze emanate in altri ordinamenti a seguito di un giudizio di delibazione che si sviluppa dinnanzi alle corti d’appello, secondo regole comuni dettate dal codice di procedura civile. Però era un procedimento di paradelibazione, simile alla delibazione per il soggetto che provvedeva, ma con alcune differenze: alcuni controlli venivano effettuati dalla Segnatura Apostolica, la quale controllava che fossero rispettate le norme canoniche sulla competenza del giudice, sulla ritualità del processo e accertava la “definitività della sentenza”. Non è usata la stessa espressione che si usa in ambito civile, cioè il “passaggio in giudicato della sentenza”. Il passaggio in giudicato consiste nella impossibilità di impugnare la causa nuovamente; accerta e dispone in ordine alla situazione di fatto, definita dalla sentenza. Se si accerta un credito e si condanna al pagamento della somma, questa somma non è più retrattabile. Il passaggio in giudicato può avvenire anche dopo il primo grado di giudizio, se le parti non impugnano. Se il tribunale o anche il giudice di pace decide una determinata controversia e non c’è una impugnazione entro uno anno, quella sentenza passa in giudicato. Non è il grado del giudice che ha adottato la decisione a determinare il passaggio in giudicato, ma è il non esperimento di rimedi ordinari contro quella decisione. Ci posso essere dei rimedi straordinari, come la revisione. Dal punto di vista canonistico, per quello che riguarda lo stato delle persone, non esiste un vero e proprio giudicato. Mentre il giudicato si sovrappone alla realtà sostanziale, e la rende in qualche modo giuridicamente incontrovertibile in conformità alla decisione adottata dal giudice, dal punto di vista canonico prevale sempre la verità sulla decisione processuale. Questo non significa che si controverte indefinitivamente. Una decisione diventa stabile, definitiva, quando vi sia una doppia decisione conforme. Se il giudice di primo grado ha deciso A, quello di secondo B, ma quello di terzo A, ci sono due decisioni conformi di due giudici diversi. Sotto questo aspetto, mentre la pluralità di gradi di giudizio è eventuale nell’ordinamento civile (se non c’è impugnazione passa in giudicato), almeno i due gradi di giudizio sono necessari per il processo canonico relativo allo stato delle persone. E’ detto “definitiva” e non invece “passata in giudicato”, perché ci può essere sempre una novae causae propositio, cioè un nuovo giudizio richiesto sulla base dell’esistenza di argomenti nuovi e gravi che inducono a riaprire la questione. Ai fini della esecutività della sentenza canonica vale che essa sia definitiva, cioè che ci sia stata la doppia sentenza conforme. Questa valutazione della definitività la faceva e la fa ancora oggi il Tribunale Supremo della Segnatura.
Il procedimento era officioso, che proseguiva e veniva attivato direttamente dall’ordine giudicante canonico, cioè dal Tribunale Supremo della Segnatura, con la trasmissione della decisione alla corte d’appello. S’era discusso se vi fosse presenza delle parti in questo giudizio (di esecutività, di paradelibazione). La giurisprudenza era arrivata, su orientamento della giurisprudenza costituzionale, a ritenere che non vi fosse obbligo di partecipazione delle parti ma facoltà di partecipazione. Anche in questo procedimento si doveva esprimere il diritto di agire e resistere in giudizio garantito dall’art. 24 della costituzione, cioè il diritto di difesa. Si era discusso se fosse compatibile con la costituzione il riconoscimento della giurisdizione ecclesiastica matrimoniale, ancor più come esclusiva, venendo questi rapporti sottratti alla giurisdizione del giudice dello stato, nell’idea che la giurisdizione è un elemento caratterizzante la sovranità. Non solo, secondo alcuni si veniva a configurare come un giudice speciale rispetto al giudice ordinario, così in contrasto con la costituzione. In questo ambito la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto che l’art. 7 della costituzione dà fondamento a questa deroga alla giurisdizione statale, tanto più se attuata attribuendola ad un ordinamento che conosce una antica tradizione processuale. Mentre la corte costituzionale ha ritenuto non compatibile con la costituzione la previsione che l’art. 34 del concordato del 1929 aveva, e quindi l’illegittimità costituzionale delle norme interne di derivazione concordataria, che riconoscevano effetti civili ai provvedimenti di dispensa dal matrimonio rato e non consumato, cioè dal matrimonio celebrato e non seguito da unione sessuale, per il quale poteva essere pronunciato uno scioglimento. In questi casi la valutazione che poteva mancare il diritto di difesa, laddove il provvedimento fosse di tipo amministrativo e non giurisdizionale, e comunque la decisione era ancorata a un qualche margine di discrezionalità nell’apprezzamento di un interesse pubblico (dal punto di vista canonistico), aveva portato ad escludere l’esecutività di questi provvedimenti. L’innovazione che l’accordo di revisione del concordato introduce è il mutamento di prospettiva: non un rapporto tra strutture degli ordinamenti, non un rapporto di vertice (tra segnatura apostolica e corte d’appello), bensì la riconduzione alla volontà e all’interesse dei soggetti. Si mantiene la possibilità di riconoscere e attribuire effetti civili alle sentenze ecclesiastiche di nullità ma in un procedimento che è attivato dalle parti interessate. Come per la trascrizione, anche qui, per la nullità, rileva in primo luogo la posizione dei soggetti, i quali devono chiedere alla corte d’appello che dia esecuzione in un giudizio di vera e propria delibazione alla sentenza canonica. Le sentenze di nullità del matrimonio, pronunciate dai tribunali ecclesiastici che siano munite del decreto di esecutività, sono, su domanda delle parti o su una di esse (con notifica all’altra parte), dichiarate efficaci nella repubblica quando il giudice ecclesiastico era il giudice competente a conoscere della causa in quanto matrimonio celebrato in conformità del matrimonio concordatario. Non viene attribuita esecutività ad una sentenza canonica che riguarda il matrimonio canonico non trascritto, che non ha acquistato effetti nello stato. Vi è un ulteriore controllo: nel procedimento davanti i tribunali ecclesiastici è stato assicurato alle parti il diritto di agire e resistere in giudizio in modo non difforme dai principi fondamentali dell’ordinamento italiano, cioè che effettivamente sia stato rispettato il diritto di difesa. Questo elemento è tanto più importante in quanto, in ordine alle garanzia di difesa, si aggiunge una prescrizione che deriva dalla convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Nel c.d. caso Pellegrini la Corte europea dei diritti dell’uomo (la corte di Strasburgo) aveva ritenuto lo stato responsabile per la violazione del diritto di difesa in un processo canonico, avendo dato esecuzione alla relativa sentenza. La corte di Strasburgo dice che anche se il processo straniero non è vincolato all’osservanza dei principi della Convenzione Europea, lo stato, tuttavia, si deve far carico del controllo del rispetto del diritto di difesa per le decisioni straniere alle quali attribuisce efficacia; cioè risponde del proprio processo e risponde del processo di un altro ordinamento alle cui decisioni ha attribuito efficacia. La linea è la medesima di quanto enunciato nell’accordo di revisione del concordato del 1929, dove si dice che la garanzia del diritto di difesa sia fatta in modo non difforme dai principi fondamentali dell’ordinamento italiano, il che non significa che debbano essere le medesime regole processuali (anzi, il processo canonico è un processo scritto, quello italiano è prevalentemente orale). Nel processo canonico, anche la parte convenuta in giudizio deve conoscere la domanda, le prove proposte e può interloquire in ordine a queste, proponendo le proprie prove, rispettando i principi del giusto processo. Devono inoltre ricorrere le condizioni previste dalla legge civile per il riconoscimento delle sentenze straniere. Operano le altre norme previste dagli artt. 796-797 del codice di procedure civile, per la cui applicazione si dovrà tener conto della specificità dell’ordinamento canonico. Quando si fa riferimento alla legge del luogo, si intende la legge dell’ordinamento canonico. L’ordinamento canonico non è territoriale, bensì personale. Si esclude che il merito della questione possa essere riesaminata dal giudice dello stato. Il problema che si è posto è se venga mantenuta o meno la giurisdizione esclusiva della chiesa. Secondo l’orientamento prevalente il principio di esclusività della giurisdizione sarebbe venuto meno, perché non è espressamente enunciato, è un limite alla sovranità e non potrebbe trovare una enunciazione implicita. Ma questo orientamento si trova di fronte a dei problemi non risolvibili: se si ammette una giurisdizione concorrente dello stato (unica alternativa alla giurisdizione esclusiva) non si sa quale sia la disciplina sostanziale da applicare. Il giudice dello stato giudica la validità di quel matrimonio secondo la disciplina del codice civile o deve giudicare della nullità del matrimonio secondo la disciplina canonica? Il protocollo addizionale fa riferimento alla specificità dell’ordinamento canonico, dal quale è regolato il vincolo matrimoniale che in esso ha avuto origine. La norma di quel matrimonio è disciplinata dal diritto canonico. Sarebbe singolare che il giudice dello stato giudichi secondo le norme canoniche o vada a giudicare della validità di quello che è un sacramento. Per quanto assurdo possa apparire, l’esclusione della giurisdizione concorrente risponderebbe ad un principio di laicità dello stato. Se si parla di giurisdizione concorrente, sorgono aspetti non solo sostanziali relativi alla disciplina da applicare, ma anche processuali, perché solitamente il conflitto che si può determinare viene risolto sulla base del principio di prevenzione: il giudice preventivamente adito diventa il giudice competente nell’ipotesi di giurisdizione concorrente. In questo caso varrebbe il principio di prevenzione o il principio del giudice che prima decide? Questi problemi, che non hanno avuto soluzione giurisprudenziale concreta, toccano l’assetto di questo istituto. Se quello concordatario è un tipo di matrimonio e non una forma religiosa di celebrazione del matrimonio civile, ne segue come corollario e conseguenza che il presupposto degli effetti civili (il matrimonio canonico) sia giudicato dal giudice dell’ordinamento nel quale questo presupposto è sorto, e che costituisce una sorta di presupposto di fatto per gli effetti civili, sicché, rimosso quel presupposto, dovrebbero venir meno anche gli effetti civili. Se ci si orienta alla concorrenza di giurisdizione, o si unifica nella celebrazione due matrimoni distinti giuridicamente pur tra le stesse persone, o ci si trova di fronte a quell’intreccio relativo al diritto applicabile e ai rapporti processuali tra i due giudici. Come mai questo ordine di problemi non ha avuto sviluppo? Perché assai spesso la dichiarazione di nullità del matrimonio segue una pronuncia statale di divorzio. Dal punto di vista logico, c’è una distinzione tra nullità del matrimonio e divorzio. La nullità del matrimonio tocca il momento genetico, cioè l’atto che genera il rapporto (il negozio, il contratto). Con lo stesso termine di matrimonio individuiamo tanto l’atto quanto il rapporto. Con il divorzio l’incidenza è sul rapporto matrimoniale. Il presupposto del divorzio, dal punto di vista logico, è che ci sia un atto matrimoniale valido. Cessano gli effetti del matrimonio, che perciò ha avuto legittimamente vita dal momento iniziale fino al momento di cessazione degli effetti. Tanto è vero che permangono anche elementi di solidarietà tra gli ex coniugi. Questo determina dei problemi anche in rapporto alla efficacia delle sentenze di nullità. Può essere attribuita efficacia a una sentenza di nullità del matrimonio quando gli effetti civili già ne siano cessati a seguito del divorzio? Questo percorso unitario tra i due ordinamenti può venir meno anche perché il giudice dello stato ha dichiarato cessati gli effetti in applicazione della legge sul divorzio. Quando pronuncia una sentenza di divorzio si disinteressa del permanere di quel vincolo nell’ordinamento canonico. Dal momento in cui è sorto al momento in cui è stato pronunciato il divorzio, il rapporto matrimoniale era tale sulla base di un atto valido, del quale però cessano gli effetti. Questa cessazione di effetti non ha rilevanza nell’ordinamento canonico. Dopo la cessazione degli effetti, è ancora aggredibile l’atto che ha prodotto questi effetti? La nullità attacca il negozio, non il rapporto. Se viene meno il negozio cade anche la legittimità degli effetti. Il divorzio invece non attacca l’atto iniziale, ma chiude il rapporto. Nell’ipotesi di nullità del matrimonio, può esserci la salvaguardia del c.d. matrimonio putativo: la parte in buona fede è tutelata, nel senso che per lei il matrimonio era valido, così come è tutelata la posizione dei figli. Venendo alla domanda: possono essere attribuiti effetti civili alla sentenza di nullità, una volta che gli effetti civili di quel matrimonio siano venuti meno? Può essere data esecuzione a quella sentenza di nullità? In chiave logica abbiamo due soluzioni. Primo: no, perché è venuto meno il rapporto. Secondo: sì, perché l’oggetto del giudizio è diverso, e allora il venir meno del momento genetico dovrebbe far venir meno anche gli effetti. La soluzione data dalla giurisprudenza della cassazione (soluzione di equità) è che anche nell’ipotesi di divorzio può essere attribuita efficacia alle sentenze di nullità matrimoniale, perché l’oggetto del giudizio è diverso. La pronuncia di divorzio non impedisce il riconoscimento della nullità del matrimonio canonico. Ci si attenderebbe da questo, se si aderisse alla linea radicale, che vengono meno anche gli effetti del matrimonio. In ipotesi non dovrebbe esser corrisposto l’assegno di divorzio; verrebbero in discussione le statuizioni successive. La giurisprudenza della cassazione nega ciò: proprio la diversità degli oggetti fa sì che la sentenza di nullità di matrimonio non è tale da travolgere il giudicato che si è formato. Perciò permangono gli assegni attribuiti nell’ipotesi di divorzio, atti che presupporrebbero un matrimonio valido. Gli effetti patrimoniali sono diversi nell’ipotesi di nullità e in quella di divorzio. Nell’ipotesi di nullità il codice civile stabilisce un assegno di mantenimento per un arco di tempo determinato, oppure una prestazione indennitaria a carico del coniuge che abbia responsabilità nella nullità del matrimonio. Nella nullità non si producono effetti permanenti. L’accordo di revisione del concordato contiene anche in questo caso una novità rispetto alla disciplina precedente: la corte d’appello, nella sentenza intesa a rendere esecutiva una sentenza canonica, può statuire provvedimenti economici provvisori a favore di uno dei coniugi il cui matrimonio sia stato dichiarato nullo, rimandando le parti al giudice competente sulla materia. La corte d’appello può stabilire provvedimenti non indicati ma disciplinati dalla legge dello stato: può attribuire l’assegno di mantenimento nell’ipotesi consentita, una corresponsione indennitaria. Ma non essendo il giudice competente a queste decisioni (la corte d’appello è giudice di impugnazione e di delibazione) adotta un provvedimento provvisorio, e dovrà esserci la riassunzione di questo giudizio dinnanzi al tribunale, che è il giudice competente in questa materia. E’ una materia che, negli aspetti sostanziali, può essere interamente disciplinata dal diritto dello stato.

Ecclesiastico Apr 21
Enti e beni ecclesiastici secondo alcuni fondamenti costituzionali, e la disciplina concordataria. Volendo fare una prima ricognizione delle fonti, un punto fondamentale di partenza è costituito dall’art. 20 della costituzione, che espressamente stabilisce che “il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto di una associazione o istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività”. Questa disposizione è il fondamento di una garanzia di libertà e parità di trattamento ed è sostanzialmente recepita nell’accordo di revisione del concordato. L’accordo di revisione del concordato del 1984 dedica agli enti e ai beni ecclesiastici l’art. 7, che inizia appunto richiamando il principio enunciato nell’art. 20 della costituzione. Indica dei principi relativi agli enti ecclesiastici. Rinvia per una completa disciplina a un accordo successivo. Il numero 6 dell’art. 7 dell’accordo di revisione del concordato stabilisce che “all’atto della firma del presente Accordo, le Parti istituiscono una Commissione paritetica per la formulazione delle norme da sottoporre alla loro approvazione per la disciplina di tutta la materia degli enti e beni ecclesiastici e per la revisione degli impegni finanziari dello Stato italiano e degli interventi del medesimo nella gestione patrimoniale degli enti ecclesiastici”. Il Protocollo Addizionale è un atto che accede all’accordo di revisione del concordato, ne fa parte, anche se formalmente distinto. E’ un protocollo che si aggiunge a quello principale, e tuttavia lo integra. Non è solo collegato geneticamente (nascono e viaggiano insieme) ma anche funzionalmente. Dal punto di vista sostanziale contiene disposizioni e norme che potevano trovare ugualmente collocazione nel protocollo principale. Si tratta di due atti il cui contenuto è sostanzialmente unitario. Al numero 3 del Protocollo Addizionale si fa riferimento all’esclusione dell’obbligo di conversione di beni immobili. Si attribuisce alla commissione paritetica prevista dal Protocollo principale il compito di ultimare i lavori entro 6 mesi dalla firma dell’accordo. Sempre nell’ambito delle ricognizioni delle fonti abbiamo un altro protocollo firmato il 15 novembre del 1984 con il quale le parti contraenti (Governo e Santa Sede) approvano, con alcune modifiche, le norme predisposte dalla commissione paritetica. Dettano convenzionalmente la nuova disciplina degli enti e beni ecclesiastici, e degli interventi finanziari dello stato. Queste norme sono destinate a entrare in vigore nell’ordinamento dello stato e in quello della chiesa con la contestuale nella Gazzetta Ufficiale e negli Acta Apostolicae Sedis della medesima disciplina (art. 75 dell’accordo sugli enti e beni ecclesiastici). A livello interno la fonte che disciplina questa materia è la legge 222/1985.
Qualche osservazione sul sistema delle fonti in questa materia. Innanzitutto quelle di livello costituzionale, che dettano principi che lo stato enuncia e afferma nel proprio ordinamento in rapporto a questa materia. Anche qui vale il richiamo generale che l’art. 7 della costituzione fa ai patti lateranensi (che in parte disciplinavano questa materia) e alla bilateralità alle modificazioni che possono essere adottate d’accordo tra le parti. Anche in questa materia opera il principio di bilateralità, principio generale in relazioni ai rapporti tra stato e confessioni religiose. L’accordo di revisione del concordato si manifesta, in questa materia, come “accordo quadro”, perché stabilisce alcune norme fondamentali e rinvia ad una ulteriore disciplina che deve essere adottata in attuazione del principio di bilateralità d’accordo tra le parti. Vi è una singolarità tra le modalità con le quali le parti attuano il principio di bilateralità: attraverso i lavori di una commissione paritetica che è destinata a formulare le norme da sottoporre all’approvazione delle parti. Nell’ambito degli accordi esterni o trattati c’è normalmente una fase di negoziato, e quindi di definizione dei contenuti, di un accordo da raggiungere, non ancora concluso, e di articolazione formale di questi contenuti. Questo negoziato avviene solitamente attraverso i plenipotenziari, soggetti ai quali è attribuito questo potere di negoziare, di preparare un testo dell’accordo. Questo può avvenire attraverso i normali canali diplomatici o con altri percorsi e forme. Il negoziato si conclude con la sottoscrizione di un testo che non è ancora vincolante. Lo diviene quando su di esso si forma la volontà del soggetto che si vincola con l’accordo. Il vincolo si perfeziona, e quindi diventa efficace, con lo scambio delle ratifiche, cioè con lo scambio delle dichiarazioni di accettazione delle parti. La singolarità del percorso seguito per la predisposizione della legge sugli enti e beni ecclesiastici. L’elaborazione del testo, sulla base dei principi contenuti nell’accordo e nel protocollo addizionale, avviene ad opera di una commissione paritetica, cioè di una commissione composta di membri nominati in egual numero dalle due parti, non di plenipotenziari, ma tecnico-politica. Individua il punto di equilibrio nei rapporti tra le parti, evidentemente ciascuna semicommissione rappresentandone gli orientamenti e individuando le soluzioni da dare, con la predisposizione di un articolato che aspira a diventare normativo (come dice l’art. 7 al punto 6 dell’accordo di revisione del concordato: “Formulazione delle norme da sottoporre alla loro delle parti) approvazione”. Esaurito il lavoro tecnico-politico, sono le parti, nuovamente, a recepire il testo normativo formulato dalla commissione, approvandolo. L’approvazione avviene con un ulteriore protocollo, atto internazionale nel quale le parti introducono alcune modifiche da introdurre alle norme predisposte dalla commissione. La commissione ha operato d’intesa con i rispettivi mandanti, ma teoricamente le parti avrebbero potuto non approvare il testo della commissione o modificarne profondamente l’impostazione. Ciò non è avvenuto per quanto riguarda lo stato perché la commissione, prima di sottoscrivere e licenziare il testo delle nuove norme che propone, ha elaborato al governo una relazione sui principi ai quali si era attenuta. Su questi principi c’era stata una discussione parlamentare previa, per avere una sorta di pre-approvazione politica degli indirizzi seguiti. Questo è in coerenza con tutto il percorso della revisione del concordato che ha portato a dire che si è assistito ad una parlamentarizzazione delle trattative della revisione: prima della conclusione anche dell’accordo di revisione del concordato c’è stata sempre una discussione parlamentare che offriva un indirizzo politico al governo, con una ampiezza di adesione e valutazioni superiore alla maggioranza governativa. Questo perché il rapporto Stato-Chiesa è sempre stato ritenuto un tema istituzionale, non ancorato ad una maggioranza politica, come non lo era stato in seno all’assemblea costituente l’approvazione degli artt. 7-8 della costituzione. Il compito della commissione era la disciplina di tutta la materia degli “enti e beni ecclesiastici e revisione degli impegni finanziari dello stato e interventi del medesimo nella gestione patrimoniale”. Questa formulazione circoscrive il compito della commissione in un ambito molto esteso: tutta la materia degli enti e beni ecclesiastici. Questa materia era stratificata, nella quale grosse parti della disciplina normativa avevano fonte preconcordataria, anteriore al 1929. La chiesa o le confessioni religiose hanno una loro organizzazione. Questa organizzazione implica l’uso di mezzi materiali, per i quali incidono diritti disciplinati dalla legislazione statale, e una articolazione per enti. In ordinamenti complessi nei quali vi è una struttura “di governo” vi sono degli uffici (funzioni pubbliche per quell’ordinamento) che sono personificati, cioè soggetti di diritto, ovvero centro di imputazione di rapporti giuridici rilevanti anche per lo stato. Anche in questo caso l’assetto remoto della normativa era quello dato dalla prima legislazione unitaria, successiva all’unificazione dell’Italia, cioè la c.d. legislazione eversiva dell’asse ecclesiastico. Era una disciplina statale che sopprimeva le corporazioni religiose (ordini, congregazioni, enti a base associativa), manteneva la personalità giuridica degli enti territoriali rappresentativi di una finalità di interesse pubblico (parrocchie, diocesi), che rappresentavano la struttura della chiesa e altresì erano dirette a soddisfare i bisogni religiosi della popolazione. C’è quindi una linea politica interventista in questo ambito, per la quale il diritto canonico era presupposto della disciplina civile, ma la disciplina civile era intrusiva nella disciplina canonica, sino a costituire una vera e propria limitazione della libertà di associazione: soppressione dei conventi come enti, non riconoscimento delle case religiose. Tutto questo portava a non dare alcun rilievo ad alcuni vincoli basati sull’elemento religioso. Accanto a questo intervento di tipo strutturale (riconoscimento o non riconoscimento della personalità giuridica) si era attuata la c.d. eversione del patrimonio ecclesiastico, cioè la vendita dei beni immobili appartenenti agli enti soppressi o la loro destinazione ad uso pubblico da parte dei comuni, l’imposizione di una tassa di mano morta, che colpiva i patrimoni accumulati del 30%, e la conversione del ricavato dalle vendite in titoli del debito pubblico amministrati dal Fondo per il Culto, le cui rendite sarebbero state utilizzate per perequare i redditi dei titolari dei benefici ecclesiastici. In sede di conversione di questi beni in titoli del debito pubblico c’era una imposta del 30% sul valore dei beni. In più c’era una tassa di mano morta: colpisce i patrimoni che non hanno successione nel tempo. L’ente, persona giuridica, è per sé permanente, non è sottoposto a periodiche variazioni della titolarità. Sotto un certo aspetto le imposte patrimoniali sostituiscono le imposte successorie.
Qui si introduce un altro elemento di fondo del sistema: l’organizzazione degli uffici della chiesa su base patrimoniale, secondo il vecchio sistema dei benefici ecclesiastici. I benefici sono un residuo dello stato patrimoniale, caratterizzato dall’esserci, accanto a ciascun ufficio, una massa di beni (il beneficio) attribuiti in gestione al titolare dell’ufficio che ne godeva quasi come un usufruttuario e traeva dai redditi di questi beni la remunerazione per l’attività svolta e in definitiva i mezzi per il proprio sostentamento. Ufficio e beneficio venivano ad essere unificati in un ente che aveva personalità giuridica, era titolari di beni e di un proprio patrimonio, ed era rappresentato e gestito dal titolare dell’ufficio in ragione di tale suo munus, di tale sua funzione. Ciò presupponeva anche un qualche controllo sull’attività svolta, una distinzione tra atti di amministrazione ordinaria (connessi al godimento dei beni) e atti di amministrazione straordinaria o di disposizione dei beni (che potevano incidere sulla consistenza patrimoniale dell’ente). Il sistema dei benefici ecclesiastici aveva strutturalmente la possibilità di forti squilibri, cioè dell’esistenza di benefici con consistente massa patrimoniale, in sintesi ricchi, e benefici poveri, con pochi beni. Questa consistenza derivava dalla stratificazione delle attribuzioni patrimoniali, che erano state fatte a questo ente, e non collegate all’impegno richiesto dalla funzione esercitata. Con la costituzione del Fondo per il Culto e con il meccanismo della eversione e conversione del patrimonio in titoli del debito pubblico avviene che il Fondo per il Culto opera una sorta di perequazione: con le rendite che provengono dai titoli del debito pubblico, va incontro e sostiene i benefici più poveri, stabilendo (con legge dello stato) una c.d. congrua, cioè una congrua remunerazione, un livello di reddito che sarebbe stato congruo per ciascuna funzione, integrando questo reddito effettivo (che i beni di proprietà dell’ente determinavano, laddove fosse tale da non raggiungere il livello congruo) con un supplemento, il c.d. supplemento di congrua. Se i redditi di ciascun beneficio erano inadeguati perché inferiori al livello generalmente stabilito, il Fondo per il Culto integrava questi redditi insufficienti con il supplemento di congrua, con una finalità che all’epoca appariva anche di tipo politico: sostenere il basso clero patriottico! E comunque la finalità era sostenere l’azione di coloro che prestavano una attività ministeriale di cura delle anime, diretto alla popolazione. Il sistema ha funzionato per molti anni ma dopo la prima guerra mondiale i redditi dati dai titoli del debito pubblico (propri del Fondo per il Culto) si rilevavano insufficienti, a causa del fenomeno inflattivo. Allora sono state risorse statali che hanno integrato le disponibilità del Fondo per il Culto, sempre con la finalità di integrare i redditi dei benefici insufficienti. Questo meccanismo ha sempre comportato un intervento e controllo dello stato sia nella erezione di nuovi enti beneficiari e congruabili, sia nell’amministrazione degli anti congruati o congruabili. Questo perché, dalla dismissione di beni o dalla creazione di un nuovo ente ne potevano derivare oneri per lo stato, che era impegnato a supplire i redditi deficitari. Perciò, per ogni atto di straordinaria amministrazione era richiesta l’autorizzazione statale.
Torniamo al sistema che derivava da questo complesso:
1) la restrizione nella riconoscibilità degli enti. Solo alcuni tipi di enti potevano essere riconosciuti. Questo limite veniva praticamente superato con vari strumenti, come l’intestazione dei beni a persone fisiche che facevano parte di case religiose, associazioni. Ciò portava discrasia tra la configurazione giuridica e la realtà sostanziale.
2) per gli enti riconosciuti il potere di intervento statale come autorizzazione agli acquisti (previsto in generale per le persone giuridiche) per evitare l’eccessivo accumulo di beni in capo alle persone giuridiche l’incoerenza con le finalità dell’ente. Qualche volta l’autorizzazione ha funzionato per verificare che non fossero pretermessi diritti di altri soggetti. C’è un qualche controllo pubblico in questo ambito.
Questo è in connessione con la considerazione della personalità giuridica come una sorta di privilegio. Rimanevano gli enti riconosciuti e riconoscibili e per gli enti c’è o un atto di erezione o l’antico possesso di stato (enti sempre personificati, per i quali non si conosce il titolo attributivo della personalità giuridica, ma che si sono sempre comportati da persone giuridiche: di fatto e storicamente lo sono). In alcuni ordinamenti hanno la personalità giuridica gli enti che ce l’hanno secondo il diritto canonico. In ordinamenti in cui c’è una distinzione più netta tra i due ordini, ci possono essere enti che per la chiesa hanno personalità giuridica e per lo stato non la hanno. Ecco che nasce l’esigenza di una disciplina che coordini i due ordinamenti. Nel nostro sistema attualmente esiste la categoria degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, cioè enti eretti o approvati dalla chiesa ai quali è attribuita anche la personalità giuridica civile, con la qualifica di enti ecclesiastici civilmente riconosciuti.
Tornando al contesto storico, nel 1929, con i patti e concordato lateranense, si è largamente preso atto della disciplina esistente. Non si è modificato il sistema dei benefici ecclesiastici che trovava disciplina e riconoscimento anche nel codice di diritto canonico del 1918-1919. S’è mantenuta la finalità del Fondo Culto unitamente al Fondo per la Città di Roma, perché il Fondo Culto precede la presa di Roma e Roma Capitale. Con Roma capitale questa legislazione è stata estesa ed è stato costituito un altro fondo destinato a questa finalità. Questi fondi erano originariamente dal Ministero della Giustizia e dei Culti; poi furono gestiti dal Ministero dell’Interno. Il Fondo aveva una autonomia patrimoniale, anche se il bilancio era annesso a quello dello stato. Il concordato non incide molto su questo assetto. Individua gli enti riconoscibili. Esclude la riconoscibilità degli enti di diritto diocesano, per la loro precarietà. In complesso non modifica questa disciplina.
Con la revisione del concordato del 1984 e il nuovo sistema elaborato dalla commissione paritetica e approvato dalle parti c’è una radicale trasformazione del sistema da sistema patrimoniale a sistema finanziario. La codificazione canonica successiva al Vaticano II già s’era mossa sulla linea dell’abbandono del sistema dei benefici ecclesiastici, residuo di una concezione di stato patrimoniale. Da parte dello stato c’è interesse ad abbandonare questa gestione diretta a verificare le risorse di ciascun ente, a erogare i supplementi di congrua, sostanzialmente a finanziare direttamente il clero; c’è interesse a prefigurare una limitazione degli impegni finanziari dello stato che, in forza di indicizzazioni, portavano ad incrementi notevoli di spesa prevista. Il disegno essenziale che la commissione prefigura non ammette più erogazioni dirette dello stato ai singoli religiosi in rapporto ai beni del beneficio amministrato, ma costituisce in ogni diocesi un Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero (IDSC) con trasferimento a questo istituto della proprietà dei beni dei singoli benefici ecclesiastici che erano destinati al sostentamento del titolare dell’ufficio. Questa concentrazione dei beni da un lato avrebbe sollevato il titolare dell’ufficio dall’onere dell’amministrazione e dall’altra avrebbe consentito una più razionale ed economica gestione di questi beni, non più frammentati in maniera pulviscolare in capo alle 30 mila parrocchie. Un IDSC al di sopra del quale è stato costituto l’Istituto Centrale per il Sostentamento del Clero (ICSC), con la finalità di integrare le risorse dei singoli istituti diocesani i quali, provvedendo alla remunerazione dei sacerdoti che prestano servizio per le diocesi, attingevano e attingono ai redditi prodotti dai beni ex-beneficiari ma sulla considerazione che queste risorse erano e sono del tutto insufficienti. Allora l’ICSC attinge ad altre risorse. Abbiamo detto che il sistema si modifica in sistema finanziario. Viene prefigurato un doppio meccanismo di finanziamento e acquisizione di risorse. Un primo meccanismo è costituito dalle dazioni spontanee dei fedeli o cittadini con la facoltà di dedurre dal reddito l’importo dato all’ICSC entro il tetto massimo fissato nel 1984 in 2 milioni annui di lire, quindi incentivando con un vantaggio fiscale le cui dimensioni sono maggiori quanto maggiore è l’aliquota di imposta perché la somma versata non costituisce reddito per la persona. Su quella somma la persona non paga le imposte sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) al quale altrimenti sarebbe tenuta. L’altro meccanismo parallelo a questo è quello che viene abitualmente indicato come l’otto per mille. Consiste nella destinazione di una quota dell’otto per mille del gettito complessivo dell’IRPEF a un fondo statale o ecclesiastico (nel secondo caso alla CEI) sulla base delle scelte espresse dai singoli contribuenti. Nei modelli di dichiarazione annuale di dichiarazione del reddito esistono caselle che riguardano la chiesa cattolica e le altre confessioni religiose che hanno convenuto sullo stesso sistema in base ad intese con lo stato. Questa quota annuale dell’otto per mille del gettito complessivo (non dell’imposta che ciascun contribuente paga) è ripartita sulla base delle scelte espresse: chi non esprime nessuna scelta (godendo anche di libertà di non dichiarare le proprie opzioni) si affida alle proporzioni che redivano dalle scelte fatte dai dichiaranti. Questo sistema è diverso da quello esistente in alcuni paesi dove c’è la c.d. imposta ecclesiastica. Ad esempio in Germania le chiese storiche e le confessioni che ne abbiano le caratteristiche sono considerate enti di diritto pubblico e hanno una capacità impositiva, cioè possono imporre una imposta addizionale su quella statale relativa al reddito della persona, che viene riscossa dallo stato e girata alla chiesa o confessione di appartenenza. Il presupposto è l’appartenenza alla chiesa o alla confessione religiosa, che determina anche un vincolo di carattere fiscale, vincolo che viene meno solo attraverso l’atto di uscita dalla chiesa. Nel sistema italiano non c’è una connessione tra la scelta della destinazione dell’otto per mille da parte del contribuente e l’appartenenza confessionale. E’ una scelta annuale che può essere variamente motivata. Può darsi che si tratti di un fedele di quella confessione religiosa ma può darsi che la destinazione sia fatta per l’apprezzamento delle attività cui sono destinati i fondi provenienti dall’otto per mille. Sui fondi dell’’otto per mille una quota è assegnata dalla CEI all’ICSC per provvedere alle sue funzioni, in connessione con gli IDSC. Dal sistema beneficiale (patrimoni amministrati da ciascun titolare dell’ufficio dai cui redditi il titolare trae la propria remunerazione) basato su proprietà immobiliare, a un sistema basato su flussi finanziari e fortemente perequativo, perché il livello di remunerazione è stabilito centralmente dalla CEI. C’è uno sganciamento radicale tra titolarità dell’ufficio e le risorse destinate al titolare di quell’ufficio.
Venendo alla disciplina degli enti vediamo anzitutto il principio costituzionale sul quale si radica la disciplina. Il riferimento nelle fonti è dato dall’art. 20 della costituzione che individua innanzitutto un ambito soggettivo: associazioni o istituzioni, cioè entità su base personale o con configurazione istituzionale. I soggetti sono “enti che abbiano carattere ecclesiastico o fine di religione o di culto”, cioè enti incardinati nella struttura organizzativa ecclesiastica ma anche associazioni che hanno fine di religione e culto che muovono esclusivamente nell’ambito del diritto di associazione previsto dall’art. 18 della costituzione, e sia pure qualificata da finalità particolare (di religione o di culto). Si tratta di una associazione che già trova radicamento nell’art. 19 della costituzione (“Libertà di professare la propria religione in forma individuale o associata”, cioè di compiere atti di culto o perseguire finalità religiose). L’art. 20 garantisce che il fine di questi enti o il loro carattere ecclesiastico non può essere causa di speciali limitazioni legislative. Non ci può essere una disciplina relativa a questi enti differenziata e peggiorativa rispetto alla disciplina comune. L’art. 20 dice poi “né di speciali gravami fiscali”: il principio che si attua è quello di eguaglianza, di parità di trattamento, non deteriore, rispetto a quello attribuito ad altri enti. Qui si apre un problema che è sempre presente quando si tratta dell’applicazione del principio di eguaglianza, perché l’eguaglianza sollecita sempre un giudizio relazionale: c’è sempre una eguaglianza tra due termini che vengono confrontati. Allora si tratta di individuare quale tipo di ente può essere assunto quale ente di paragone al fine di valutare se vi è uno speciale gravame fiscale o una speciale limitazione legislativa. Ad esempio difficilmente si possono equiparare questi enti a enti che abbiano finalità commerciale (una società, a chi persegue fini di lucro). Questi enti con finalità religiosa o di culto sono tradizionalmente equiparati a enti con finalità non lucrative, quali quelli di assistenza o di istruzione. Troviamo una esplicita indicazione di questa equiparazione nell’art. 7 numero 3 dell’accordo di revisione del concordato, che è il patto che indica i principi sui quali si baserà poi la legge sugli enti e beni ecclesiastici. Esso dice che “agli effetti tributari, gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopi, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficienza o di istruzione”. Individua l’elemento di comparazione rispetto al quale non ci può essere un trattamento deteriore. Un trattamento deteriore differenziato costituirebbe lesione del principio di eguaglianza, essendo assimilati nei fini a questi enti. Sotto questo aspetto la disciplina speciale che in ipotesi riguardi gli enti ecclesiastici dal punto di vista tributario non costituisce un privilegio se è una disciplina speciale analoga a quella relativa a questi altri enti (beneficienza o istruzione). Anzi, costituirebbe una disparità di trattamento una disciplina che assimilasse il fine di religione o di culto a finalità commerciali o non assimilabili a quelle di beneficienza e istruzione. L’art. 20 indica che non è più consentito, dal punto di vista costituzionale, una legislazione come quella eversiva del 1800, cioè una soppressione delle corporazioni religiose, una conversione forzosa del loro patrimonio, e l’imposizione di uno speciale gravame fiscale. L’art. 20 vuole essere una garanzia a questi effetti, ma ha anche un altro contenuto che si proietta nella dinamica futura: “prevede che non ci possono essere speciali limitazioni legislative per la costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività”. Questo significa che anche gli enti ecclesiastici possono svolgere attività diverse da quelle di religione o di culto. La loro capacità non è limitata rispetto alla capacità degli altri soggetti giuridici. Ci possono essere attività che l’ordinamento dello stato non considera di religione o di culto ma che possono essere svolti da questi enti. L’attività editoriale di una famiglia religiosa può essere strutturata con la creazione di un soggetto autonomo in forma di vera e propria società commerciale o può essere un’attività connessa, svolta da medesimo ente. Così l’attività di istruzione, l’attività ospedaliera non è attività di religione o di culto ma è una attività che può essere svolta dall’ente ecclesiastico civilmente riconosciuto. Anche di questo troviamo specifica traccia nell’art. 7 punto 3 laddove si dice che “le attività diverse da quelle di religione o di culto svolte dagli enti ecclesiastici sono soggette, nel rispetto della struttura e della finalità di tali enti, alle leggi dello stato concernenti tali attività e al regime tributario previste per le medesime”. Questo significa che ci possono essere attività diverse da quelle di religione o di culto svolte dagli enti ecclesiastici. Lo ricavavamo dal principio del divieto di speciali limitazioni alla capacità. Qui abbiamo una enunciazione formale che, nel disciplinare come debba essere considerata questa attività non di religione o di culto, implica e presuppone che questa attività possa essere legittimamente svolta dagli enti ecclesiastici. Con questo effetto, dal punto di vista tributario: c’è una modifica nella prospettiva. Il trattamento tributario non è riferito alla natura dell’ente ma alla caratterizzazione dell’attività svolta. Non è un privilegio soggettivo. Se l’attività svolta ha carattere commerciale, quella attività, svolta da un ente non commerciale, è sottoposta al trattamento fiscale proprio di quella attività. Per esempio la gestione di un cinema parrocchiale non si estende alle attività del cinema il trattamento fiscale proprio dell’ente parrocchia. Sotto questo aspetto la equiparazione è non tra soggetti ma tra attività. Allora non viene a costituire trattamenti di carattere privilegiato.

Ecclesiastico Apr 28
Continuiamo con la trattazione della disciplina degli enti e dei beni ecclesiastici. L’art. 7 dell’accordo del 1984 enuncia i principi e costituisce il quadro di riferimento della disciplina normativa. E’ integrato dal successivo Protocollo del 5 novembre 1984 che approva le norme per la disciplina degli enti e beni ecclesiastici formulate dalla commissione paritetica, istituita secondo quanto dispone lo stesso art. 7 dell’accordo di revisione del concordato al numero 6. Il protocollo di approvazione delle norme formulate dalla commissione paritetica modifica alcune di queste norme. Quando si passa dalla attività della commissione che ha negoziato e elaborato in maniera tecnica la nuova disciplina torna alle parti e ai loro rappresentanti il pieno potere di integrare e modificare le norme che la commissione paritetica ha proposto. Abbiamo quindi una sorta di produzione normativa a cascata. Il fondamento è costituito dall’accordo di revisione del concordato. La materia degli enti e beni ecclesiastici era in parte riferita a fonti bilaterali e a fonti unilaterali. Il superamento di questo meccanismo aveva un carattere anche di analitica tecnicalità. Le norme predisposte dalla commissione paritetica sviluppano 75 articoli, contro i 14 dell’accordo di revisione del concordato (che disciplina l’intera materia dei rapporti bilaterali). Il negoziato diretto tra le parti sarebbe stato più complesso se fosse dovuto essere più esteso. La commissione paritetica è servita per il negoziato, ma non è formata da plenipotenziari. E’ paritetica perché i componenti sono designati dalle parti, predispongono norme, ma queste norme sono sottoposte all’approvazione delle parti. Plenipotenziari sono coloro che sottoscrivono il protocollo di approvazione di queste norme. Il protocollo di approvazione ha le stesse caratteristiche internazionalistiche o esterne che ha il concordato. Ciò significa che le norme approvate con il protocollo sono soggette a essere ratificate in via mediata con la ratifica del protocollo. Sono esse stesse espressione di bilateralità. Il principio di bilateralità è uno dei cardini dei sistemi (insieme alla autonomia e indipendenza). Da ciò ne deriva che anche le norme sugli enti e beni ecclesiastici hanno una qualche garanzia costituzionale. Non possono essere unilateralmente modificate da una delle parti. Non possono esserlo perché un eventuale intervento di modifica che una delle parti costituirebbe non solo un illecito internazionale ma, dal punto di vista dello stato, sarebbe in contrasto anche con la disciplina costituzionale (art. 7.2). Le norme sugli enti e beni ecclesiastici danno la chiara e specifica idea di che cosa sia una materia mista, cioè una materia nella quale si intrecciano necessariamente le competenze dello stato e della chiesa. L’essere materia mista dà ragione del perché sostanziale del principio di bilateralità. Una materia che sta a cavallo dei due ordinamenti necessita l’intervento bilaterale, convergente e coordinato, per regolamentare un fenomeno unitario. Questa materia tocca ambiti che sono disciplinati normalmente dal diritto comune (es.: personalità giuridica, rappresentanza organica, attività negoziale, imputazione di diritti patrimoniali, gestione dei beni, trattamento fiscale degli enti, rapporti tra enti). Questi enti hanno però una propria specificità, non solo per la finalità che perseguono, non solo perché si tratta di enti che nascono nell’ambito ecclesiastico, ma perché questi enti, spesse volte, costituiscono l’articolazione organizzativa della chiesa. Nei confronti di alcuni di questi enti si esercitano delle potestà pubblicistiche degli organi di governo della chiesa. Per esempio, la parrocchia è una comunità di fedeli su base territoriale, affidata alle cure del parroco. Sotto questo aspetto è un elemento dell’organizzazione ecclesiastica. Secondo la tradizione di altri ordinamenti, in Germania la comunità ecclesiastica è chiamata “comune”, proprio come il comune civile. La parrocchia è anche una struttura entificata, cioè ha propria personalità giuridica, perché è titolare di un patrimonio (es.: edificio di culto) che è strumentale all’esercizio dell’attività di culto. Può avere flussi finanziari. Questa gestione finanziaria è disciplinata dalle regole proprie della chiesa, ma ciò ha rilevanza civile. A rappresentare l’ente, quando si tratta di porre in essere attività di tipo patrimoniale, è il rispettivo titolare. Al livello superiore c’è la diocesi, cioè un insieme di parrocchie. Ha il titolare di un ufficio nel vescovo che ha poteri di governo. Anche questo ente esponenziale, con i propri beni, organizzazione di uffici. Il vescovo ha dei poteri verso le parrocchie e gli altri enti verso le parrocchie della diocesi. C’è una struttura propria della confessione religiosa che rientra nella sfera dell’autonomia e indipendenza ma che, per alcuni aspetti, attraversa i confini dello stato e richiede una disciplina che sia rispettosa dell’organizzazione ecclesiastica e che consenta a questi enti di operare nella sfera temporale, svolgendo le attività proprie e le attività strumentali rispetto al proprio fine. Questa materia è disciplinata in maniera organica dalla legge 222/1985. Questa legge traduce in norme interne, ripetendole letteralmente, le norme elaborate dalla commissione paritetica con le poche modifiche introdotte dalle parti in sede di protocollo di approvazione delle norme elaborate dalla commissione paritetica. E’ una legge di esecuzione dell’accordo. Le norme interne traghettano le norme pattizie (protocollo di approvazione e norme della paritetica) e danno ad esse esecuzione. Costituisce una disciplina speciale che tuttavia tende a ricondurre la disciplina degli enti ecclesiastici nell’alveo proprio del diritto comune. Un esempio di questa riconduzione è l’obbligo che è fatto agli enti ecclesiastici di iscriversi nel registro delle persone giuridiche. Il registro delle persone giuridiche era un tempo istituito alle cancellerie dei tribunali ed è attualmente demandato come compito alle prefetture. E’ uno strumento di pubblicità per gli enti civili sostanzialmente costitutivo. Questa pubblicità consente a chiunque di avere conoscenza dell’esistenza di una persona giuridica, del suo statuto, di chi la rappresenta, dei poteri che ha il rappresentante. Permette di avere conoscenza e chiarezza per quelli che possono essere i rapporti giuridici con gli altri soggetti. Dopo la legge 222 il sistema di riconoscimento delle persone giuridiche civili è stato semplificato. In precedenza era richiesto sempre un parere del consiglio di stato e un provvedimento presidenziale, sull’idea che l’attribuzione della personalità giuridica a una figura organizzativa fosse una concessione e privilegio da parte dello stato. Il provvedimento amministrativo di concessione della personalità giuridica seguiva ad un vaglio di meritevolezza e di adeguatezza dei mezzi per il perseguimento delle finalità proprie dell’ente. L’altro sistema di attribuzione della personalità giuridica era quello della omologazione, previsto solo per le società commerciali. La personalità giuridica si acquistava sulla base di un giudizio di corrispondenza dell’ente concreto al modello astratto disciplinato dalle norme. In quel caso la registrazione determinava e determina l’acquisto a seguito dell’omologazione, un tempo rimessa alla competenza dei tribunali, ora valutata dallo stesso pubblico ufficiale che riceve l’atto di costituzione della società. Per quello che riguarda gli enti ecclesiastici, la disciplina speciale mantiene il vecchio regime: è richiesto per il riconoscimento di questi enti un decreto del ministro dell’interno udito il parere del consiglio di stato. Si parla di riconoscimento come persone giuridiche agli effetti civili, cioè di enti che nascono nell’ordinamento canonico e che assumono la denominazione di enti ecclesiastici civilmente riconosciuti. Questo significa che possono continuare a esistere enti che la chiesa costituisce nel suo ordinamento e che non acquistano la personalità giuridica civile. Il collegamento tra stato e chiesa è prefigurato ma non si esclude che vi sia un campo nel quale si mantiene una distinzione di enti e che quindi operano separatamente nei due ordinamenti. Gli enti in questione nascono o sono riferiti all’ordinamento canonico perché l’art. 1 della legge 222 espressamente indica gi enti costituiti o approvati all’autorità ecclesiastica. C’è sempre un consenso alla base della possibilità del riconoscimento come enti ecclesiastici. L’iniziativa di costituire un ente civilmente riconosciuto può partire da su richiesta dell’autorità ecclesiastica o di altri soggetti (come le associazioni religiose). Alla base del riconoscimento c’è sempre un atto di governo ecclesiastico. I due punti sui quali fissa l’attenzione l’art. 1 sono: 1) “abbiano sede in Italia”. Questo può sembrare naturale, ma in presenza di un ordinamento universale come quello della chiesa, questa affermazione risolve il problema della nazionalità degli enti ecclesiastici, cioè se potesse avere personalità giuridica in Italia un ente ecclesiastico “straniero”. Il problema si risolve con le norme del diritto internazionale privato: se quell’ente, nell’ordinamento territoriale sul quale insiste, vede riconosciuta la propria personalità giuridica, è persona giuridica anche di fronte all’ordinamento italiano. 2) “gli enti devono avere fine di religione o di culto”. Troviamo tre elementi base:
- costituzione o approvazione dell’autorità ecclesiastica
- fine di religione o di culto
- sede in Italia
Questi tre sono gli elementi-presupposto per il riconoscimento quali enti ecclesiastici civilmente riconosciuti. Per quanto riguarda il fine di religione o di culto ci può essere una diversità di lettura tra lo stato e la chiesa. La legge 222 individua alcuni enti che hanno tipicamente il fine di religione o di culto; non possono non averlo. L’art. 2 indica: “Sono considerati aventi fine di religione o di culto gli enti che fanno parte della costituzione gerarchica della chiesa, gli istituti religiosi e i seminari”. L’esempio delle parrocchie e delle diocesi si riferisce ad enti che fanno parte della struttura gerarchica della chiesa. Gli istituti religiosi sono gli istituti di vita comune, le congregazioni e gli ordini religiosi, la cui caratterizzazione è ineliminabile. I seminari sono gli istituti di formazione per il clero. Per questi enti il fine di religione o di culto si presume juris de jure. “Per le altre persone giuridiche (fondazioni, enti ecclesiastici senza personalità giuridica nell’ordinamento della chiesa) il fine di religione o di culto è accertato di volta in volta in conformità alle disposizioni dell’art. 16”, che individua in maniera sostanziale il fine di religione o di culto. Dal punto di vista formale è oggetto di accertamento: nel primo gruppo di enti non c’è un accertamento. Per gli altri enti occorre accertare che sussista il fine di religione o di culto. Se un ente ha fine di religione o di culto il riconoscimento è dovuto. Dal punto di vista sostanziale si rinvia all’art. 16. L’art. 16 dice che: “Agli effetti della legge civile si considerano comunque a) attività di religione di culto quelle dirette all’esercizio del culto e alla cura delle anime, alla formazione del clero e dei religiosi, a scopi missionari, alla catechesi, all’educazione cristiana; b) attività diverse da quelle di religione o di culto quelle di assistenza e beneficienza, istruzione, educazione e cultura, e in ogni caso le attività commerciali o a scopo di lucro”. Questa norma non ci definisce che cosa è il fine di religione o di culto. Non circoscrive l’ambito, ma indica due poli nei quali in un caso sicuramente c’è il fine di religione o di culto, e nell’altro caso sicuramente si versa in un fine che non è di religione o di culto. Non si tratta di due definizioni positive esaustive. Non lo sono proprio per quel riferimento al “comunque”. All’interno dei due poli c’è poi una possibile zona grigia. Non è stata data nessuna definizione di religione o di culto. L’art. 16 indica solo i poli che danno certezza dell’essere o del non essere fine di religione o di culto. Questo margine di indeterminatezza nasce da una diversa visione che lo stato e la chiesa hanno in rapporto al fine di religione o di culto. Questa differenza risiede anche nelle espressioni formali di questa definizione. Ad esempio l’interpretazione data alle parole “l’educazione cristiana” e “educazione e cultura”: il liceo Massimo rientra nelle finalità di religione o di culto? Per la chiesa questo ente ha il fine dell’educazione cristiana; per lo stato ha come fine l’educazione e cultura. Il problema si supera perché gli enti ecclesiastici possono svolgere non solo attività di religione o di culto.
Torniamo all’art. 16 che costituisce uno dei punti di riferimento fondamentale del sistema, definendo le attività di religione o di culto e le altre attività. Va posto in collegamento con l’art. 15 che stabilisce che: “Gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti possono svolgere attività diverse da quelle di religione o di culto alle condizioni previste dall’art. 7 numero 3.2 dell’accordo 18 febbraio 1984”. L’accordo prevede che agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fine di religione o di culto, come pure le attività dirette a tali scopi, sono equiparati a quelli aventi fine di beneficienza e di istruzione. Le attività diverse da quelle di religione o di culto svolte dagli enti ecclesiastici sono soggette, nel rispetto della struttura e delle finalità di tali enti, alle leggi dello stato concernenti tali attività e al regime per essi previsto. Ciò significa che gli enti ecclesiastici possono svolgere anche altre attività diverse da quelle di religione o di culto. Questo perché questi enti, sulla base dell’art. 20, non possono subire una speciale limitazione legislativa. Però le altre attività sono soggette alle disciplina prevista per quell’attività. Ci si sposta dal profilo soggettivo del “chi lo fa” al profilo oggettivo del “che cosa si fa”. Ecco perché la legge 222 tende a specificare quando si ha una attività di religione o di culto e quando non la si ha. Questo finisce per essere preso in considerazione per la qualificazione dei soggetti. Quando i soggetti, per essere riconosciute come enti ecclesiastici civilmente riconosciuto, abbiano fine di religione o di culto, l’individuazione di questo fine è fatta in conformità all’individuazione delle attività che sono qualificate tali. Ecco perché l’art. 16 è rilevante non solo per la qualificazione materiale dell’attività, ma per la qualificazione degli enti che perseguono un fine di religione o di culto attraverso quelle attività. L’art. 2 dice che “L’accertamento del fine di religione e di culto è diretto a verificare che questo fine sia costitutivo e essenziale dell’ente anche se connesso a finalità di carattere caritativo previste dal diritto canonico”. Anche qui c’è una diversità di uso terminologico, perché la finalità caritativa prevista dal diritto canonico copre in parte l’area dell’assistenza e beneficienza. Ci si trova di fronte alla difficile necessità di individuare un lessico comune al diritto canonico e al diritto statale che porta a delle parziali sovrapposizioni. Il fine di religione o di culto deve essere costitutivo e essenziale dell’ente. Cioè la ragione per la quale l’ente è eretto o approvato è essenziale perché indefettibile: se viene meno, viene meno l’ente con quella qualificazione. Deve essere revocata la qualificazione di ente ecclesiastico civilmente riconosciuto, ma non esaurisce le attività che l’ente può svolgere. Rimane quindi una disciplina speciale che rifluisce però nell’alveo della disciplina comune della registrazione. L’art. 5 stabilisce che gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti devono iscriversi nel registro delle persone giuridiche. C’è un provvedimento (il decreto ministeriale di riconoscimento e attribuzione della personalità giuridica civile) ma c’è un obbligo di iscrizione nel registro delle persone giuridiche con le indicazioni previste dagli artt. 33 e 34 del c.c., cioè delle persone giuridiche private: l’indicazione dell’atto costitutivo, del decreto di riconoscimento, della denominazione, dello scopo, del patrimonio, della sede, degli amministratori e della rappresentanza. I terzi devono essere in grado di conoscere l’esistenza della persona, le finalità che delimitano l’attività che svolge, gli elementi patrimoniali e i poteri di chi gestisce l’ente. La registrazione prevede anche la registrazione delle modifiche statutarie, dei trasferimenti di sede, della sostituzione degli amministratori, cioè tutto quello che comporta una chiarezza nell’ambito amministrativo di fronte allo stato. Questo perché in precedenza spesso si avevano anche difficoltà di individuazione della rappresentanza dell’ente. Poteva accadere (ed è accaduto) che stipulasse un contratto per una casa religiosa una persona che appariva rappresentare l’ente che non era invece tale secondo le regole proprie dell’ente, determinando una non riferibilità del negozio a quell’ente. Ciò poteva essere rilevante anche per gli effetti che determinava. Poteva anche accadere che non erano conosciute le regole di funzionamento dell’ente, e perciò se per determinati atti fosse necessaria la delibera di un organo collegiale secondo lo statuto dell’ente. Perciò la finalità è quella di conoscibilità dell’ente, delle sue regole, dei poteri di chi lo rappresenta. Questa finalità è di interesse civilistico. Posti questi principi la legge stabilisce alcune norme di dettaglio per singole tipologie di enti. Così gli istituti religiosi possono essere riconosciuti se hanno la sede principale in Italia; possono essere riconosciute le province italiane di questi istituti religiosi; possono essere riconosciute le singole case degli istituti religiosi, che però devono essere rappresentate da cittadini italiani (tranne le case generalizie). Questo (“Sede e rappresentanza”) completa l’elemento della c.d. nazionalità dell’ente ecclesiastico. Si risolve un problema che esisteva in precedenza perché gli istituti religiosi possono essere di diritto diocesano o di diritto pontificio, a seconda che siano riconosciuti da un vescovo o abbiano il riconoscimento della Santa Sede. Spesso le espressioni associative-religiose nascenti originano da un elemento locale e, non potendo essere, secondo la disciplina del 1929, riconosciuti gli istituti religiosi di diritto diocesano, ricorrevano spesso a costituire associazioni civili parallele all’istituto religioso. Questo problema è risolto dalla legge 222, consentendo il riconoscimento anche degli istituti religiosi di diritto diocesano previo assenso (non approvazione) della Santa Sede, sempre che sussistano garanzie di stabilità. Deve trattarsi di un ente la cui vita non è precaria. Tra gli enti riconosciuti o riconoscibili era l’ente chiesa, destinato alla proprietà e ufficiatura dell’edificio di culto. La nuova disciplina dice che possono essere riconosciute le chiese, se non sono annesse ad un altro ente ecclesiastico. La parrocchia ha una chiesa. Non è riconoscibile la chiesa annessa all’ente parrocchia. Così la chiesa di una istituzione religiosa non è riconoscibile separatamente. Può essere riconosciuta autonomamente se non è connessa a un altro ente ecclesiastico ed è aperta al culto pubblico e ha i mezzi sufficienti per la manutenzione e ufficiatura. L’edificio di culto è uno strumento per una funzione pubblica e può essere riconosciuto come autonoma persona giuridica se ha dei beni patrimoniali che sono diretti alla ufficiatura, cioè allo svolgimento di una attività di culto in quell’edificio. Così le fondazioni di culto, che spesso accedono ad altri enti, possono essere riconosciute quando abbiano mezzi sufficienti per il raggiungimento del fine e rispondano a esigenze religiose della popolazione. L’elemento della sufficienza dei mezzi per il perseguimento dello scopo è un elemento coessenziale alla persona giuridica. La persona giuridica ha una massa patrimoniale disponibile per uno scopo. Se lo scopo non è meritevole il patrimonio non è sufficiente e viene meno la stessa vitalità della fondazione. Un’altra nota specifica si può agganciare a quella derivante dalla registrazione. L’art. 18 della legge stabilisce che “ai fini dell’invalidità e inefficacia di negozi giuridici posti in essere da enti ecclesiastici, non possono essere opposti a terzi che non ne fossero a conoscenza le limitazioni dei poteri di rappresentanza o la omissione dei controlli canonici che non risultino dal codice di diritto canonico o dal registro delle persone giuridiche”. C’è una tutela della buona fede dei terzi che contraggono con gli enti ecclesiastici. Si presumono note le limitazioni se rispondono a limitazioni poste dal codice di diritto canonico o trovino espressione in limitazioni del potere di rappresentanza o indicazione di controlli che devono essere operati iscritti nel registro delle persone giuridiche. Questo significa che per alcuni atti di straordinaria amministrazione che eccedono per valore determinati livelli, ad esempio occorre l’autorizzazione del vescovo o della Santa Sede. Ove questo non risulti direttamente dal codice di diritto canonico o non sia iscritto nel registro delle persone giuridiche, il terzo che contrae con l’ente è garantito: il contratto non può essere dichiarato invalido o inefficace. Se in una casa religiosa è previsto che per atti di straordinaria amministrazione vi sia la delibera di un organo collegiale, se questo non risulta dallo statuto o dalle limitazioni di poteri iscritte nel registro delle persone giuridiche, non opera nei confronti dei terzi che non ne fossero a conoscenza. L’ente dovrà provare che il terzo conosceva l’esistenza di questo limite nella rappresentanza o nella formazione di volontà. Il registro delle persone giuridiche, come contiene l’indicazione della nascita dell’ente, contiene l’indicazione delle modifiche statutarie che si dovessero attuare e anche della morte dell’ente. L’estinzione è egualmente soggetta alla registrazione. L’estinzione o la revoca del riconoscimento di ente civilmente riconosciuto opera con decreto ministeriale. La revoca avviene se l’ente perde le caratteristiche che ne hanno consentito il riconoscimento. Non c’è un controllo governativo sull’attività né un potere governativo sulla vita dell’ente, ma se l’ente non svolge le attività per le quali è stato riconosciuto, se modifica i propri fini, il riconoscimento può essere revocato. La legge 222 detta una disciplina generale e di massima degli enti eccelsi astici civilmente riconosciuti. L’art. 10 della legge riguarda le associazioni costituite e approvate dall’autorità ecclesiastica che non sono riconoscibili come associazioni pubbliche di fedeli, o società di vita apostolica, che sfuggono alla classificazione ordinaria. Queste associazioni possono essere riconosciute alle condizioni previste dal codice civile. Una associazione di fedeli che abbia un numero sufficiente di associati, un proprio statuto, i mezzi per perseguire le proprie finalità, può comunque essere riconosciuta rimanendo regolata dalle leggi civili (cioè come associazione civile) “salve le competenze dell’autorità ecclesiastica circa la loro attività di religione o di culto e i poteri della medesima in ordine agli organi statutari”. Questo significa che viene salvaguardata la potestà di governo della chiesa in ordine ad associazioni che non sono qualificabili come enti ecclesiastici civilmente riconosciuti ma che hanno un inserimento nell’ambito ecclesiastico (ad es. una associazione sportivo-religiosa). In questa associazione i poteri e l’autorità ecclesiastica possono essere quelli di nomina di un assistente spirituale o anche poteri in ordine agli organi statutari di scioglimento o di gradimento. Questo tipo di associazione non ha avuto particolare sviluppo nella prassi ma è un ulteriore elemento che caratterizza un collegamento tra ordinamento canonico e ordinamento civile e una tendenziale riconduzione degli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, pur nella loro specialità, a criteri fondamentali propri delle persone giuridiche privati. C’è una riconduzione tendenziale al diritto comune.
Il secondo grande corpo della disciplina è il sistema dei beni ecclesiastici e del sostentamento del clero. Su questo punto, si parla nella prossima lezione, con il superamento del sistema dei benefici e il passaggio da un meccanismo patrimoniale a un meccanismo finanziario.

Ecclesiastico Mag 5
Ancora qualche considerazione sulla legge 222 che individua gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti. Gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti costituiscono una categoria nell’insieme degli enti. Questa qualificazione di enti ecclesiastici civilmente riconosciuti è attribuita a enti che nascono o sono collegati con l’ordinamento della chiesa. Questo non esclude che ci possano essere enti canonici che non richiedono il riconoscimento civile o che non sono civilmente riconosciuti. Si tratta di attribuire la personalità giuridica nell’ordinamento dello stato a queste entità ecclesiastiche. Perciò, anche se vi è una naturale sovrapposizione tra i due ordinamenti e una ampia possibilità di riconoscimento degli enti canonici, non sempre questo avviene. Non avviene o perché gli enti sorti nella chiesa non hanno le caratteristiche per essere riconosciuti come enti ecclesiastici civilmente riconosciuti o perché anche la stessa autorità ecclesiastica non chiede o non autorizza il riconoscimento, e fa vivere questi enti secondo le regole canoniche o dando ad essi una conformazione civile. Possiamo esemplificare: quando dà conformazione civile a situazioni che sono canonisticamente governate? Per esempio una diocesi può organizzare l’imputazione della proprietà di beni che possiede costituendo una società o una fondazione civile. Nel caso della fondazione, ad esempio, strutturandone l’organo di governo come di derivazione nella nomina da parte dell’autorità ecclesiastica. Avremmo in questo caso un ente strumentale, rispetto all’ente diocesi, che è disciplinato interamente dalle regole civilistiche. Può anche costituire una società il cui possesso è dell’ente ecclesiastico. Anche in questo caso abbiamo un modulo organizzativo che consente di svolgere attività anche commerciali per una finalità tuttavia religiosa. Possiamo esemplificare annoverando le congregazioni religiose che hanno una attività editoriale. Le Edizioni Paoline sono di una congregazione religiosa ma sono organizzate in forma societaria; hanno un periodico tra i più diffusi (Famiglia Cristiana) che ha una finalità mediatamente culturale religiosa ma che strutturalmente è una società editrice commerciale, la cui proprietà è di un ente ecclesiastico. Queste attività possono essere svolte anche dall’ente ecclesiastico, come attività non ecclesiastiche dell’ente ecclesiastico. Sia l’art. 7 dell’accordo che il protocollo addizionale prevedono e consentono che gli enti ecclesiastici svolgano attività che lo stato considera non ecclesiastiche, ma queste attività sono soggette alla legge comune, che disciplina le medesime attività, anche dal punto di vista delle autorizzazioni. Bisogna distinguere i profili soggettivi, cioè la natura dell’ente, dai profili oggettivi, cioè la natura delle attività. Il fine di religione e di culto deve essere coessenziale all’ente ed è qualificato secondo la previsione normativa o perché l’ente strutturalmente non può che avere fine di religione o di culto (parrocchia, diocesi) o perché il fine di religione o di culto fa parte degli scopi che caratterizzano l’ente. Questo riguarda i profili soggettivi. I profili oggettivi riguardano le attività, anche altre che l’ente ecclesiastico può svolgere. Un esempio può chiarire questa differenza. In una abbazia benedettina da una parte c’è l’elemento dell’ecclesiasticità, dall’altro può esserci un’attività strumentale commerciale. Questa attività commerciale non è interdetta all’ente ecclesiastica perché è una attività altra, aggiuntiva all’attività di culto. Ma se ci fosse solo l’attività commerciale, non ci troveremmo di fronte a un ente ecclesiastico. L’attività commerciale di un ente ecclesiastico è soggetta alle leggi e al trattamento fiscale previsto per quella attività. Il privilegio, se c’è, riguarda tutto ciò che è il culto, funzione pubblica non lucrativa, non ciò che è destinato a produrre reddito.
Sistema di sostentamento del clero. Altro grande corpo della legge 222. In esso affiora immediatamente la caratteristica propria delle norme elaborate dalla commissione paritetica approvate dalla due parti con il protocollo apposito sugli enti e i beni e che poi dà luogo alla legge 222 in sede di esecuzione. Si è in presenza di norme che hanno una doppia valenza, canonica e civile, immediatamente evidente, perché si erigono, con questa legge, un Istituto Centrale per il Sostentamento del Clero, e si prevede la creazione di Istituti Diocesani per il Sostentamento del Clero. Queste norme della stessa legge hanno valenza canonico-civile. Le stesse norme sono state pubblicate sua sulla Gazzetta Ufficiale che sugli Acta Apostolicae Sedis. Abbiamo delle norme che per loro natura sono a doppia faccia. Danno proprio l’idea di quella che è una materia mista. Il meccanismo di sostentamento del clero supera il vecchio sistema dei benefici ecclesiastici. Il beneficio ecclesiastico è una massa patrimoniale annessa ad un ufficio. Il titolare dell’ufficio gode dei redditi della massa patrimoniale quasi come usufruttuario e dai redditi del beneficio trae la remunerazione per l’attività che svolge. Il sistema beneficiale è un sistema pulviscolare, dove teoricamente in ogni ufficio è annesso un beneficio. Il titolare della funzione non riceve uno stipendio ma amministra dei beni e gode dei frutti di quei beni. A questo sistema si era aggiunto un sistema statale di integrazione dei redditi insufficienti di alcuni o tutti i benefici (in ogni caso, moltissimi) con un supplemento a carico del Fondo del il Culto, che nasceva dalla conversione in titoli del reddito pubblico di quanto derivava dalla vendita dei beni ecclesiastici appresi dallo stato. Alla non sufficienza dei fondi derivanti dalle rendite dei titoli del debito pubblico aveva poi supplito il bilancio dello stato. Sostanzialmente, lo stato finanziava la remunerazione dei titolari di questi benefici. Il nuovo sistema abbandona questo meccanismo. Vengono soppressi i benefici ecclesiastici. Questo tocca direttamente la struttura organizzativa e patrimoniale della chiesa. Vengono meno le funzioni del Fondo per il Culto. Vengono meno gli impegni finanziari diretti a carico del bilancio dello stato. Si attua anche dal punto di vista canonico una perequazione nelle remunerazioni di tutti i sacerdoti che prestano servizio a favore delle diocesi. Non c’è più chi è titolare di un beneficio ricco e chi è titolare di un beneficio povero. C’è una linea di uniformazione nella chiesa. I beni dei benefici ecclesiastici rimangono legati al territorio ma non più al singolo ufficio. L’unità elementare della chiesa è il vescovo, presbiteri e fedeli. La chiesa particolare vive sotto la guida del vescovo, anche amministratore di quell’ambito. I beni dei benefici ecclesiastici confluiscono tutti nell’Istituto Diocesano per il Sostentamento del Clero (IDSC). L’IDSC mantiene la proprietà, amministra e utilizza i beni che avevano questa finalità, e restituisce ai singoli enti quei beni che, pur essendo del beneficio, non erano destinati al sostentamento del titolare del beneficio. Esistevano i cc.dd. benefici indistinti, nei quali la massa patrimoniale serviva a molteplici scopi. Rimangono all’IDSC quei beni che servivano al sostentamento del parroco. Vengono restituiti all’ente quelli che erano inerenti ad altra sua funzione. La finalità è anche quella di sgravare dall’attività amministrativa il titolare del beneficio, ma inoltre di accorpare questi beni, spesso minimi (perché derivanti da donazioni o lasciti) in modo da consentire una migliore utilizzazione economica di questi beni. L’IDSC deve provvedere a erogare le risorse per il sostentamento del clero ma è a sua volta rifornito dall’ICSC, che è costituito a livello nazionale dalla CEI. I singoli istituti non sono una articolazione dell’istituto centrale. Ognuno ha una sua autonomia. La finalità di questo sistema è, come indica l’art. 24 della legge 222, “assicurare nella misura periodicamente determinata dalla CEI il congruo e dignitoso sostentamento del clero che svolge servizio in favore delle diocesi”. Tutti i sacerdoti che sono incardinati in una diocesi o svolgono servizio in favore della diocesi hanno un diritto a un congruo e dignitoso sostentamento. La legge precisa che, ai sensi del can. 1274, per “servizio svolto in favore delle diocesi” si intende “l’esercizio del ministero come definito nelle disposizioni emanate dalla CEI”. Non sta allo stato stabilire chi e come presta servizio a favore delle diocesi. La disciplina canonica, sotto questo aspetto, è un presupposto della disciplina statale. Questo diritto dei sacerdoti è azionabile, cioè rispetto al quale i singoli sacerdoti possono ricorrere a una commissione di composizione di un ricorso nell’ambito ecclesiastico, o possono ricorrere anche al giudice dello stato. Abbiamo un caso di giurisdizione concorrente. Per assicurare l’effettività di questo diritto c’è una azione che può essere svolta nell’ambito dell’ordinamento della chiesa e una azione che può essere svolta nell’ambito dell’ordinamento dello stato. Come si risolve il rapporto tra queste due giurisdizioni? Si risolve secondo il principio di prevenzione. La competenza si incardina dinnanzi al giudice preventivamente adito. Se c’è ricorso alla commissione canonistica non potrà essere successivamente proposto ricorso presso il giudice dello stato. Non c’è una incompetenza assoluta del giudice dello stato, ma una competenza non esercitabile se c’è stato un giudizio nell’ambito dell’ordinamento canonico. Il livello di remunerazione, il quantum, è stabilito dalla CEI, con dei parametri che possono essere variabili, anche tenendo conto di quanto ciascun sacerdote riceve dall’ente presso il quale presta servizio.
Da dove vengono queste risorse o la gran parte di esse? Vengono ancora dal bilancio dello stato, ma attraverso una determinazione diretta dei contribuenti. Con il sistema dell’otto per mille. Annualmente i contribuenti possono indicare la destinazione che intendono dare alla quota dell’8 per mille dell’ammontare complessivo dell’imposta personale sul reddito delle persone fisiche (IRPEF). Non si stabilisce la destinazione della propria imposta, ma la destinazione del gettito complessivo dell’imposta. E’ un sistema che è in parte diverso sia dalla imposta ecclesiastica che esiste in alcune paesi, sia dalle donazioni spontanee sulle quali torneremo. Il presupposto dell’imposta ecclesiastica, propria della tradizione tedesca, di alcuni cantoni svizzeri e di alcuni paesi scandinavi, era l’esistenza di una chiesa di stato. Le chiese erano considerate corporazioni di diritto pubblico, alle quali veniva riconosciuto un potere di imposizione tributaria sugli appartenenti alla chiesa e confessione religiosa, esercitato quasi in una forma di addizionale rispetto alle imposte personali. Il presupposto di quella imposta è l’appartenenza a quella chiesa, e la sottoposizione all’imposta cessa con l’uscita dalla chiesa, tanto che si è posto il problema se questa uscita dalla chiesa a fini fiscali costituisca una apostasia. In realtà si tratta di un atto civile. L’impostazione dell’otto per mille è diversa. Non presuppone un’appartenenza alla confessione religiosa. Non è una dichiarazione di appartenenza religiosa, ma è la destinazione di una quota di un fondo per finalità prefissate dalla legge. Si colloca non sul versante della imposizione ma su quello della destinazione di spesa, cioè delle uscite. Non è lo stato che si fa esattore per una confessione religiosa (come era prima dell’intesa con gli israeliti). C’è invece una destinazione di spesa che si esprime con una forma di democrazia diretta. Sono i cittadini contribuenti che stabiliscono dove devono andare questi fondi. La legge fissa il montante totale (l’otto per mille). Poi abbiamo un fondo statale, la destinazione alla chiesa cattolica o ad altre confessioni che entrano o sono entrate in questo sistema. Questo meccanismo è replicato in maniera diversa per il cinque per mille del quale è consentita la destinazione a una miriade di enti e fondazioni. Diventa sostanzialmente uno strumento di partecipazione.
L’altro elemento che concorre (o avrebbe dovuto incisivamente concorrere) ad attribuire risorse all’ICSC è quello che indica l’art. 40 della legge 222: “Le entrare dell’ICSC sono costituite principalmente dalle oblazioni versate a norma dell’art. 46”. Secondo l’art. 46 ciascun contribuente può dedurre dal proprio reddito l’erogazione liberale a favore dell’ICSC nei limiti di 2 milioni di lire annue. Su questa somma che non costituisce reddito non si paga l’IRPEF. E’ una erogazione spontanea incentivata da una riduzione di carico fiscale. Chi erogava un milione di lire e aveva una aliquota del 40% veniva inciso per il 60%, cioè per la parte scoperta, che non avrebbe dovuto corrispondere. Questa quota, per la verità, è sempre stata minoritaria e marginale nelle risorse dell’ICSC. L’ICSC implica risorse per circa 630 milioni di euro. Quanto proviene dalle erogazioni liberali è circa 30 milioni di euro. La gran parte deriva dalle risorse derivante dovute con l’otto per mille.
Esistono due fondi: un fondo statale e un fondo ecclesiastico. Le finalità dell’otto per mille sono predeterminate dalla legge. L’ammontare delle risorse è stabilito dai contribuenti, ma la destinazione è predeterminata. La determinazione è data dall’art. 48 della legge: “Le quote sono utilizzate dallo stato per interventi straordinari per fame nel mondo, calamità naturali, assistenza ai rifugiati, conservazione dei beni culturali”. Dalla chiesa, le quote sono utilizzate per esigenze di culto della popolazione, per il sostentamento del clero, interventi caritativi a favore della collettività nazionale o di paesi del terzo mondo. Ci sono due insiemi di finalità non omogenei ma connotati da una caratteristica comune che è umanitaria, culturale, religiosa. Si pone quasi una alternativa tra fondo a gestione statale e fondo a gestione ecclesiastica. Non conoscendo il gettito derivato e intendendo mantenere la linea del sostentamento del clero, si era previsto, all’art. 49, che una commissione paritetica, ogni tre anni, valutasse i risultati, eventualmente proponendo modifiche alla quota dell’otto per mille, che nel tempo ha dato gettiti superiori alle attese, anche in ragione della specificità del meccanismo adottato. Prefigurando il fondo statale e quello ecclesiastico come equivalenti e non considerando la scelta come una dichiarazione di appartenenza alla confessione religiosa, ne è seguito che non esiste una fondo naturalmente destinatario, ma la destinazione avviene in proporzione alle scelte effettuate, neutralizzando le astensioni dalla dichiarazione. L’astensione dalla dichiarazione garantisce un diritto a non pronunciarsi, alla riservatezza, ma non è tale da influenzare il sistema. Non c’è un fondo statale al quale si sottraggono quote destinate alla chiesa in rapporto alle scelte espresse, ma è un fondo che si ripartisce sulla base delle scelte espresse, non considerando le astensioni. Anche se il paragone non è esatto, è quello che avviene in chiave elettorale. Si coprono i seggi di un organo in rapporto ai voti espressi. L’astensione non riduce la platea dell’organo. Da ciò deriva la trasformazione del sistema da un sistema patrimoniale a un sistema finanziario, che pone qualche problema in rapporto all’ampiezza delle destinazioni. Si tratta di fondi statali, che non possono essere destinati a scopi diversi da quelli che la legge prevede. E’ previsto che la CEI annualmente dia una indicazione, una sorta di rendiconto, su come i beni siano stati utilizzati. Non si esprime un controllo statale sulla puntuale destinazione delle somme, ma sulle grandi categorie, cioè per le diverse finalità previste dalla legge. Il meccanismo è stato aperto alle altre confessioni religiose che sulla base delle proprie intese hanno aderito a questo sistema. Alcune hanno accettato solo le scelte espresse, altre hanno aderito completamente a tutto il sistema. Lo stesso meccanismo è stato imitato con alcune varianti in concordati successivi (Spagna, Ungheria) e ha avuto forza espansiva. Questo meccanismo che concentra le risorse a livello di CEI ha anche rafforzato il ruolo di questo organismo. La CEI è riconosciuta anche essa con personalità giuridica ed è essa stessa ente ecclesiastico civilmente riconosciuto.
Rimane un terzo capitolo della legge 222 costituito dal destino del Fondo per il Culto e del Fondo Città di Roma, annesso ad esso. L’amministrazione separata era gestita dal Ministero dell’Interno che erogava, attraverso le prefetture, i supplementi di congrua. Non ha più questa funzione. Anziché eliminare questo apparato si è pensato di conservarne diversa funzione. Si è deciso di imputare a un Fondo Edifici di Culto tutti gli edifici di culto che erano di proprietà del precedente fondo e gli elementi patrimoniali del precedente fondo. Si tratta di edifici storico-artistici, che derivavano dall’apprensione da parte dello stato di beni ecclesiastici all’epoca della legislazione eversiva dell’800. La chiesa di Gesù una chiesa del Fondo edifici di culto, data in gestione ai gesuiti. Viene mantenuta la destinazione dei beni. Non può essere mutata la destinazione di una chiesa aperta al culto pubblico. Vi è una sorta di servitù pubblica per l’uso del bene. Può mutar la proprietà ma non la destinazione del bene. Il proprietario ha l’onere di mantenere alla funzione pubblica quel bene. Esistono nella legge 222 altre ipotesi marginali per alcuni edifici annessi ai palazzi ex reali, ma sono situazioni residuali.
Differenza tra deduzione e detrazione. La deduzione dal reddito è una sorta di posta negativa rispetto al reddito. Il reddito si riduce dell’ammontare della deduzione. Gli effetti sono complessivi. Nel sistema proporzionale non si modifica l’aliquota, quale che sia l’ammontare. Il sistema progressivo è per scaglioni, per cui l’aliquota può essere variare. Se si tratta di deduzione, di una posta negativa, l’aliquota che si applica è al reddito che residua. Sotto questo aspetto tanto maggiore è il vantaggio tanto maggiore è l’aliquota marginale. La detrazione invece si applica in maniera fissa sull’imposta, non sul reddito. Alle spese mediche o di studio sono detratte le aliquote fisse dalle imposte. Si considera una quota di quanto è stato corrisposto, e la somma che ne risulta è detratta dalle imposte da pagare. Sotto questo aspetto la detrazione è neutra rispetto al livello del reddito. Si detrae una quota di una spesa.
Insegnamento della religione nelle scuole pubbliche. Anche qui siamo in presenza di una evoluzione normativa che segue e accompagna la secolarizzazione e laicizzazione dell’istruzione. L’istruzione era in origine domestica o propria, curata dalla chiesa attraverso suoi istituti. Solo successivamente, nell’800, assistiamo alla nascita delle scuole pubbliche. Anzi, l’istruzione diventa uno degli elementi di formazione e influenza dei giovani e della coscienza nazionale. Il problema dell’istruzione di pone sotto due versanti: 1) quello della libertà di insegnamento e istituzione di scuole; 2) quello della presenza di un insegnamento religioso nell’ambito della scuola pubblica. L’interesse ecclesiastico copre entrambe i versanti: libertà di istituire scuole private non statali, che corrispondano al progetto educativo della chiesa; inserire o mantenere l’insegnamento della religione cattolica nell’ambito della scuola statale. Sul primo aspetto abbiamo un fondamento costituzionale immediato, dato dall’art. 33 della costituzione: la libertà di insegnamento, di istituire scuole ed istituti di eduzione “senza oneri per lo stato”. C’è un obbligo dello stato di garantire scuole statali per tutti gli ordini e gradi, che copra tutto il versante dell’istruzione, ma non c’è una esclusività di competenza statale. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole e istituti di educazione. Tra gli enti e i privati anche enti che fanno capo alla chiesa. Ci sono ordini e congregazioni religiose che hanno come specifica missione l’educazione e l’insegnamento. Libertà significa anche modulare in maniera diversa l’insegnamento dagli schemi previsti dalla legislazione statale. Significa inoltre inserirsi nell’ambito del servizio pubblico, con istituti che siano riconosciuti. Ancora una volta la costituzione dice che “la legge, nel fissare diritti ed obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni in scuole statale”. Abbiamo un sistema complesso; la scala è: norme generali sull’istruzione, scuola statale, scuola libera di enti o istituti, possibilità di riconoscimento della parità, trattamento dei soggetti. C’è un bilanciamento tra libertà e inquadramento in una funzione statale. Il dibattito assai ampio si è sviluppato sulla indicazione del “senza oneri dello stato”. C’è una ambiguità nella lettura di questa formula. Secondo una prima interpretazione ciò significa “divieto che lo stato contribuisca o eroghi risorse per queste scuole”. Secondo una lettura opposta ciò significa invece “senza che ciò implichi di necessità oneri per lo stato”. Chi istituisce non può pretendere, ma non pretendere non significa che sia vietata la erogazione di contribuzioni statali. Vedremo come questo principio costituzionale ispira l’accordo di revisione del concordato. In base a questo accordo si sviluppa la presenza dell’insegnamento di religione nella scuola pubblica.

Ecclesiastico Mag 12
Proseguiamo la lettura dei problemi che riguardano la scuola e l’accordo di revisione del concordato. Punto di partenza è ancora una volta l’impostazione costituzionale, specificamente l’art. 33. Afferma una serie di principi: anzitutto la libertà dell’arte e della scienza (in senso più ampio della cultura e della ricerca) e la libertà dell’insegnamento. Rientra questo ambito nella platea dei modi di esercitare la libertà di manifestazione del pensiero, cioè di diffondere anche con l’insegnamento la propria cultura. Il secondo principio enunciato si colloca nell’ambito dei diritti sociali, cioè delle garanzie che lo stato deve dare per concorrere a superare quelle diseguaglianze e difficoltà che ostacolano la eguaglianza dei cittadini, secondo l’indicazione dell’art. 3. Ciò viene fatto assicurando che lo stato istituisca scuole statali per tutti gli ordini e gradi. L’istruzione non è solo un fatto personale, non è rimesso all’iniziativa di singoli, ma è un fatto pubblico, anche quando si tratta di istruzione non statale. Lo stato ha inoltre competenza a dettare il quadro generale delle norme sulla istruzione. Questo ha avuto una attuazione progressiva con l’elevazione dell’obbligo scolastico e l’ampliamento delle formazione in una scuola che, come dice l’art. 34 del concordato, è aperta a tutti. L’obbligo scolastico si è esteso rispetto al limite minimo che l’art. 34 prevede (almeno 8 anni). Accanto alla scuola di stato la costituzione garantisce a enti e privati il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione. Se è libera la ricerca e l’insegnamento, strumentalmente, perché possa essere esercitata questa libertà, è necessario garantire che ci sia anche una libertà di istituzione di scuole. Si può trattare anche di scuole culturalmente orientate, scuole di tendenza. Può anche sorgere un conflitto tra la libertà di insegnamento individuale e la libertà di orientamento delle istituzioni scolastiche. A questo proposito la Corte Costituzionale, giudicando del caso del prof. Cordero dell’Università Cattolica al quale era stato revocato il nulla osta per l’insegnamento della filosofia del diritto in quella università da parte dell’autorità ecclesiastica, aveva ritenuto questo atto non sulla base di un privilegio ecclesiastico ma di una garanzia per la libertà della scuola e dell’insegnamento in istituzioni che avessero un orientamento culturale e che quindi doveva cedere la libertà del singolo. Uno dei punti più discussi e decisivi dell’art. 33 della costituzione è costituito dalla previsione che gli enti abbiano diritto di istituire scuole “senza oneri per lo stato”. Questa espressione ha avuto più letture. La più consistente dottrina ritiene che ciò vada letto come divieto dello stato di finanziare scuole private, nella logica che l’obbligo dello stato si esaurisca con l’istituzione di scuole statali di ogni ordine e grado. Una lettura minoritaria ritiene che quell’inciso implichi l’assenza di un obbligo dello stato di corrispondere finanziamenti a scuole non statali ma che questo non obbligo non si traduca in un divieto. Non c’è un automatismo tra l’istituzione di scuole e la pretesa al sostegno statale, ma il legislatore può sostenere le scuole paritarie, omologabili per livello formativo alle statali. L’evoluzione legislativa è stata varia. La linea di tendenza è quella di assicurare una parità di condizioni degli studenti, quanto al godimento del c.d. diritto allo studio. Perciò, attraverso strumenti indiretti, per garantire una parità nel diritto allo studio, si finisce per assicurare un sostegno alle scuole libere, soprattutto se qualificate, in modo da garantire un pluralismo scolastico e una concorrenza dei diversi istituti. La più forte garanzia di eguaglianza tra scuola pubblica e scuola libera è quella che la costituzione prevede, cioè il c.d. esame di stato per l’ammissione ai diversi ordini di scuola o per la conclusione di essi. L’esame di stato che ha una omogeneità di disciplina (scuole libere e scuole statali) doveva costituire, nell’intenzione del costituente, l’elemento di garanzia dell’uguaglianza. La verifica finale è omogenea, anche se diversi erano i percorsi. Se questo è il quadro generale, la soluzione concordataria è la seguente. Nel concordato del 1929 anche l’impostazione del rapporto tra stato e chiesa nell’ambito della scuola risentiva della impostazione generale di tipo confessioni stico. Veniva riconosciuta una religione di stato, che aveva un trattamento privilegiato. Nell’ambito scolastico c’era il recupero dell’insegnamento della religione cattolica come obbligatorio, considerandolo “completamento e coronamento dell’istruzione”. Quindi con una enunciazione di principio molto forte, e tale, in astratto, da consentire alla impostazione religiosa una pervasività dell’intero sistema di insegnamento. In realtà la linea operativa non è stata quella di un insegnamento della religione che permeasse di sé anche le altre discipline, ma di presenza e frequenza obbligatoria dei corsi di insegnamento della religione cattolica, caratterizzati in senso confessionale perché impartiti secondo programmi concordati con l’autorità ecclesiastica e da docenti nominati dai provveditori agli studi su indicazione dell’autorità ecclesiastica. Nelle scuole elementari l’insegnamento poteva essere attribuito ai singoli maestri, che però venissero riconosciuti idonei. Erano cioè insegnanti con un incarico annuale statale, però sulla base di una missio canonica, di un mandato del vescovo. Qual è la condizione degli studenti? La frequenza a questa disciplina concorreva a integrare l’obbligo scolastico con la possibilità di dispensa. La dispensa è un provvedimento amministrativo che sottrae dal dovere di tenere un comportamento altrimenti imposto. Si è dispensati da un obbligo. Teoricamente la dispensa si colloca in questo settore in termini di discrezionalità dell’autorità che concede la dispensa. Perciò, non si assoluto una esenzione dall’obbligo, né una opzionalità della frequenza di questi corsi, ma solo un obbligo dal quale si poteva essere dispensati. Veniamo all’accordo del 1984. E’ interessante per alcuni elementi di principio e per l’articolazione delle fonti che delinea. Primo aspetto: elementi di principio. Come abbiamo visto anche altrove per gli enti ecclesiastici, c’è un richiamo nell’atto bilaterale di principi costituzionali. Per l’art. 7 che riguarda gli enti c’era un richiamo esplicito all’art. 20 cost. Non deve meravigliare che il concordato contenga queste enunciazioni se ricordiamo che nel preambolo dell’accordo di revisione del concordato si afferma da parte dello stato che si hanno presenti i principi sanciti dalla sua costituzione. L’accordo del 1984 è di adeguamento dei rapporti bilaterali alla costituzione, e questo adeguamento è a volte segnalato dal richiamo esplicito a principi costituzionali. Al numero 1 dell’art. 9 troviamo: “La repubblica italiana, in conformità al principio della libertà della scuola e dell’insegnamento e nei termini previsti dalla propria costituzione...”. Si usa una terminologia diversa rispetto all’art. 33. Si riferisce esplicitamente alla libertà della scuola. In questo quadro “garantisce alla chiesa cattolica il diritto istituire liberamente scuole di ogni ordine e grado e istituti di educazione”. La chiesa cattolica e tutte le sue articolazioni ha diritto di istituire scuole e istituti di educazione. Si aggiunge che “a tali scuole che ottengono la parità è assicurata piena libertà ed ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni delle scuole dello stato e degli altri enti territoriali, anche per quanto concerne l’esame di stato”. L’impostazione generale è l’attualizzazione dei principi costituzionali in rapporto alle istituzioni ecclesiastiche. Non una linea di privilegio, ma di specificazione delle garanzie costituzionali. Troviamo la libertà scolastica, la libertà della scuola, la parità delle scuole libere quando rispondono a certe condizioni, riaffermazione del principio di esame di stato, eguaglianza nel trattamento degli alunni e nel diritto allo studio. Non vengono esclusi dalle provvidenze di questo settori gli alunni delle scuole istituite dalla chiesa. Stessa condizione per loro rispetto a quella prevista per le scuole di stato. Questo è il grande corpo di norme che riguarda il rapporto con la chiesa in relazione alla istituzione di scuole, non all’insegnamento della religione cattolica.
Il secondo corpo di norme riguarda invece la presenza della chiesa cattolica nella scuola di stato attraverso l’insegnamento della religione cattolica in istituzioni che non dipendono dalla chiesa, che sono neutre perché di stato. I principi che enuncia l’art. 9 al secondo punto sono: “La repubblica italiana, riconoscendo il valore della cultura religiosa e tenendo conto che i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano, continuerà ad assicurare, nel quadro delle finalità della scuola, l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche non universitarie di ogni ordine e grado”. Da questa disposizione ricaviamo un principio di continuità in rapporto al sistema precedente. Si assicura questo insegnamento in tutte le scuole pubbliche escluso il livello universitario, come per il passato. Fa una precisazione: “Nel quadro delle finalità della scuola”. Cioè, si riconosce che non è nelle finalità della scuola quella di offrire una catechesi, ma quella di offrire una formazione culturale. Ciò significa anche che questo insegnamento è collegato con le altre discipline, secondo programmi che consentano e regolino questa coerenza. La finalità è educativa e formativa. Del resto, la conoscenza della religione cattolica è elemento anche indispensabile per capire impostazioni rilevanti della storia dell’arte, della letteratura, della storia del paese. Questa considerazione ci apre a valutare qual è da parte dello stato il fondamento della apertura delle proprie istituzioni all’insegnamento della religione cattolica. Il fondamento dell’apertura è il riconoscimento del “valore della cultura religiosa” e l’analisi per cui “i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano”. Non c’è più l’impostazione confessionistica della religione cattolica come fondamento e coronamento dell’istruzione, ma considerazione della religione cattolica quale elemento che ha un proprio valore culturale e fattore che ha inciso nel patrimonio storico nazionale. Sono due valutazioni laiche, non confessionali. Queste enunciazioni riguardano l’insegnamento. Vediamo la condizione dei soggetti, anzitutto degli alunni. L’art. 9 dice che “nel rispetto della libertà di coscienza e della responsabilità educativa dei genitori, è garantito a ciascuno il diritto di scegliere se avvalersi o non avvalersi di detto insegnamento”. Anche qui c’è una forma di distacco rispetto all’impostazione precedente. Non più insegnamento obbligatorio dal quale si poteva essere dispensati, ma insegnamento giustificato nell’esser presente in continuità nella scuola, offerto alla libertà di coloro che se ne avvalgono. Pur non essendo un insegnamento confessionale, è e continua ad essere un insegnamento autentico: non è un insegnamento di storia delle religioni, né di cultura religiosa, ma di religione cattolica. Una determinata chiesa presenta se stessa, cioè il contenuto della propria espressione religiosa, non mediato da una lettura dello stato. Da qui l’esigenza di rispettare la libertà di coscienza e garantire libertà ai destinatari di questo insegnamento di avvalersi o non avvalersi. Sembrerebbe posta una alternativa. Su questo punto ci sono difficoltà interpretative. La corte costituzionale ha ritenuto che non si sia in presenza di una obbligazione alternativa, cioè che questo comporti la frequenza o dell’insegnamento della religione cattolica o di un altro insegnamento sostitutivo ed obbligatorio. Piuttosto, si ritiene che l’espressione della libertà sia tra l’avvalersi e una situazione di non obbligo. L’altro elemento che vale la pena sottolineare è il richiamo alla responsabilità educativa dei genitori. E’ un riferimento il cui valore va oltre la stessa specificità di enunciazione. Ha un ancoraggio costituzionale nell’art. 30 della costituzione: “E’ dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli anche se nati fuori dal matrimonio”. Questa disposizione anticipa l’espressione “dovere” a quella di “diritto”. In altre costituzioni si enuncia questo come dovere naturale. Giacché attraverso la scuola si sviluppa una funzione educativa, l’indirizzo educativo è nella responsabilità dei genitori; non c’è una sostitutività scolastica nella scelta degli indirizzi. Questo si cala nel fatto che la scelta è operata dai genitori fino alle scuole superiori. Vi è una libertà religiosa incomprimibile indipendentemente dall’età del soggetto, ma c’è un diritto dei genitori a educare secondo il proprio indirizzo i figli. Se facciamo riferimento ai minori, facciamo riferimento a età diverse nelle quali diversa è la maturazione. La sostitutività o l’attribuzione di indirizzo ai genitori è più pregnante negli anni dell’infanzia che negli anni dell’adolescenza. Perciò sono i destinatari dell’insegnamento che esercitano il loro diritto ad avvalersene. All’atto dell’iscrizione gli studenti o i loro genitori esercitano tale diritto su richiesta dell’autorità scolastica, senza che la loro scelta possa dar luogo a taluna forma di discriminazione. Si toccano aspetti delicati. Ecco perché accade analitica, anche se equivoca, l’articolazione della formulazione in questo settore. Non è tanto nella indicazione dei principi che può esservi dissenso, quanto nell’articolazione operativa del funzionamento del sistema. Non si tratta di un insegnamento da considerare in senso assoluto opzionale, cioè che debba essere richiesto, perché è assicurato comunque dall’autorità scolastica. L’autorità scolastica deve chiedere di esprimere una scelta. Perciò il disegno dell’accordo non prefigura una inerzia del soggetto, ma una scelta da operare in un senso e nell’altro, senza che ne possano derivare discriminazioni, che potrebbero essere di vario tipo: la perdita di una opzione formativa rispetto a soggetti che versano in uno stato di non obbligo ma che possono aver diritto ad una attività formativa diversa; possono sorgere problemi in rapporto alla collocazione di questo insegnamento nel quadro orario delle lezioni. Queste disposizioni dell’art. 9 sono poi integrate dal protocollo addizionale, firmato e ratificato insieme all’accordo. Ne costituisce piena integrazione. La separazione delle norme dell’accordo e del protocollo è solamente documentale. C’è una assoluta integrazione tra queste due fonti. L’art. 9 fa un riferimento a modalità organizzative e a soggetti che non compaiono nell’art. 9, cioè agli insegnanti. “L’insegnamento della religione cattolica nelle scuole pubbliche è impartito in conformità alla dottrina della chiesa e nel rispetto della libertà di coscienza degli alunni”. E’ un insegnamento autentico ma non catechistico. Questo insegnamento è impartito nel rispetto della libertà di coscienza degli alunni. L’insegnamento è impartito da insegnanti riconosciuti idonei dall’autorità ecclesiastica, nominati d’intesa con essa dall’autorità scolastica. Perché c’è questa idoneità attribuita alla valutazione dell’autorità ecclesiastica? Perché non è solo una idoneità tecnica, ma verifica anche la conformità della espressione dell’insegnamento alla dottrina della chiesa. Costituisce la garanzia di autenticità di questo insegnamento. Gli insegnanti di religione sono funzionari dello stato. Non si tratta di uno spazio scolastico aperto all’autonoma presenza di una confessione religiosa, né una messa a disposizione delle strutture scolastiche a una chiesa. Se si tratta di insegnanti della scuola pubblica, la nomina non può che essere effettuata dall’autorità scolastica. Lo stato giuridico di questi insegnanti è disciplinato esclusivamente da norme statali nel rispetto solamente di questo principio di riconoscimento dell’idoneità da parte ecclesiastica. Si usano espressioni generiche (autorità ecclesiastica, autorità scolastica). Non si individua chi all’interno di ciascuno di questi due ordinamenti ha la specifica competenza. Sono le norme proprie di ciascuno di essi a determinare la competenza. Per autorità ecclesiastica dobbiamo intendere il vescovo diocesano. Per autorità scolastica possiamo intendere quelli che erano i provveditorati agli studi o i capi di istituto. Rimane quella che era una vecchia previsione per le scuole materne e elementari. Questo insegnamento può essere impartito dall’insegnante di classe, riconosciuto idoneo dall’autorità ecclesiastica e che sia disposto a svolgerlo. Vi è una doppia garanzia: da una parte l’idoneità sotto il profilo della autenticità dell’insegnamento; dall’altra l’espressione di libertà dell’insegnante che non può essere obbligato a impartire l’insegnamento religioso. Questo primo punto del protocollo addizionale è una integrazione dell’art. 9 per quanto riguarda i soggetti. Se nel 9 è dominante la condizione dei destinatari, qui è dominante la condizione di coloro che devono impartire. Il secondo punto che il protocollo addizionale tratta in relazione all’art. 9 riguarda gli aspetti organizzativi, non più i soggetti. E’ interessante anche per quanto ne segue a livello di qualificazione delle fonti. “Con successiva intesa tra le competenti autorità scolastiche e la CEI verranno determinati programmi di insegnamento, modalità organizzative e collocazione del quadro d’orario delle lezioni, criteri di scelta dei libri di testo, profili della qualificazione professionale degli insegnanti”. Prima di individuare materialmente questi temi possiamo rimarcare il riferimento a intese che muovono nel quadro del concordato. Più volte questo accordo è stato qualificato come accordo quadro, che stabilisce principi e che viene poi integrato da altre fonti subordinate, da altre intese. Abbiamo uno sviluppo del principio di bilateralità, uno dei pilastri del sistema delle relazioni con la chiesa e le confessioni religiose, assieme al principio di autonomia e indipendenza. Apre il protocollo a un sistema di intese. Questa espressione la troviamo anche all’art. 8 con le altre confessioni religiose. Non si tratta del medesimo tipo di intese. Non sono queste necessariamente destinate a tradursi in una legge. Nell’8 “le relazioni tra stato e confessioni religiose sono regolate per legge sulla base di intese”. Qui l’intesa implica una linea di accordo tra stato e chiesa, ma anche nell’ambito di materie che, in ipotesi, possono trovare attuazione attraverso regolamenti, non necessariamente attraverso atti legislativi, cioè fonti primarie. L’affermare un terreno sul quale vi è intesa tra autorità specificatamente individuate dello stato e della chiesa non significa collocare i contenuti dell’accordo a livello di fonte primaria ma si può trattare di fonti di carattere secondario. Il soggetto ecclesiastico competente a stipulare questo tipo di intese è la CEI. L’accordo di revisione del concordato e il concordato muove a un livello di vertice. Il soggetto idoneo per la chiesa a stipulare concordati è la Santa Sede. Emerge la CEI come soggetto esponenziale della chiesa nazionale, con competenze attuative del concordato, che eserciterà poi eventualmente essendo autorizzata dalla Santa Sede. La competenza con lo stato è di questo soggetto, la CEI, di carattere nazionale. L’art. 13 dell’accordo prevede che “le ulteriori materie per le quali si manifesti l’esigenza di collaborazione tra chiesa e stato potranno essere regolate con nuovi accordi tra le due parti sia con intese tra le competenti autorità dello stato e la CEI”. Vengono usati nell’art. 13.2 due espressioni distinte: accordo (per quello che riguarda il rapporto con la Santa Sede) e intesa (per quello che riguarda la forma del rapporto bilaterale di collaborazione con la chiesa italiana). Gli oggetti materiali da disciplinare con le intese (poi concluse, e attuate da parte statale con Decreto del Presidente della Repubblica) sono 1 i programmi dell’insegnamento della religione cattolica per i diversi ordini e gradi delle scuole pubbliche. Se l’insegnamento deve essere impartito in conformità alle finalità della scuola occorre una coerenza tra i complessivi programmi scolastici e i corrispondenti programmi dell’insegnamento della religione nell’articolazione dei diversi gradi scuola. Vi è un parallelismo sia in rapporto al livello formativo che in rapporto alla “coerenza orizzontale” tra programmi di altre discipline e programma dell’insegnamento della religione cattolica. Se i programmi di insegnamento delle altre discipline sono oggetto di una determinazione autonoma statale con procedure specificamente previste, per i programmi di questa disciplina vi è la necessità di un accordo con la CEI. Il secondo punto che viene indicato sono 2 le modalità di organizzazione di tale insegnamento anche in relazione alla collocazione nel quadro degli orari nelle lezioni, cioè senza che la collocazione degli orari comporti discriminazione. Questo è un punto di difficile soluzione, perché secondo una linea organizzativa la collocazione più idonea di questo insegnamento sarebbe nella prima o nell’ultima ora di insegnamento, venendosi a configurare questo insegnamento non come alternativo ma come aggiuntivo. Criteri organizzativi che tengano conto anche della migliore utilizzazione degli insegnanti non portano a questo esito. E’ difficile immaginare che un insegnante possa essere impegnato per la prima e l’ultima ora, avendo il vuoto intermedio. D’altra parte, la struttura organizzativa e il rispetto delle opzioni che devono essere offerte agli studenti si è mossa nel senso di garantire ad essi o un’attività didattica alternativa all’insegnamento della religione cattolica, o la possibilità di uno studio assistito nell’ambito dell’istituzione scolastica o anche la possibilità di allontanarsi dall’istituto scolastico. Quello che è stato escluso dalla giurisprudenza costituzionale è che vi possa essere una obbligazione alternativa, perché vi è la garanzia di un non obbligo. Ma c’è anche la garanzia di un diritto, ossia il diritto a una attività formativa o un insegnamento che abbia una dignità formativa assimilabile in qualche modo a quella dell’insegnamento della religione cattolica. Questo è un nodo non ancora chiaro. L’altro elemento materiale oggetto d’intesa sono 3 i criteri per la scelta dei libri di testo, che sono connessi con la articolazione dei programmi. Il problema che viene in gioco è se i libri di testo debbano avere una autorizzazione ecclesiastica, un nihil obstat, o siano espressione di assoluta libertà. L’ultimo punto in considerazione è costituito dai 4 profili della qualificazione professionale degli insegnanti. Abbiamo un mutamento rispetto alla disciplina del vecchio concordato, nel quale vi era solamente il mandato ecclesiastico con il riconoscimento della loro idoneità da parte dell’autorità ecclesiastica. Le nuove norme fanno derivare dall’obbligo che questo insegnamento sia impartito in coerenza con le finalità della scuola l’obbligo che gli insegnanti abbiano un titolo formale assimilabile e analogo a quello degli insegnanti delle altre discipline nel medesimo ordine o grado di scuola. D’intesa si sono stabiliti i criteri di valutazione dei titoli rilasciati dagli istituti di scienze religiose o di studi teologici, accanto a titoli di studio statali, in modo da assicurare una piena dignità di questi docenti. Il sistema del loro stato giuridico è competenza esclusiva del legislatore dello stato, rispettati i vincoli concordatari. Lungamente è stato quello dell’incarico di insegnamento, conferito per anni scolastici o per ciascuno di essi. Più di recente c’è stata una parziale ruolizzazione degli insegnanti di religione in connessione anche con l’essere questo insegnamento impartito in larga misura da docenti laici, quindi svolgendo una vera e propria attività professionale più che un semplice mandato interno. Tuttavia la ruolizzazione dei docenti di religione ha posto problemi tendenzialmente risolti dal legislatore perché il rispetto dell’accordo impone di attribuire rilievo al riconoscimento di idoneità da parte dell’autorità ecclesiastica. Questo riconoscimento non è un riconoscimento di idoneità iniziale, ma può essere anche la revoca del riconoscimento dell’idoneità, con un provvedimento non sindacabile. Sotto questo aspetto si ripete la vicenda della revoca da parte dell’università cattolica del nulla osta all’insegnante di filosofia del diritto. Il nulla osta è concesso per attingere all’insegnamento ma è interpretato come non attinente esclusivamente a una valutazione professionale iniziale, ma è in raccordo con la garanzia di autenticità dell’insegnamento. Più discusso e dubbio è se la revoca possa riguardare non tanto i contenuti dell’insegnamento ma lo stile di vita dell’insegnante. L’orientamento giurisprudenziale è quello della non sindacabilità del provvedimento dell’autorità ecclesiastica. Un’ultima disposizione, che può apparire singolare, stabilisce che “la disposizione di tale articolo non pregiudica il regime vigente nelle regioni di confine nelle quali la materia è disciplinata da norme particolari”. C’è una tradizione in parte diversa in Trentino Alto Adige, soprattutto per la scuola primaria, con una ampiezza dell’orario dell’insegnamento religioso superiore al resto del paese.
Un ultimo cenno che può riguardare anche le altre confessioni religiose. Le intese finora raggiunte con esse rispecchiano molteplicità di visioni e di posizioni. La prima intesa, quella raggiunta con la chiesa valdese e metodista, conteneva una enunciazione di principio delle posizioni affermate da questa chiesa che escludeva fosse tra i compiti della scuola di stato l’assicurare un insegnamento religioso. Tuttavia, sia in questo caso che in altri casi, si è inserita la possibilità di una presenza religiosa specifica nel quadro della legislazione scolastica che consente, aldilà delle materie, agli organi scolastici, di aprire a presenze esterne a richiesta dei genitori o dei loro alunni. La differente disciplina rispecchia le diverse valutazioni che le singole chiese hanno. La presenza di queste differenti valutazioni impedisce di giungere a una uniformità di disciplina, se non negando la bilateralità. Inoltre, in tutti i casi nei quali vi è da parte delle istituzioni un obbligo di fare per consentire un esercizio del diritto di libertà, ci si scontra con il diverso dato quantitativo. Ossia, è difficile immaginare, anche per una confessione che chiedesse questo insegnamento, che possa essere organizzato un sistema che prevede in ogni classe un insegnante di una delle religioni che ne abbiano esigenza o richiesta. Il problema si porrà se si sviluppa ulteriormente una presenza multiculturale e multi religiosa, rispetto alla quale il dato quantitativo dell’insegnamento modifichi la consistenza esistente. Solo per averne memoria, in altri ordinamenti nei quali la competenza scolastica è competenza dei Lander, in alcuni casi, per esempio a Berlino, la scuola pubblica ha consentito un insegnamento della religione islamica nell’ottica che questo avrebbe garantito una maggiore neutralità di questo insegnamento, un limite al fondamentalismo. Questo dipende dalla stessa dinamica demografica e dalla impostazione pluralistica o meno che gli ordinamenti hanno.

Ecclesiastico Mag 19
Alcune confessioni ritengono che la religione non rientri delle finalità della scuola pubblica. Questo dovrebbe portare all’esclusione della religione in ambito scolastico perché l’insegnamento della religione è compito proprio delle confessioni religiose, per mezzo dell’insegnamento catechistico. La legge 449/’84 costituisce la legge di ricezione dell’intesa con la Tavola Valdese, ente esponenziale. Questa legge non è una prescrizione, ossia non vincola entrambe le parti. All’art. 9 dice che “La repubblica italiana prende atto della dichiarazione della tavola valdese” (garanzia negativa). All’art. 10 si dice che la repubblica assicura alle chiese della tavola valdese di rispondere alle richieste degli alunni, ma le spese di tale risposta sono a carico della chiesa valdese (garanzia positiva). Il consiglio di istituto e i consigli di classe possono disporre l’apertura di questo servizio (su iniziativa degli organi scolastici competenti). Comunque, non è implicata necessariamente una adesione di fede ma ha una funzione e finalità formativa.
Per quanto riguarda le confessioni senza intesa, l’esercizio di questo diritto andrebbe assicurato anche a loro, come anche nell’ambito dell’edilizia di culto, entrambi strumenti necessari per la pratica del culto. L’art. 8 cost. dichiara che “Tutte le confessioni sono ugualmente libere”, ma questo non significa che deve sussistere una parità di trattamento. L’uguaglianza è una sorta di minimo comun denominatore. Ma allora quando un differente trattamento diventa privilegiato e non è più adeguato e proporzionato alle diversità delle situazioni? L’eguaglianza non presuppone una identità di disciplina nei casi in cui le situazioni sono differenti. Di conseguenza la diversità di disciplina va giustificata, garantendo quindi una elasticità di giudizio. Nell’art. 8 cost. c’è una riserva di legge assoluta, non surrogabile da nessun’altra fonte. C’è anzi una riserva di legge rinforzata perché il contenuto della legge deve essere conforme a quanto bilateralmente stabilito.
Cosa succede se la legge viola l’intesa? L’intesa è il presupposto per l’adozione della legge e il disegno di legge che la contiene è inemendabile perché vincolato all’intesa. C’è di fatto un limite alla facoltà di intervento del parlamento, anche se teoricamente si potrebbe emendare, dando però così luogo ad un contrasto. Un primo meccanismo di prevenzione si può essere mettere in atto nella fase di promulgazione. Il presidente della repubblica può rinviare alle camere per una nuova deliberazione. Questo è un rimedio interno al procedimento, una sorta di invito alla riflessione. I rappresentanti della confessione non possono agire direttamente. Il percorso per chiedere l’incostituzionalità di quella legge è quello incidentale: richiede quindi sempre processo a giudizio pendente con il giudice a quo, con i necessari requisiti della rilevanza e della non manifesta infondatezza. Non esiste quindi un rimedio nello specifico. Tuttavia il principio della bilateralità vincola ampiamente l’attività legislativa, proprio perché si tratta di norme di relazione.
Comunità israelitiche. La particolarità e difficoltà di questa confessione consistevano nella struttura e organizzazione, disciplinate con atto normativo primario adottato su base di delega sulla base di una legge sui culti ammessi del 1929. L’autonomia statutaria per questa confessione non si era espressa ma intervenne la legge. Siamo in epoca preconcordataria e l’intesa ha manifestato l’esigenza di una struttura autonoma con l’intesa del 1987. In questo anno la confessione ebrea adotta un proprio statuto che viene depositato al ministero dell’interno. L’intesa che ha come base tale statuto e ne precede l’elaborazione sarebbe stato trasformata in legge solo successivamente al deposito dello statuto. Non è un potere che viene attribuito dallo stato ma è un momento costituente autonomo (Intesa 1987 -> statuto -> legge). Dopo il deposito di tale statuto il governo ha presentato un progetto di legge al parlamento e solo in quel momento la legge approvata ha effetto. Con l’art. 33 entra i vigore la legge e sono abrogati i due regi decreti sulle comunità israelitiche e ogni altra norma contrastante.
C’è il riconoscimento dell’autonomia istituzionale, visto che la confessione religiosa ha il diritto e il potere di elaborare lo statuto autonomo istituzionale. Lo statuto viene poi adottato. L’intesa già raggiunta inizia il procedimento di conversione in legge. Infine si sostituiscono le leggi precedenti solo successivamente allo statuto. Nel complesso c’è una diacronia, non c’è una soluzione di continuità.
Mentre per le altre confessioni religiose si limita il riconoscimento delle loro attività a quelle di religione e di culto, per quella ebraica c’è una estensione delle loro attività e ci sono anche elementi di carattere sociale come le finalità culturali e di assistenza. Si tutelano inoltre gli interessi degli ebrei in sede locale in base alla tradizione, visto che le comunità ebraiche hanno sempre avuto una forte autonomia identitaria.
Le comunità hanno tradizionalmente amministrato se stesse ottenendo una forte l’autonomia. Hanno creato una sorta di comune religioso al quale si apparteneva per iscrizione a delle liste e seguiva una potestà tributaria delle comunità ebraiche secondo il modello comunale e provinciale. I tributi erano riscossi dallo stato e devoluti alla comunità. E’ garantita anche l’attività assistenziale e sanitaria, ma non può esser fatto loro diverso trattamento da quello fatto alle strutture private che svolgono la stessa attività.

2 commenti:

Cris21 ha detto...

di quale prof. sono queste sbobinature???

Nic ha detto...

Mirabelli