venerdì 16 ottobre 2009

Diritto commerciale II (di Marina Brunazzi)

DIRITTO COMMERCIALE 2
Lezione inaugurale 31/10/2008 – Giuliana Scognamiglio
La responsabilità d’impresa
Innanzitutto perché parliamo di responsabilità? Perché l’attività d’impresa può comportare una lesione di interessi, quindi delle responsabilità. Siamo qui in ambito di diritto commerciale, e la parola commerciale, commercio, definisce quel settore di attività economia che opera accanto al settore industriale, della produzione. Il nome risale al medioevo, epoca in cui l’attività di circolazione dei beni era il centro delle attività economiche, non c’era l’industria, c’era una produzione artigianale di tessuti, gioielli, di merci che venivano scambiate, trasportate con le navi, era un’epoca di fioritura dei commerci, in particolare delle compagnie olandesi e inglesi. Era quindi più importante il commercio della produzione, il mercato si basava sugli spostamenti dei prodotti artigianali, tanto che il ceto dei commercianti era uno di quelli più rilevanti. Oggi ha invece un ruolo più “servente” per l’industria.
Il termine “impresa”, e soprattutto la nozione di impresa, acquisisce dignità e rilevanza giuridica con il codice civile del 1942, ed ha via via acquisito importanza, diventando rilevante in particolare con la riforma societaria del 2003/2004, che evidenziato l’importanza dell’impresa, in particolare delle imprese organizzate in forma di s.p.a. e di s.r.l.
I termini Impresa e Società sembravano in realtà due nozioni diverse e separate (tanto che un importante testo di studio si intitola “Imprenditori e società”), invece sono due realtà collegate, le società sono le imprese più importanti, la società è una delle forme organizzative dell’impresa. Ci sono poi anche altre forme, le cooperative, le imprese individuali, le associazioni, le imprese sociali non lucrative (normativa del 2006) che svolgono attività di ricerca, di assistenza etc.
L’impresa è la realtà di base quindi, che ha diverse forme organizzative, ha una organizzazione per gestirla, la governance, come si dice oggi, è quindi data dalla sua forma organizzativa. La normativa tocca vari aspetti gestionali, ad esempio la responsabilità, limitata o meno, l’amministrazione, fatta da soci o da terzi, gli organi di controllo, chi fa il controllo, un organo separato? La questione dei controlli è oggi una questione molto importante.
L’impresa ha un suo ruolo, il privato ha oggi un ruolo rilevante, accanto a quello dello Stato, in particolare per la prestazione di servizi. Vediamo per esempio la questione della scuola, la nuova legge incoraggia tra l’altro l’iniziativa privata per la scuola, e questo da qualcuno è visto come un pericolo. Il ricorso a capitali privati può invece essere importante in certi settori, ed è naturalmente una forma di impresa. Fondazioni, scuole, teatri, gestite da privati, servizi, anche sociali, sempre più importanti sono oggi attività organizzate in forma di impresa. La privatizzazione in realtà non è sempre negativa, certo bisogna anche assumersi le responsabilità nel momento in cui si intraprende una attività come l’istruzione, al posto dello Stato. La responsabilità delle scelte, anche individuali, va ricordato è un principio cattolico.
Per “impresa” si intende in generale un atto particolarmente ben riuscito (è riuscito nell’impresa di salire sul K2, è stata una grande impresa etc.), in ambito commerciale invece la nozione riconduce il termine non ad un singolo atto isolato ma ad una ATTIVITA’, , con le caratteristiche di:
stabilità
continuità
organizzazione
Il primo articolo del codice civile relativo all’impresa è l’art. 2082 che definisce il soggetto dell’attività:
“E’ imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”.
La congiunzione “o” è oggetto di discussione, alcuni vorrebbero che si intendesse produzione “e” scambio. C’è un ampio dibattito tra i giuristi, perché qualcuno ritiene ci si possa far rientrare nella nozione di fare impresa anche la produzione per sé stessi, per la propria famiglia, non solo quella mirata allo scambio, alla vendita. La destinazione al mercato è invece il requisito necessario per identificare l’IMPRESA.
Anche il termine “attività economica” va analizzato. L’economicità, l’aggettivo economica messo nell’articolo è un altro dei requisiti necessari per identificare l’impresa. Ma l’economicità non intesa come ricerca del profitto, ma come metodo di gestione tendenziale al pareggio di costi e ricavi. Infatti anche le imprese pubbliche rientrano nella nozione, che per definizione non conseguono il profitto, non è il lucro il loro fine ultimo, è fornire un servizio alla comunità. Certo seguono un metodo di gestione che sia però economicistico. Economicità nella gestione è intesa quindi non come raggiungimento di un utile immediato, vi rientrano infatti anche le imprese no-profit, ma una gestione oculata delle risorse, il pareggiamento tendenziale tra costi e ricavi, e se c’è un surplus tanto meglio, viene destinato a seconda del tipo di impresa, ai soci, o reinvestito. Ad esempio l’ATAC, impresa pubblica municipalizzata nel ’90 è stata privatizzata, aveva e ha i bilanci in rosso, ma tiene comunque il prezzo del biglietto basso per ragioni di utilità sociale. La sua forma organizzativa odierna, di impresa, non di ente pubblico, le consente di avere un surplus, nel caso in cui ad esempio si abbassasse tantissimo il costo del carburante, o si moltiplicassero enormemente gli utenti che prendono l’autobus.
E’ il MODELLO di impresa quindi che consente di utilizzare il principio di economicità, poi a seconda degli interessi coinvolti viene destinato l’eventuale surplus, una impresa tutta privata magari dividerà gli utili tra i soci. Insomma la gestione è mirata a seconda dei diversi interessi, ma il modello è quello di impresa. Nel settore pubblico si usa ormai la stessa forma, lo stesso modello, però perseguendo fini di utilità sociale, fornendo servizi di utilità generale (la posta, l’illuminazione, i trasporti etc.). La privatizzazione ha quindi consentito l’adozione del modello di impresa anche per le attività pubbliche, è andata via via svanendo la forma di EPE (ente pubblico economico) e si sono formate le s.p.a., che spesso si sono privatizzate anche dal punto di vista sostanziale, non solo del modello, nel senso che sono state vendute in parte a privati, molte hanno mantenuto una partecipazione pubblica vendendo però anche le azioni ai privati.
Lo Stato abbiamo visto viene poi chiamato a intervenire direttamente anche su queste imprese in caso di crisi, come abbiamo visto in questi ultimi tempi, in particolare per le banche. L’intervento dello Stato si rivaluta nella storia a seconda dei periodi, i cosiddetti “salvataggi”, o gli aiuti di Stato, tema molto attuale, che sono vietati secondo la normativa europea ma stati recentemente rivalutati, per salvare aziende in crisi (es. Alitalia) non tanto per l’azienda quanto per la quantità di persone coinvolte e per l’indotto.
Gli aspetti rilevanti dell’impresa sono quindi l’assetto proprietario, che può essere privato o pubblico o misto, la forma organizzativa e la combinazione degli interessi coinvolti direttamente o indirettamente.
L’impresa ha negli anni purtroppo acquisito una immagine negativa, che si è anche molto diffusa (es. libro e film THE CORPORATION, di un autore canadese, che ha in copertina un imprenditore con l’aureola e la coda del diavolo – corporation = impresa, società). La critica è nata e si è radicata per certi eccessi che si sono verificati, e ha portato però a riflettere sull’impresa e sul suo modo di operare. La critica ha fatto nascere la CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY, la RESPONSABILITA’ SOCIALE DELL’IMPRESA.
Essendo stata demonizzata, viene ricondotta tramite la RSI a un ruolo sociale, ad una responsabilità sociale. Il chiedersi se l’impresa è il diavolo, tematica sviluppatasi nel mondo anglosassone, è un aspetto che per noi cattolici ha ovviamente un significato particolare. Tanto che l’attività d’impresa è stata ed è oggetto della Dottrina sociale della Chiesa cattolica, sono state emanate delle Encicliche che contengono tra l’altro delle aperture molto moderne verso questi concetti. Le encicliche come da Rerum Novarum, la Centesimus Annus, hanno affrontato tra l’altro la questione del lavoro, dell’impresa. L’impresa va gestita secondo certi criteri, ad esempio un giusto salario, tenendo presente sempre la libertà d’iniziativa economica, garantita dall’art. 41 della Costituzione e considerata dalla dottrina sociale della Chiesa.
Tutto ciò che ruota intorno all’impresa, non solo i lavoratori e le loro famiglie, va tenuto in considerazione, il caso Fiat ricordiamo, gli aiuti sono stati concessi perché era dannoso per tantissimi aspetti far chiudere una impresa così. Anche il ruolo stesso dell’impresa nel paese è importante. L’Alitalia, caso attualissimo, è la nostra compagnia di bandiera, rappresenta il paese nel mondo, ed è stata mal gestita, eccessi di assunzione del personale, parco aerei irrazionale, troppi nuovi modelli e quindi sempre nuovi corsi di addestramento, costi di manutenzione elevatissimi etc., insomma una gestione sconsiderata.
Abbiamo detto che la continuità e la stabilità sono i criteri di base, e la gestione li ha come obiettivi. Anche perché il lavoro fa realizzare l’uomo, e l’impresa ben gestita dà lavoro, non è un luogo demoniaco l’impresa, ma un luogo dove la persona umana si sviluppa.
E la ricerca, per esempio, è un altro aspetto importante che persegue l’impresa, non solo il lucro, alcune imprese hanno proprio dei settori dedicati, in cui investono risorse, anche per stare dietro alla concorrenza.
Dicevamo che i portatori di interesse verso l’impresa non sono solo i soci, i dipendenti, quelli direttamente interessati (stakeholders), ma l’interesse è anche per tutto l’indotto di un’impresa. Anche altre imprese minori coinvolte e interessate alla gestione dell’impresa principale.
Per concludere, la responsabilità dell’impresa ha quindi molti aspetti, che andrete ad approfondire durante il corso quest’anno, e ne elenchiamo i principali. Quando si parla di responsabilità si può intendere:
a) L’aspetto civilistico, cioè la responsabilità di rispondere dei debiti;
b) Quella prevista all’art. 2049 c.c. per gli illeciti dei dipendenti, per i quali l’impresa risponde con una responsabilità oggettiva, che prescindne dalla colpa;
c) La responsabilità penale per l’impresa, grande novità sancita dalla legge nel 2001 (D.Lgs. 231/01). Dal 2001 infatti la responsabilità penale non è più solo personale, a seguito dei casi di corruzione, della storia di tangentopoli, è stata istituita la responsabilità penale anche per la persona giuridica, che risponde quindi penalmente come impresa, come società. Responsabilità amministrativa dell’impresa, che può andare quindi sotto processo penale lei stessa. Il decreto dettava tra l’altro dei modelli organizzativi per le imprese, da usare come strumenti per prevenire e impedire la commissione di reati.
d) Responsabilità morale e sociale, che come dicevamo può essere l’antidoto a quella immagine diabolica dell’imprenditore, diffusasi negli anni.
L’impresa viene ormai considerata staccata dall’imprenditore, e la legge stessa favorisce la continuità, così come favorisce il passaggio generazionale, o le fusioni, se consentono la continuità. Le imprese infatti non possono decidere di chiudere, ad esempio, così da un giorno all’altro, hanno delle responsabilità sociali, anche se c’è ed è tutela il diritto di chiudere, perché rientra nel diritto della libera iniziativa economica. Ci fu addirittura una sentenza famosa contro una società che aveva messo in liquidazione all’improvviso l’attività, danneggiando i lavoratori.
La gestione va quindi contemperata con altri interessi, va considerata la funzione sociale. Il diritto di iniziativa economica è strettamente connesso all’assumersi delle responsabilità, è un principio morale e giuridico, valido anche in ambito internazionale.
Un aspetto dell’impresa, da cui derivano particolari responsabilità, è l’abuso della posizione dominante, rilevata e affrontata in primis dalla Commissione europea, pratica che configura grandi responsabilità per quelle aziende molto forti sul mercato che approfittano appunto della loro posizione verso imprese più piccole o verso i consumatori.
La RESPONSABILITA’ SOCIALE delle imprese, detta RSI, è in conclusione un atteggiamento che deve tenere conto dei soggetti immediatamente interessati, i cosiddetti stakeholders, portatori di interessi, ma anche di tanti altri interessi (ad esempio l’ambiente, la cultura etc.). Se guardiamo i siti web delle grandi imprese c’è sempre ormai, accanto alla Mission, cioè all’oggetto sociale, una sezione dedicata all’aspetto sociale (vedi ad esempio la sezione SOSTENIBILITA’del sito www.eni.it), anche se spesso è solo a scopo promozionale.
La legge notiamo, ratificando lo scopo di lucro per le imprese, sembra quasi autorizzare anche i mezzi che le imprese possono impiegare per raggiungerlo, la responsabilità sociale smorza invece gli effetti e indirizza la gestione, prende in considerazione aspetti come la sicurezza, lo smaltimento dei rifiuti, cose che senza la responsabilità sarebbero trascurati in nome del lucro.

Lezione 07/11/2008 – Maugeri
E’ molto importante il concetto di impresa, strettamente connesso a quello di società. IMPRESA uguale attività ORGANIZZATA, in diverse forme, ad esempio in forma di SOCIETA’, che può essere di capitali o di persone. Sono concetti fondamentali, da ricordare.
Quindi una SOCIETA’ è una MODALITA’ di gestione dell’IMPRESA.
Il Codice civile definisce la società, anzi il contratto di società, all’art. 2247.
Art. 2247 c.c. – Contratto di società – Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili.
Proviamo ora a ripercorrere storicamente le tappe che hanno portato alle diverse forme di società, e alle due diverse nozioni, che fanno da modello di esercizio della mercatura, del commercio. La prima forma che si trova è la
COMPAGNIA – da cum panis, in latino persone che si alimentano con lo stesso pane. Erano membri di una famiglia che esercitavano insieme la mercatura, sotto la guida e il nome del pater familias. Siamo nell’epoca feudale, dove tutti nella famiglia compiono atti di commercio e tutti rispondono delle obbligazioni assunte. Siamo in regime di economia curtense E’ un modello societario feudale, dove la famiglia gestiva un fondo, ed è l’archetipo della società in nome collettivo, oggi definita dall’art. 2291 e 2292 c.c. E’ un tipo di società di connotazione INDIVIDUALE.
Artt. 2291 e 2292 c.c. – Società in nome collettivo – Nella società in nome collettivo tutti i soci rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali….. omissis…. La società in nome collettivo agisce sotto una ragione sociale costituita dal nome di uno o più soci con l’indicazione del rapporto sociale…omissis…
E’ molto importante, oggi come allora, osservare l’evoluzione dei rapporti economici, che va ad incidere sulle forme di gestione dei commerci e soprattutto sull’intervento o meno dello Stato nell’economia, e soprattutto porta alla necessità di nuove regole.
Con l’avvento dei comuni, con il diffondersi di una economia urbana, e con il diffondersi dei mercanti, che si spostavano per vendere le loro merci, viaggiavano, si muovevano, avevano bisogno di CAPITALI, non di proprietà. Quindi il vecchio modello res-dominus per loro non era utile, avevano bisogno di denaro per organizzare al meglio il loro lavoro. Di conseguenza serviva loro uno strumento giuridico per poter ottenere dei capitali, serviva un contratto per avere credito, per avere finanziamenti, mutui. Va ricordato che il prestito, il mutuo (schema tecnico giuridico) era vietato, vigeva il divieto biblico e evangelico non solo di prestare soldi a usura, ma addirittura di dare soldi a prestito con interessi (come indicato nel Discorso della montagna del Vangelo di Luca). Alcuni lo hanno interpretato addirittura come un divieto non solo di chiedere interessi, ma di richiedere indietro il capitale. Era una regola morale, un divieto del quale gli storici medievali si misero a cercare la ratio, storicizzarono e cercano il motivo che individuarono in una forma di protezione del povero.
Era quindi vietato dare capitali al mercante al fine di trarne profitto. Il giurista medievale cercando un escamotage afferma che dare denaro al mercante è però una operazione diversa, non è un prestito, è una SOCIETAS, anzi una COMMENDA Trovarono quindi una soluzione nominalistica, diedero un altro nome, diverso da quello di mutuo, al conferimento di capitali ai mercanti. Non venivano dati allo scopo di trarne profitto, ma per consentire ai mercanti di fare il loro lavoro. Già il nome, COMMENDA, ci richiama la forma societaria evoluta ai giorni nostri, società in accomandita semplice e per azioni, dove ci sono due diversi tipi di soci:
a) ACCOMANDANTI – gruppo di soci che conferisce e non gestisce
b) ACCOMANDATARI – gruppo di soci che gestisce l’attività
Riassumiamo i due filoni: COMPAGNIA E COMMENDA, forme di impresa contrapposte con profonde radici storiche, che portano alla società di persone e alla società di capitali in accomandita. Cerchiamo ora un collegamento tra le due, un elemento che possa legare le società di persone con le società di capitali.
Come abbiamo visto la società all’art. 2247 è un contratto, ma non può essere questo il collegamento perché in alcuni casi può anche essere frutto di un atto unilaterale. Contratto non è quindi una risposta completamente soddisfacente come collegamento.
Se diciamo che la società è un SOGGETTO, è una PERSONA GIURIDICA, non ci soddisfa lo stesso perché allo stato solo le società di capitali hanno personalità giuridica, le società di persone sono sì soggetti giuridici ma non hanno personalità.
La PERSONA GIURIDICA è un soggetto giuridico titolare di posizioni attive e passive, idoneo a essere titolare di diritti e obblighi. In diritto con la locuzione persona giuridica (o, secondo una vecchia terminologia, ente morale) s'intende un complesso organizzato di persone e di beni al quale l'ordinamento giuridico attribuisce la capacità giuridica facendone così un soggetto di diritto. In generale la capacità giuridica riconosciuta alla persona giuridica (personalità giuridica) è meno estesa di quella riconosciuta all'essere umano in quanto soggetto di diritto, ossia alla persona fisica, poiché la persona giuridica non può essere parte di quei rapporti giuridici che, per loro natura, possono intercorrere solo tra persone fisiche (l'esempio tipico è rappresentato dai rapporti familiari).
Ci sono due TIPI di concetto:
a) Concetto TIPOLOGICO – che sintetizza gli elementi caratterizzanti (es. il titolo di credito è un documento idoneo alla circolazione), reali, esistenti nella realtà
b) Concetto NORMATIVO – definito da una norma, sintetizza la disciplina
La personalità giuridica è un concetto NORMATIVO, non esiste nella realtà, in natura, è un concetto frutto dell’ordinamento, le sue caratteristiche sono fissate dall’ordinamento (art. 2331 c.c. – Con l’iscrizione nel registro la società acquista personalità giuridica).
Su questo argomento analizziamo un momento due dottrine contrapposte.
Hans Kelsen (Praga, 11 ottobre 1881 – Berkeley, 19 aprile 1973) è stato un giurista austriaco, tra i più importanti del Novecento . Kelsen è noto come il capostipite novecentesco della dottrina liberal-democratica del diritto su base giuspositivista.Per Kelsen la legge è norma positiva (cioè "posta" dagli uomini e non dal trascendente). Per il filosofo del diritto, la norma è dover-essere, è necessità contrapposta all'essere, all'esistente. Diversamente dalla sociologia del diritto, la quale si occupa delle interconnessioni a livello fattuale tra attività positiva del diritto e comportamenti degli uomini, la scienza giuridica dovrebbe invece occuparsi della ricerca, nel mondo delle idee, di una teoria generale del diritto. In questo studio ideale i comportamenti umani rilevano solo di riflesso, in quanto presupposti fattuali per l'applicazione del diritto. La norma inoltre è relativa, cioè senza alcun fondamento di Verità. Non si può parlare, secondo la sua prospettiva, di una legge naturale, almeno non nell'ambito giuridico. Secondo la teoria di Kelsen, infatti, il Diritto è costituito solo ed esclusivamente dalle norme positive e valide dell'ordinamento giuridico, qualsiasi precetto esse contengano. Non a caso la sua teoria viene chiamata Dottrina Pura del Diritto, come una delle sue opere più famose. Secondo il pensiero kelseniano l'ordinamento giuridico è l'oggetto del diritto, null'altro. Lo studioso pone come base di ogni ordinamento le norme sulla produzione del diritto oggettivo (le c.d. fonti del diritto) e crea il concetto di Grundnorm (norma fondamentale), norma che pone a fondamento del rispetto dell'ordinamento stesso. In altri termini, ogni norma è giustificata dalla conformità alla norma ad essa superiore gerarchicamente, sino ad una norma cardine (tipicamente uno statuto o una costituzione). L'intero ordinamento, al suo apice, è giustificato da un carattere esterno: l'imposizione coattiva, quella che il giurista chiama efficacia dell'ordinamento (cogenza). L'impostazione prende così, per così dire, un aspetto esteticamente piramidale.
Secondo la dottrina di Kelsen l’ordinamento non crea individui, ma disciplina i comportamenti, ha una concezione normativistica, e afferma che non esiste una realtà pre-giuridica, è lo stato, il legislatore che crea.
In Germania si sviluppo anche una teoria realistica, che afferma che l’ordinamento RICONOSCE, non crea, degli gruppi sociali già esistenti nella realtà, e gli riconosce personalità giuridica. E’ una tesi più favorevole al libero mercato, al privato, che si organizza e lo stato non interviene istituendo, ma può solo riconoscere.
La persona giuridica non ha contenuto ontologico, come abbiamo visto è creata dall’ordinamento, e di conseguenza può essere diversa, avere contenuto diverso a seconda del diverso ordinamento. Ad esempio in Francia l’ordinamento prevede che tutte le società di commercio abbiano la personalità giuridica. Mentre in Italia la avevano tutte, nei rapporti con i terzi, nel Codice del Commercio del 1882, e la ebbero fino al codice civile del 1942. Seguendo il modello tedesco (codice prussiano del 1870) vediamo che è limitata alle società per azioni.
La matrice francese è comune fino al 1870, quando si spezza per l’Italia, che segue il modello tedesco. Il motivo è perché a un certo punto si collega il concetto di persona giuridica a quello di LIMITAZIONE DI RESPONSABILITA’.
Prima c’era solo il soggetto di diritto, idoneo ad essere titolare di diritti e obblighi. In Germania il concetto di persona giuridica sintetizza una serie di regole imperative per l’organizzazione e la disciplina del capitale, che devono essere osservate se si vuole usufruire del beneficio della limitazione di responsabilità, cioè il beneficio per il quale i soci NON rispondono con il patrimonio personale delle obbligazioni assunte dalla società.
Quindi orientamento francese: soggetti di diritto TUTTI, orientamento tedesco: ci sono regole per avere il beneficio, e cioè essere in primis una società di capitali. L’ordinamento limita, dà un complesso di regole per ottenere la limitazione. La personalità giuridica è quindi un PRESUPPOSTO per godere della limitazione? O è una condizione?
Può essere questa limitazione il nesso che lega le due tipologie di società? Il nesso NORMATIVO, se vediamo storicamente, ma in realtà ancora oggi, esiste l’accomandita per azioni che è una società di capitali che ha personalità giuridica, quindi avrebbe limitazione di responsabilità, ma ci sono i soci accomandatari, che invece rispondono personalmente.
Quindi l’equazione personalità giuridica uguale limitazione di responsabilità non è assoluta.
In America, in California, fino alla prima metà del ‘900, i soci rispondevano tutti delle obbligazioni della CORPORATION, solo successivamente fu concesso il beneficio della limitazione.
La personalità giuridica come dicevamo è un concetto NORMATIVO, il contenuto è dato dal legislatore, a seconda, come abbiamo visto, del tempo, nella storia, e dello spazio, del luogo.
Per tornare alle categorie di società, delineatesi nella storia, osserviamo ora la Compagnia delle Indie, britannica e olandese (mandate in Sud Africa e in Asia dalla Corona, per i commerci). Era una vera e propria struttura giuridica, con due soggetti partecipanti:
1) Soggetti che decidevano, gestivano e rispondevano illimitatamente
2) Soggetti investitori senza gestione, con responsabilità limitata.
Aveva personalità giuridica, e alla base troviamo il concetto di società per azioni. La divisione tra soci imprenditori e soci investitori ha quindi profonde origini storiche. Ecco che la personalità giuridica si identifica con la soggettività giuridica, non si riduce a limitazione di responsabilità.
Secondo il Prof. Ferro-Luzzi il concetto di personalità giuridica si identifica con una particolare disciplina della PRODUZIONE DELL’AZIONE, dell’attività. Regole secondo le quali determinati gruppi agiscono. Ci sono delle persone fisiche che compiono atti imputabili alle persone giuridiche. La persona giuridica stessa fissa le regole per cui l’ATTO COMPIUTO dal singolo diventa un atto della persona giuridica. La DISCIPLINA DELLA PRODUZIONE DELL’AZIONE, regole attraverso le quali l’atto viene imputato e si trasforma in situazione giuridica.
Ci sono due livelli di imputazione: es. un atto di Marchionne diventa un atto della FIAT. La situazione giuridica della FIAT si scompone in atti dei singoli soci che compongono la persona giuridica (es. percezione del dividendo, il diritto al dividendo è una situazione giuridica, un diritto dei singoli soci).
Ecco quindi che SOC. di PERSONE e SOC. di CAPITALI hanno REGOLE DIVERSE per la produzione dell’azione.
a) Persone – vi è un collegamento inscindibile, diretto tra azione, atto, negozio giuridico, e persona. Nella snc è il socio che mette le regole, e i soci rispondono illimitatamente delle obbligazioni sociali.
b) Capitali – non c’è un collegamento diretto, il collegamento con la persona si spezza, c’è il rapporto azione – ORGANO, non persona fisica, si frappone l’organo, che agisce. La persona giuridica agisce attraverso delle FUNZIONI.
Il modo in cui si producono le regole è quindi punto focale, così come quindi l’ATTIVITA’, l’IMPRESA. Non vanno separati i concetti di società e di impresa. Se si esamina la frase SOCIETA’ DI CAPITALI, ecco che società è il soggetto e di capitali il complemento. Al centro si colloca il concetto di ATTIVITA’ DI IMPRESA.
La società si identifica come forma di gestione, e anche di finanziamento. L’attività è organizzata, nell’impresa, in diverse forme, e la forma societaria è UNA delle forme, non è l’unica. Ci sono infatti forme associative, quindi associazioni, ci sono le fondazioni, le persone fisiche etc. Distinte forme di organizzazione per l’attività.
Il codice civile come abbiamo visto parte dall’imprenditore, e lo definisce, invece qui la prospettiva è rovesciata, si parte dall’attività, e l’imprenditore diventa un modo di attuarla.
Ma troviamo delle conferme normative a questa definizione? Partiamo ad esempio dall’art. 2498 c.c., norma centrale per la disciplina della trasformazione, basata sulla continuità dei rapporti giuridici, che fa salva la persistenza dei rapporti giuridici.
Art. 2498 – Della trasformazione – Continuità dei rapporti giuridici – Con la trasformazione l’ente trasformato conserva i diritti e gli obblighi e prosegue in tutti i rapporti anche processuali dell’ente che ha effettuato la trasformazione.
Questa norma che assicura la continuità, e che dà quindi una grande importanza ai rapporti in corso è una conferma dell’importanza che ha la disciplina della ATTIVITA’.
Se vediamo l’art. 2500 octies:
Art. 2500 octies – Trasformazione eterogenea in società di capitali – I consorzi, le società consortili, le comunioni d’azienza, le associazioni riconosciute e le fondazioni possono trasformarsi in una delle società disciplinate…omissis…
Vediamo che disciplina la trasformazione tra due enti, con CAUSA DIVERSA, un ente con una causa (es. fondazione a scopo culturale) può trasformarsi in un ente con una causa diversa (società con scopo di lucro). La trasformazione ad esempio tra una SNC in una SPA non è eterogenea, hanno entrambe la stessa causa, sono fini di lucro entrambe.
L’articolo sancisce il fatto che degli entri con altri fini possono trasformarsi in società di capitali con fini di lucro, evidenzia quindi anche qui l’elemento di CONTINUITA’. Ecco che la società non è solo un contratto, questa è una ulteriore conferma che il significato è legato alla ATTIVITA’. Novità della riforma del 2003.
Se esaminiamo la comunione d’azienda, infatti, vediamo che questa può nascere anche senza un contratto, ma per successione ereditaria, non è quindi il contratto l’elemento di continuità. Così come le fondazioni, che si trasformano, e nascono non con un contratto ma con un conferimento di beni.
Se cerchiamo poi conferma della identificazione della persona giuridica con la società, vediamo che invece i consorzi non hanno personalità giuridica, non c’è un elemento di continuità giuridica, nella trasformazione, è l’ATTIVITA’ la chiave. La definizione di consorzio è : imprenditori che si mettono d’accordo per disciplinare insieme alcune fasi della loro attività, gestita separatamente.
Con la trasformazione quindi c’è continuità nell’attività di impresa, solo organizzata diversamente. L’art. 2500 octies è una successione di discipline applicabili all’attività di impresa.
Prima della riforma del 2003 era più difficile ricondurre il concetto di SOCIETA’ a quello di ATTIVITA’, ora con la disciplina della trasformazione, ma anche con la nuova disciplina degli STRUMENTI FINANZIARI PARTECIPATIVI, (Vedi art. 2346 c.c. - Emissione delle azioni) si è reso possibile il ripensamento del concetto di società.
Gli strumenti finanziari partecipativi attribuiscono diritti simili a quelli della posizione di socio, come la partecipazione all’utile, e addirittura il diritto di voto (Art. 2351 c.c.). E’ stato un cambiamento epocale che riconosce a SOGGETTI DIVERSI DAI SOCI, il diritto di voto, il diritto di partecipare alla organizzazione sociale, fosse anche solo per alcuni argomenti. Tale norma non si può spiegare in termini di contratto, perché attribuisce dei diritti tipici dei soci a dei soggetti estranei al contratto, che non sono parte nel contratto, ma che hanno poteri come un socio.
Possiamo legare, spiegare, la norma legandola al concetto di persona giuridica? No perché il possesso di strumenti finanziari partecipativi è estraneo alla personalità giuridica. La persona giuridica emette degli strumenti finanziari che sono sottoscritti da terzi. La norma si spiega solo legandola al concetto di ATTIVITA’, così come la trasformazione anche l’emissione di strumenti finanziari partecipativi si colloca sul piano dell’attività, è una FORMA DI PARTECIPAZIONE all’attività d’impresa, un concetto più ristretto di partecipazione, che ha modificato le forme di gestione dell’attività.
Quindi la società diventa una organizzazione con diverse forme di partecipazione, previste dall’ordinamento:
 Soci – partecipazione sociale
 Possessori di strumenti finanziari partecipativi
Ma a questo punto viene da chiedersi che cosa distingue i due soggetti? Hanno entrambi diritto all’utile, diritto di voto, potrebbe differenziarli il conferimento iniziale? No, perché se lo consideriamo un investimento lo fanno anche i possessori di strumenti finanziari, non solo i soci.
La differenza sostanziale è che SOLO il conferimento dei soci è IMPUTATO AL CAPITALE SOCIALE. Gli strumenti finanziari partecipativi NON rappresentano il capitale sociale, e la soddisfazione degli interessi dei titolari di questi strumenti NON sono rappresentati dalla disciplina del capitale sociale.
Ad esempio, la restituzione del capitale investito ai possessori degli strumenti figura come RIMBORSO, sul quale non incide l’opposizione dei creditori; verso il socio invece la restituzione non è un rimborso, ma è la restituzione del conferimento, che comporta una RIDUZIONE DEL CAPITALE SOCIALE, prevista dalla relativa disciplina (Art. 2445 c.c.) che oltretutto non può aver luogo se i creditori sociali si oppongono.
Gli strumenti finanziari partecipativi rientrano invece nell’area del DEBITO, la società ha un debito verso i titolari di questi strumenti finanziari, il sottoscrittore è un CREDITORE della società.
Ecco qual è il criterio distintivo tra i due soggetti. Il socio è sottoposto alle regole del capitale sociale, è il cosiddetto residual claiment, è cioè titolare di pretese RESIDUALI, dopo che i creditori sono stati soddisfatti.
Per quanto riguarda il finanziamento dell’impresa quindi, i soci, classe di finanziatori, vengono soddisfatti solo DOPO tutti gli altri.
Questo è un inquadramento coerente anche con la parte di GESTIONE dell’impresa, perché in effetti i soci sono i soggetti NEL CUI INTERESSE la società è gestita. La gestione della società è funzionale all’interesse dei soci, della partecipazione sociale. I soci sono quindi classe di finanziatori e classe di soggetti nel cui interesse la società è gestita. Un esempio lo è l’art. 2497.

Art. 2497. (Responsabilità). Le società o gli enti che, esercitando attività di direzione e coordinamento di società, agiscono nell’interesse imprenditoriale proprio o altrui in violazione dei principi di corretta gestione societaria e imprenditoriale delle società medesime, sono direttamente responsabili nei confronti dei soci di queste per il pregiudizio arrecato alla redditività ed al valore della partecipazione sociale, nonché nei confronti dei creditori sociali per la lesione cagionata all’integrità del patrimonio della società. Omissis...
La partecipazione sociale è la disciplina per la soddisfazione dell’interesse del socio, quindi INTERESSE SOCIALE. La dottrina affronta questo concetto in modi diversi. C’è una dicotomia tra due concetti, a seconda che si applichi il CONTRATTUALISMO o L’ISTITUZIONALISMO.
L’interesse sociale emerge in più norme, vediamo ad esempio l’Art. 2373 – Conflitto di interessi, che rende annullabile la delibera che tocca interessi in conflitto di interessi con la società. O l’Art. 2441, che al quinto comma esclude il diritto di opzione (cioè il diritto di sottoscrivere in via preferenziale le nuove azioni) se è contro l’interesse della società, se l’interesse sociale lo esige.
L’interesse sociale è un concetto di grandissima rilevanza, addirittura consente di far entrare nuovi soggetti nella società, se è nell’interesse sociale.
Come dicevamo ci sono due modi di concepire l’interesse sociale. Vediamo il punto di vista ISTITUZIONALISTICO, che dice che l’INTERESSE SOCIALE non si identifica solo con l’interesse soci, ma si identifica con portata più ampia, oltre l’interesse dei soci, alla persona giuridica, all’impresa in sé, per far andare “i battelli del Reno”, per dirla con Rathenau.
I battelli del Reno



Lo scambio di opinioni in corso tra il Ministro Tremonti ed il Professor Guido Rossi in merito alla natura di giurista o meno del grande imprenditore tedesco Walter Rathenau, pone alla attenzione di molti lettori un interessante tema, quello della gestione delle grandi imprese, delle finalità politico economiche che un sistema capitalistico moderno debba perseguire, il tema, per dirla con gli americani, della Corporate Governance.

Walter Rathenau è stato un grande pensatore, economista, statista, vissuto nella travagliata Repubblica di Weimer, vicino alla socialdemocrazia, ma distante dal marxismo, come parte della sinistra tedesca post revisionista.

Ad ispirare le dispute dottrinarie fra giuristi, è ancora la secca ed illuminante risposta che Walter Rathenau diede agli azionisti della Norddeutscher Lloyd, i quali si lamentavano di non aver guadagnato abbastanza dal loro investimento azionario.

L’insigne giurista rispose che la società non esisteva per “ distribuire dividendi a lorsignori, ma per far andare i battelli sul Reno”.

L’espressione “ i battelli del Reno” è diventata da allora sinonimo dell’interesse sociale, cioè della oggettivizzazione della impresa e, con essa , della proprietà, al punto da determinare una contrapposizione fra interesse degli azionisti, legittimi proprietari dell’impresa, e l’interesse dell’impresa in sé.

Si assiste, pertanto, ad uno sdoppiamento della natura dell’Impresa e, soprattutto, si pone il problema della scelta rispetto a quale delle due teorie abbracciare nella amministrazione dell’impresa: la massimizzazione dell’investimento azionario o la considerazione e soddisfazione di tutti gli interessi che ruotano intorno alla impresa.

Occorre perseguire politiche che massimizzino i risultati degli azionisti, salvaguardando il diritto della proprietà ad ottenere i risultati che le spettano, oppure si deve avere riguardo al funzionamento e potenziamento dell’impresa, rappresentati in primis dai lavoratori, ma anche da creditori finanziatori, dallo Stato etc, i c.d. stakeholders?

Il tema assume un rilievo particolare in questi giorni, nei quali abbiamo appreso che la Francia interverrà disponendo la fusione fra una società privata, privatizzata anni fa, ed una a rilevante partecipazione pubblica, al fine di creare una società francese nel settore dell’energia capace di giocare un ruolo su scala europea e di scongiurare eventuali OPA ostili di altri gruppi societari.

Al di là delle polemiche sorte in relazione al protezionismo che tale operazione esprime, notiamo anche il rivelarsi di una convinzione assai diffusa in Europa, e cioè che la visione della “impresa” come cosa a sé, oggettivizzata , separata, ed a volte contrapposta, agli interessi degli azionisti.

E’ chiaro infatti che gli azionisti avrebbero potuto beneficiare di un plus valore se la società fosse stata oggetto di una offerta pubblica di acquisto da parte di ENEL e, vendendo, avrebbero ottenuto il loro ritorno di legittimi proprietari.

Lo Stato francese, intervenendo a difesa di un progetto più ampio, che tenesse conto di interessi più vasti e di tutti gli stakeholders possibili, ha, di fatto, impedito il possibile guadagno degli azionisti.

Tralasciando la dubbia legittimità dell’intervento statale, ma assumendo che anche lo Stato sia uno degli stakeholders interessati alle sorti della grande impresa energetica, qui rileva soprattutto l’aspetto economico della questione, e cioè il ruolo fondamentale degli azionisti in un mondo a capitalismo avanzato. Azionisti che sono, possono o dovrebbero essere i principali finanziatori delle imprese e la cui insoddisfazione si può chiaramente ripercuotere sulle capacità delle imprese di reperire finanziamenti. Ci sono naturalmente altri modi di finanziamento, ma ogni scelta ha un prezzo, soprattutto questa.

Premesso che gli atteggiamenti sopradescritti corrispondono a due mentalità diverse, ma entrambe rispettabili ed efficienti, occorre discutere e capire quale visione e, di conseguenza, quale strada l’Europa vuole intraprendere in relazione al sistema di corporate governance delle imprese, tema che si allarga fino a comprendere scelte di politica economica , di integrazione europea e persino di politica internazionale.


Quindi gli amministratori devono quindi massimizzare l’efficacia produttiva dell’impresa, ma questo va a modificare il contenuto dei doveri gestori, di gestione, degli amministratori, che fanno a questo punto delle scelte non per aumentare gli utili ma per garantire la stabilità dell’impresa, la gestione si apre a interessi diversi.
Si attua una grande scissione tra PROPRIETA’ e CONTROLLO, tra interessi proprietari e scelte di gestione.
Facendo leva sull’interesse dell’impresa in sé ci si allontana dal fare l’interesse dei soci. Questa è la teoria istituzionalista, che mira a un interesse più ampio, guardando anche al sistema economico. La si ritrova nel paragrafo 70 della legge azionaria tedesca del 1937, con il principio della guida per gestire l’impresa “….così come richiesto dall’azienda, dal popolo, dal Reich…..”
Gli amministratori diventano a questo punto strumenti di programmazione economica, e le loro scelte gestorie mirano ad obiettivi quasi istituzionali.
La legge azionaria del 1965 modifica questo aspetto e elimina anzi l’interesse dell’azienda in sé, anche se ha mantenuto un atteggiamento istituzionali stico, anzi introducendo una gestione paritetica dell’azienda; il Consiglio di Sorveglianza è composto da rappresentanti dei soci, ma anche da rappresentanti dei lavoratori dipendenti. Il Consiglio di Sorveglianza nomina il Consiglio di Gestione, che quindi tenderà a curare sia l’interesse dei soci che dei dipendenti.
In Italia per ritrovare il concetto vediamo l’art. 103 comma 3bis del TUF. E’ un articolo in tema di OPA, in realtà un po’ equivoco. Al lancio dell’offerta pubblica di acquisto prima gli amministratori dovevano fare un comunicato in merito alla CONVENIENZA PER I SOCI, oggi invece il comunicato deve ricomprendere una valutazione di convenienza PER L’IMPRESA, per L’OCCUPAZIONE.

Lezione 14/11/2008 – Agostino Gambino
Parliamo della qualifica di IMPRENDITORE, della costituzione della SOCIETA’, ed esaminiamo i RAPPORTI TRA IMPRESA E SOCIETA’, argomento che attraversa tutto il diritto commerciale. Partiamo leggendo l’ Art. 2082 c.c. e vediamo subito che l’articolo disciplina il SOGGETTO, l’imprenditore, non l’impresa. L’impresa ha comunque rilevanza giuridica, ovviamente, ed è il punto di riferimento, anche se non esclusivo.
Parlando del CONTRATTO possiamo invece dire che questo è UNA DELLE FONTI delle società, è una fonte non esclusiva, perché le società di persone, le snc nascono esclusivamente da contratto, e quelle irregolari in realtà anche su accordo verbale, e le società di capitali dal 1992 in poi possono avere un solo socio, una sola persona può costituire con atto unilaterale.
Il Contratto di società, disciplinato all’art. 2247, ha come elemento fondamentale il fine lucrativo, mentre vediamo che l’art. 2082 non lo cita. Ma il fine di lucro di questo articolo è veramente la base di tutte le società? Facciamo un esempio, la Patrimonio Italia S.p.A., è una società dello Stato nata non per fine lucrativo, ma ha interesse al massimo rendimento degli immobili di proprietà dello Stato. E così ce ne sono altre, istituite con leggi speciali (altro esempio la GEPI), magari in momenti di crisi.
La finalità lucrativa è quindi TIPICA, ma NON ESSENZIALE. E’ tipica per le società di privati, ma ad esempio le s.p.a. pubbliche non hanno generalmente fine di lucro, possono anche non averlo.
Sono però società. Ma sono anche imprenditori? Sì, la risposta la troviamo nel diritto positivo, perché come dicevamo l’art. 2082 che definisce l’imprenditore non cita il fine di lucro. Il privato naturalmente lo persegue, ma non è questo che lo qualifica imprenditore. Il legislatore del ’42 tra l’altro, non aveva presenti le società per azioni pubbliche, perché c’erano ancora gli enti pubblici economici, e non ha messo il fine di lucro affinchè non potesse essere opposto la non applicazione della disciplina per gli imprenditori, ha lasciato quindi che TUTTI quelli che “imprendono”, a prescindere dal fine di lucro o meno, potessero correre il RISCHIO D’IMPRESA, e vedersi applicata la relativa disciplina.
Non serve quindi il lucro per essere qualificati imprenditori, e quindi per andare per esempio davanti al Tribunale Fallimentare. E anche lo società quindi, anche se non hanno il fine di lucro.
Ad esempio il Consorzio, che ha finalità mutualistica, svolge una attività mutualistica tra imprenditori, una attività comune a supporto delle singole imprese. La finalità lucrativa non ce l’ha il consorzio, ce l’hanno le singole imprese che ne fanno parte. Il consorzio è un ausilio, ad esempio un Ufficio Vendite in comune, creato in consorzio di più imprese venditrici, ha come finalità di risparmiare, non di lucrare, naturalmente affinché le imprese possano lucrare. Anche le cooperative, che hanno un rapporto distinto cooperativistico, il quale opera per far ottenere il massimo beneficio al rapporto parallelo. Facciamo un esempio, una cooperativa di lavoro, ha fine mutualistico, i lavoratori si uniscono per ottenere migliori condizioni di lavoro, non per fini di lucro. Infatti gli introiti servono per coprire le spese, il resto del reddito va ad aumentare il rapporto di lavoro, parallelo alla cooperativa. Oppure una cooperativa di consumo, questi grandi spazi dove di solito si vende di tutto, come a Cortina. I residenti sono soci, e lo scopo è avere prezzi migliori, quindi non lucrare, ma risparmiare sulla spesa. I prezzi sono uguali di solito, sia per i soci che per i turisti, però al socio della cooperativa viene poi stornata una parte della spesa sostenuta. Le cooperative sono nate verso la fine dell’800, hanno origine associativa, con un fine non lucrativo, ma sono ai sensi dell’art. 2082 delle attività imprenditoriali. Rientrano nella categoria.
Nelle norme ogni singola parola ha un peso, una rilevanza. Quando si dice “CHI ESERCITA” si intende chi esercita di fatto, che fa una attività durevole, che prosegue nel tempo.
I governi, di ogni parte politica, hanno da sempre e sempre agevolato la costituzione di imprese. Tanto che oggi è possibile costituire una impresa anche in via telematica. Le società di capitali, dopo aver effettuato il versamento del 25% del capitale alla Banca d’Italia vanno dal Notaio per l’atto costitutivo, e poi in via telematica vengono registrate al Registro delle Imprese.
La norma parla poi di ESERCIZIO, e per esercizio di intende l’attuazione di ATTI DI ORGANIZZAZIONE, affinchè si sia imprenditori. Ma il soggetto è già imprenditore anche perché l’oggetto sociale lo definisce, però in realtà l’oggetto sociale, citato nell’atto costitutivo, è un PROGRAMMA, non è un ESERCIZIO. Allora perché una società per azioni, una volta costituita, è subito considerata un’impresa, rientra subito nella categoria degli imprenditori?
La risposta al perché sta nella interpretazione storica. La società rientra da subito nella categoria imprenditori, viene qualificata subito imprenditore perché SI E’ SEMPRE INTERPRETATA così la questione.
Se guardiamo l’art. 8 del codice commercio del 1882, questo citava così:
Art. 8 – Cod. di Commercio – 1882 – “Sono commercianti coloro che esercitano atti di commercio per professione abituale, e le società commerciali”
..per professione abituale.. quindi esercitando questa professione. …. Atti di commercio… che erano quindi singole attività, per la precisione 24 tipologie elencate. Infine aggiunge …. E le società commerciali…. Senza aggiungere nulla, quindi non c’è scritto che esercitano, ma le società sono qualificati commercianti per il solo fatto che si siano. Poi nel 1942 in Italia è nata con il codice la categoria di imprenditore. In Francia invece ancora oggi non si sono imprenditori commerciali, ci sono COMMERCIANTI.
Nasce la società, nasce l’imprenditore. Ma quando si dice “non importa che eserciti”, sarà proprio così? Quando parliamo di ESERCIZIO ABITUALE, come ci dobbiamo regolare?
E’ chiaro per le società di capitali, abbiamo visto come si costituiscono, e abbiamo visto che per interpretazione storica si considerano imprenditori senza che abbiano ancora esercitato, appena costituite. Ma le società di persone? Cioè le:
 società semplici (ricordiamoci che le società semplici possono avere solo attività agricole, e solo queste, se hanno attività commerciale sono considerate snc)
 società in nome collettivo
 società in accomandita semplice (che hanno due tipi di soci, quelli che non amministrano, e non rispondono, e quelli che amministrano e rispondono)
Quando nascono queste snc? L’interpretazione storica ci dice che nascono anche senza esercizio abituale, e va bene, ma quando, se non c’è l’atto costitutivo? E potrebbe non esserci, perché esistono le snc irregolari.
Le società in nome collettivo si costituiscono infatti anche TACITAMENTE, non c’è una norma che impone una forma, non impone un atto pubblico, basta una stretta di mano. L’atto pubblico serve solo se ci sono conferimenti di immobili nel patrimonio. E’ importante stabilire se esiste una società, se esiste un imprenditore, perché questo può fallire, nel senso che è sottoposto alla procedura fallimentare, anche se sei un società di fatto. Ma questa quando nasce, quando diventa società e imprenditore?
La giurisprudenza ha valutato e valuta di volta in volta, in particolare sulla frequenza dell’esercizio dell’attività. Può configurarsi infatti la società occasionale, ma se l’attività si ripete due, tre volte, la giurisprudenza ha poi optato per la società di fatto.
Anche le società di persone vanno in realtà iscritte nel Registro delle Imprese, ma l’iscrizione non è necessaria ai fini della costituzione, come lo è per le società di capitali. Serve più per il riconoscimento della rappresentanza. Nascono infatti molte snc di fatto. Mentre abbiamo visto che le società di capitali possono avere un socio unico, le società di persone devono essere almeno DUE. E può esserci il contratto TACITO.
Se svolge una attività diretta al mercato. Se l’attività è esercitata continuativamente (e potrebbe bastare due volte) e professionalmente, e cioè abitualmente (si pensi agli avvocati, iscritti all’albo ma che non esercitano). La professionalità si concretizza infatti quando c’è un minimo di abitualità, in generale facendo tre volte la stessa attività (ad esempio organizzando una gita in montagna per gli studenti) si diventa soggetti alla disciplina d’impresa. Se esaminiamo ancora l’art. 2082 serve per questo anche che ci sia la produzione o lo scambio di beni e servizi, che si sia quindi orientati al mercato. Quando si dice O lo scambio, si deve invece intendere PER LO scambio, perché mentre le società commerciali che svolgono attività di vendita fanno uno scambio DIRETTO, le società di produzione vediamo che anch’esse poi scambiano, vendono, anche se magari è un’attività indiretta, mediata, perché, se così non fosse letto, un industriale che PRODUCE MA NON VENDE non sarebbe un imprenditore ai sensi dell’art. 2082.
Per capire meglio facciamo l’esempio di un’attività svolta non per lo scambio. Dopo la seconda guerra mondiale le città si sono popolate, sono arrivati gli emigranti dalle campagne, ma dove andavano ad abitare? Certo non nei palazzi di città. Si costruivano quindi delle casette, facevano una attività di costruzione, ma non per questo diventavano imprenditori, quindi non erano sottoposti in caso alla procedura di fallimento, che prevede la vendita dei beni, del patrimonio, per ripagare i fornitori. Non erano imprenditori perché producevano PER SE’ STESSI, non per lo scambio.
Ma torniamo alla parola ORGANIZZATA, dell’art. 2082. Come abbiamo detto all’imprenditore serve un minimo di organizzazione, per essere qualificato tale, e per organizzazione intendiamo un minimo di struttura per quanto riguarda:
 decisioni
 controllo
 competenze
Le società di capitali hanno ormai norme inderogabili per la loro struttura organizzativa, hanno degli organi, anche se questo termine non è ormai più esatto. Il termine ORGANI è riportato nel codice civile ed è usatissimo ancora oggi, ma con la riforma del diritto societario del 2003 c’è stata una grande novità. Il termine ha fonte antropomorfica, è collegato al rapporto tra corpo umano e i suoi organi, che hanno una funzione strettamente connessa al benessere e alla vita del corpo. E’ stato identificato il corpo con la società, con i soci, e gli organi con le funzioni (amm.iva, di controllo etc.). Abbiamo detto che le società di capitali sono strutturate per legge, per le diverse competenze. E la legge per loro prevede l’ASSEMBLEA, quindi un metodo corporativo e collegiale per prendere certe decisioni. Prima l’assemblea aveva competenza piena e sovrana (come il corpo umano rispetto agli organi), poi nell’800 sono nati appunto i primi organi, che si sono man mano staccati dal “corpo”, dai soci.
Gli amministratori non sono più dei mandatari dei soci. L’ASSEMBLEA ha sempre certo delle grandi competenze, ha potere decisionale di vita e di morte della società, ma non ha TUTTE le competenze. I soci non danno istruzioni agli amministratori. La proprietà e il controllo, la gestione si sono via via staccati sempre di più. Gli amministratori hanno competenze e responsabilità inderogabili, e ne rispondono, già dal 1942. Non possono rimandare ai soci, i quali non sono più organo sovrano. Soprattutto sulla gestione, i soci non hanno più grande potere, anche se hanno messo i capitali. Amministratori e soci, che a volte possono comunque coincidere, possono anche essere in contrapposizione.
Nelle società di persone, ad esempio nelle snc, per tradizione i soci sono anche amministratori, non si possono nominare amministratori non soci, mentre abbiamo visto nelle società di capitali soci e amministratori possono essere distinti. I soci possono poi diversi le competenze amministrative, e ognuno è poi autonomo nelle proprie competenze, gli altri possono fargli opposizione, in caso, ma solo prima del compimento dell’atto. Anche nelle società di persone è quindi richiesto un minimo di organizzazione, e tramite il contratto sociale si definisce l’organizzazione delle competenze. Questo per le società. Ma ci sono anche gli imprenditori individuali, che svolgono attività d’impresa, e anche questi hanno come requisito un minimo di organizzazione.
Altro punto importante è la ESTERIORIZZAZIONE. L’esercizio delle attività deve APPARIRE ALL’ESTERNO, deve avere una manifestazione esterna, l’esercizio deve essere esteriorizzato. Per l’imprenditore è necessario esteriorizzare.
Capita fin troppo di frequente però che l’imprenditore, la persona fisica, faccia MOSTRARE, APPARIRE, un altro al suo posto (ad esempio il proprio autista), per salvarsi dalle conseguenze. A seguito di questi episodi sono nate diverse teorie, tra le quali quella di Walter Bigiavi, sulla responsabilità dell’IMPRENDITORE OCCULTO.
Walter Bigiavi, un grande giurista del secolo scorso,i non fu solo maestro del diritto commerciale italiano (oltre che avvocato acuto) ma anche uno straordinario spirito libero, amante della verità portata all'estremo (qualche volta rasentava persino l'offesa) e sempre venata di pregnante umorismo. Uno spirito caustico e una intelligenza onnivora che non si è mai piegata a logiche accademiche di convenienza e opportunità.
L’imprenditore occulto è colui che mette i capitali, prende gli utili, ma usa un prestanome per le attività esteriorizzate, fa gestire ad altri, e quindi non subisce conseguenze.
Questa teoria aveva bisogno di un aggancio normativo, e fu ritrovato con un articolo relativo agli institori, l’Art. 2208 c.c.
Art. 2208 – Responsabilità personale dell’institore – L’institore è personalmente obbligato se omette di far conoscere al terzo che egli tratta per il preponente: tuttavia il terzo può agire anche contro il preponente per gli atti compiuti dall’institore, che siano pertinenti all’esercizio dell’impresa a cui è preposto.
L’institore è disciplinato dagli artt. 2203 e ss., ed è definito colui che è preposto dal titolare all’esercizio di una impresa commerciale. Rappresenta l’imprenditore, ed è preposto all’esercizio. Al di là dei poteri di rappresentanza conferiti dall’imprenditore, l’institore lo rappresenta per tutto, PER LEGGE. La legge quindi prevede che lui agisca in rappresentanza generale dell’imprenditore, salvo la vendita e l’ipoteca di beni immobili. Paradossalmente può invece vendere beni mobili, quindi volendo anche delle azioni. Potere totale ex lege, dunque, ma senza assumere in proprio delle obbligazioni, che nascono in capo al preponente, non al preposto. Se leggiamo però l’articolo 2208, vediamo che esiste una forma di responsabilità, perché l’institore risulta essere obbligato SE NON DICE al terzo che sta operando per un altro.
Quindi dei comportamenti ambigui, l’omissione di far conoscere, negli atti, che si sta operando a nome di un altro, fa diventare responsabile l’institore, il rappresentante. E’ una norma di carattere eccezionale, perché in generale il rappresentante non risponde MAI, e se osserviamo la seconda parte, vediamo che il terzo può coinvolgere nella responsabilità anche il preponente, quindi il cosiddetto “imprenditore occulto”.
Bigiavi ha fatto di questa norma il fondamento giuridico della sua teoria dell’imprenditore occulto, e tramite questo articolo attribuisce responsabilità anche a chi sta dietro a chi esercita l’attività. Tra l’altro riconosce alla norma una portata generale, cosa che ha portato la dottrina a contestare l’intera sua teoria, e alla quale più di un giurista successivo si è opposto. Anche la giurisprudenza in realtà non ha seguito la teoria la Bigiavi, quindi non ha riconosciuto responsabilità all’imprenditore occulto legandolo all’art. 2208.
E’ stato invece in vari casi considerato MANDANTE, e gli è stata attribuita una responsabilità extra-contrattuale, basandosi sulle ISTRUZIONI che lui risultava aver dato. La Giurisprudenza ha preferito anche individuare una SOCIETA’ DI FATTO, tra l’autista, per riprendere l’esempio di prima, e l’imprenditore, per poter riconoscere una responsabilità all’imprenditore “occulto”. Una società sicuramente NON VOLUTA, ma che prende vita, viene fatta nascere, un po’ forzatamente, dalla giurisprudenza, che la fa nascere appunto DI FATTO, dai fatti, non dalla volontà delle persone coinvolte, in quanto è ovvio che l’imprenditore occulto non voleva fare una società, voleva restare estraneo, ma avendo attuato comportamenti, fatti, in quel senso, la giurisprudenza sentenzia la nascita di una società (art. 2247 c.c.).
Fatto salvo il PATTO LEONINO, si dà quindi per scontato che l’attività sia svolta PER ENTRAMBI.
Si denomina patto leonino anche nelle epigrafi del codice civile (art. 2265 c.c.), il principio in base al quale è nullo il patto con cui uno o più soci delle società di persone sono esclusi dalla partecipazione degli utili o delle perdite. La denominazione deriva dalla celebre favola di Fedro, a sua volta derivata da quella di Esopo, diventata di valore proverbiale, ed è l'applicazione di una fondamentale regola di diritto riassunta nel brocardo cuius commoda, eius et incommoda. Nel mondo del diritto stride eccessivamente una situazione giuridica in cui al soggetto che percepisca i benefici, non si assuma anche gli aspetti negativi.
Art. 2265 – Patto Leonino – E’ nullo il patto con il quale uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazione agli utili o alle perdite.
Nasce come dicevamo una società, in nome collettivo, di fatto, quindi IRREGOLARE, basata sul PRINCIPIO DELL’APPARENZA, principio di portata generale del nostro ordinamento che si ritrova nel c.c. (l’imprenditore “apparente”) e consolidatosi in giurisprudenza, per la tutela dei terzi.
Nata l’snc, nasce di conseguenza un imprenditore commerciale, ai quali è quindi applicabile la disciplina del fallimento, che contiene da sempre una regola sancita dall’art. 147.
Regio decreto 16 marzo 1942 n. 267
Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata
e della liquidazione coatta amministrativa
Art. 147 -(Società con soci a responsabilità illimitata) La sentenza che dichiara il fallimento della società con soci a responsabilità illimitata produce anche il fallimento dei soci illimitatamente responsabili .
Se dopo la dichiarazione di fallimento della società risulta l'esistenza di altri soci illimitatamente responsabili il tribunale, su domanda del curatore o d'ufficio, dichiara il fallimento dei medesimi, dopo averli sentiti in camera di consiglio . Le disposizioni di questo articolo non si applicano alle società cooperative.
L’articolo sancisce il fatto che se nelle società di persone, a responsabilità illimitata di TUTTI I SOCI, viene dichiarato il fallimento, questo è DEI SOCI, non della società, non si può evitare il fallimento individuale.
Quindi per tornare all’esempio di prima, se la giurisprudenza individua l’autista e l’imprenditore nascosto come società di persone, li fa fallire entrambi, individualmente. Un tipico caso è anche quello del marito che finanzia e gestisce una attività facendo fare da prestanome alla moglie.
Nel caso in cui però non si riesca a dimostrare l’apparenza, ad applicare il principio dell’apparenza, non si può coinvolgere l’imprenditore nascono. La giurisprudenza ha trovato una soluzione a questo, che è stata recepita dalla riforma della Legge Fallimentare. Se fallisce il prestanome, il curatore andrà naturalmente a guardare tutti i documenti, compresi quelli bancari, i movimenti di conto corrente, di denaro, trovando quindi per altre vie l’imprenditore/finanziatore “occulto”, che non voleva correre il rischio d’impresa.
Di conseguenza il fallimento individuale del prestanome viene TRASFORMATO, in corso di procedura, in fallimento SOCIETARIO, essendo stato individuato il socio occulto. Si trasforma, non nasce un nuovo fallimento, ed è stato voluto così per non perdere tutta l’attività della procedura già avviata, tutte le condizioni e i termini già stabiliti dal curatore.
A questo punto il fallimento è di tutti i soci, compreso quello che non avrebbe voluto apparire.
L’esteriorizzazione quindi non è necessaria ad identificarlo e per individuare la società, che nasce anche in caso di fallimento e se non è esteriorizzata, se è occulta.
Se è apparente, evidente, non ci sono problemi, ma anche se è occulta viene trovata e identificata dalla giurisprudenza, tanto che la riforma ne ha sancito le modalità.

Lezione 21/11/2008 – Maugeri
Per riassumere, abbiamo affrontato il concetto di interesse sociale, il concetto di società e il collegamento con il concetto di impresa che, tra l’altro, si desume dall’art. 2 della legge delega per la riforma del diritto societario (L. 366 del 2001) che fissa il criterio direttivo per il riordino della disciplina.
Art. 2. – L. 366/2001
(Princìpi generali in materiadi società di capitali)
1. La riforma del sistema delle società di capitali di cui ai capi V, VI, VII, VIII e IX del titolo V del libro V del codice civile e alla normativa connessa, è ispirata ai seguenti princìpi generali:
a) perseguire l’obiettivo prioritario di favorire la nascita, la crescita e la competitività delle imprese, anche attraverso il loro accesso ai mercati interni e internazionali dei capitali;
b) valorizzare il carattere imprenditoriale delle società e definire con chiarezza e precisione i compiti e le responsabilità degli organi sociali;
c) semplificare la disciplina delle società, tenendo conto delle esigenze delle imprese e del mercato concorrenziale;
d) ampliare gli ambiti dell’autonomia statutaria, tenendo conto delle esigenze di tutela dei diversi interessi coinvolti;
e) adeguare la disciplina dei modelli societari alle esigenze delle imprese, anche in considerazione della composizione sociale e delle modalità di finanziamento, escludendo comunque l’introduzione di vincoli automatici in ordine all’adozione di uno specifico modello societario;
f) nel rispetto dei princìpi di libertà di iniziativa economica e di libera scelta delle forme organizzative dell’impresa, prevedere due modelli societari riferiti l’uno alla società a responsabilità limitata e l’altro alla società per azioni, ivi compresa la variante della società in accomandita per azioni, alla quale saranno applicabili, in quanto compatibili, le disposizioni in materia di società per azioni;
g) disciplinare forme partecipative di società in differenti tipi associativi, tenendo conto delle esigenze di tutela dei soci, dei creditori sociali e dei terzi;
h) disciplinare i gruppi di società secondo princìpi di trasparenza e di contemperamento degli interessi coinvolti.
…. l’obiettivo prioritario di favorire la nascita, la crescita e la competitività delle imprese … ecco il collegamento tra società e impresa.
Poi abbiamo visto i caratteri qualificanti delle società di capitali rispetto alle società di persone: la limitazione di responsabilità e la personalità giuridica (riferimento NORMATIVO fissato da legislatore, che può essere diverso quindi da stato a stato), ma soprattutto e principalmente la DISCIPLINA DELAL PRODUZIONE DELL’AZIONE, ecco il carattere distintivo tra le due società:
• soc. persone – identità tra persona fisica e gestore
• soc. capitali – mediazione dell’organo tra capitale e gestione
Tornando all’INTERESSE SOCIALE, abbiamo visto che ci sono due teorie per qualificarlo:
 TEORIA CONTRATTUALISTICA – tenere conto dell’interesse dei soci.
 TEORIA ISTITUZIONALISTICA – tenere conto dell’interesse dell’impresa in sé e allargare gli interessi rilevanti oltre quelli dei soci, prende in considerazione gli interessi dei dipendenti, dei creditori sociali, l’interesse pubblico, generale, della generalità del sistema economico.
Le due teorie hanno però delle articolazioni in comune. La prima è una impostazione storicamente superata, la seconda è invece molto attuale, recepita anche dall’ordinamento tedesco che addirittura prevede la presenza nel Consiglio di Sorveglianza, che nomina il Consiglio di Gestione, di membri rappresentanti dei dipendenti, e dall’ordinamento inglese, tanto che nel Companies Act del 2006, la legge che disciplina le società di capitali nel Regno Unito, vi è una norma che chiama i DIRECTORS, gli amministratori, a gestire la società nell’interesse “dei soci e dei dipendenti”.
Alberto Asquini, uno dei padri del Libro V del Codice civile del 1942, mostra una grande apertura verso l’istituzionalismo dicendo che l’impresa va gestita per l’interesse sociale inteso come interesse dei soci attuali E FUTURI, quindi per soci non ancora individuati, per soggetti che potenzialmente potrebbero essere e diventare soci, quindi la parola futuri giustifica scelte non prettamente a favore dei soci attuali, indicate come scelte per soci futuri. La teoria contrattualistica avrebbe legato invece l’interesse solo ai SOCI ATTUALI.
Ma attribuiamo altri significati, riempiamo di contenuto le varie articolazioni delle due teorie. La teoria contrattualistica ad un primo approccio potrebbe identificarsi il massimo lucro, profitto, il maggior utile possibile, la DISTRIBUZIONE DELL’UTILE quindi. Questa è una qualificazione unitaria dell’interesse sociale in senso contrattualistico, ma l’interesse sociale inteso per i soci potrebbe avere altri aspetti. Una concezione più recente infatti, detta PLURALISTICA, non vede un solo interesse sociale, ma UNA PLURALITA’ DI INTERESSI, sempre inerenti alla partecipazione sociale. Tesi sostenuta da molti studiosi, porta altri esempi di interessi dei soci, come il MANTENIMENTO DELLA QUOTA, o LA NOMINA DI AMMINISTRATORE.
Bisogna tener presente che ogni volta che nasce e si diffonde una nuova impostazione, una nuova interpretazione, questa va poi a impattare sulla applicazione del diritto positivo.
Vediamo ad esempio l’art. 2441 c.c., quinto comma, sul diritto di opzione, che è escluso “quando l’interesse della società lo esige”, quindi l’interesse sociale. Ma quale? Inteso come, questo interesse sociale? Facciamo un esempio. Un Consiglio d’amministrazione approva l’acquisizione di nuove risorse finanziarie, per SVILUPPARE l’impresa (abbracciando un tesi istituzionalistica) e perché così la società produce più reddito (teoria contrattualistica).
L’art. 2441 al quinto comma fornisce lo strumento per negare il diritto di opzione, tendendo a conservare e mantenere inalterata la partecipazione al capitale, e il CdA potrà prendere in considerazione l’interesse sociale nei due sensi indicati, per decidere.
Oppure vediamo l’art. 2373, sul conflitto d’interessi. Si può impugnare la delibera se c’è conflitto di interessi. Se ad esempio con voto unanime dei soci è stato deliberato l’acquisto di un immobile da uno dei soci ad un prezzo superiore a quello di mercato, questa delibera si può annullare ai sensi dell’art. 2377 (Annullabilità)?
Secondo la teoria istituzionalistica SI’, la delibera va impugnata perché reca danno economico agli altri soci.
Secondo la teoria contrattualistica NO, perché dovendo tutelare solo l’interesse dei soci ATTUALI, e questi hanno votato tutti a favore, non si può impugnare, hanno deciso loro, nel loro interesse.
Ecco la dimostrazione che aderire ad una teoria piuttosto che ad un'altra cambia molto le cose.
In un caso simile, nel 1958 la Cassazione in realtà sostenne che i soci dovessero impugnare la delibera, seguendo una linea istituzionalistica, e bisogna dire che in generale i giudici propendono per questa teoria.
Ricordiamoci che i riferimenti sono solo e sempre i DATI NORMATIVI, quindi le due teorie vanno usate per interpretare, in un senso o nell’altro, delle NORME. La risposta va cercata sempre nel diritto positivo, si deve fare riferimento sempre e solo a NORME.
Torniamo all’art. 2441, dove troviamo nell’ultimo comma una traccia istituzionalistica. Viene facilitato l’accesso dei dipendenti alla proprietà azionaria, ma ricordiamoci che i soci NON SONO però OBBLIGATI a riservare ai dipendenti una parte delle azioni. Possono, se vogliono, quindi alla base c’è sempre l’interesse dei soci. Questo aspetto istituzionali stico, l’apertura ai dipendenti, non è imposto, sono i soci a decidere, nel LORO interesse.
Guardiamo ora l’art. 2409 c.c., Denunzia al tribunale,i soci che abbiano un fondato sospetto, possono denunziare gli amministrazioni che abbiano violato il loro dovere e compiuto gravi irregolarità nella gestione. Se andiamo a vedere l’ultimo comma vediamo che questo potere di denunzia è esteso anche al PUBBLICO MINISTERO, abbracciando la teoria istituzionalistica il legislatore ha ritenuto dare spazio all’interesse pubblico, tutelato appunto dal P.M., ritenendo quindi che ci fosse un interesse pubblico alla corretta gestione di una società.
Come abbiamo visto per le società quotate l’art. 103 del TUF, comma 3-bis, prevede che nel caso di società soggetta a OPA, cosiddetta società target, gli amministratori debbano predisporre una comunicazione che indichi gli effetti, le conseguenze, e la convenienza all’operazione per l’impresa, ma anche relativamente ad altri interessi (occupazione, localizzazione etc.). Ma anche qui non c’è un OBBLIGO, non si impone di tutelare, ma solo di INFORMARE, la tutela è puramente INFORMATIVA.
Ecco quindi un’altra traccia di teoria istituzionalistica, che ritroviamo in molte altre norme. Ma alla fine la tesi preferibile quale potrebbe essere? Dipende dal genere di società, se aperta o chiusa.
SOCIETA’ APERTE – che fanno ricorso al capitale di rischio, e possono anzi devono sposare la teoria istituzionalistica.
Il capitale di rischio è quel capitale immesso nella società dai fondatori a fronte dell’acquisizione di una partecipazione (azione o quota) nella stessa. Questa forma di finanziamento trova la sua manifestazione nel capitale sociale e presenta due caratteristiche:
• è di rischio perché finanzia il rischio imprenditoriale, nel senso che non deve essere restituita se non con dei dividendi quando si formeranno eventuali utili o quando la società verrà messa in liquidazione;
• è una forma di finanziamento a carattere non oneroso, in quanto ai soci non devono essere riconosciuti gli oneri finanziari che si pagano normalmente agli istituti di credito.
SOCIETA’ CHIUSE – non ricorrono al capitale di rischio, l’interesse sociale si identifica con quello proprio dei soci, è l’interesse inteso in senso contrattualistico, legato profondamente ai soci.

Vediamo ora l’interesse sociale in una ulteriore distinzione, a seconda di come è vissuto dagli organi ASSEMBLEA E CDA, e questo vale sia per le società aperte che per le società chiuse.
 Per l’ASSEMBLEA l’interesse sociale è un limite INTERNO all’attività deliberativa. I soci devono concretizzare l’obiettivo dell’interesse sociale, ma sta a loro decidere quale sia, sta a loro stabilirlo, lo devono identificare, fatto salvo l’unico limite che hanno nell’identificarlo, sancito nell’art. 2373 c.c., il conflitto d’interessi, che si concretizza in un DIVIETO DI PERSEGUIRE UN INTERESSE EXTRASOCIALE. Per identificare l’interesse sociale l’assemblea segue quindi una linea contrattualistica.
 Per il CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE l’interesse sociale è invece un OBBLIGO. Gli amministratore devono seguire l’interesse così come determinato dai soci, per loro è quindi un dato ESTERNO.

Anche alle società aperte spetta ai soci stabilire il contenuto dell’interesse sociale, quindi si può parlare di concezione istituzionalistica solo per quanto riguarda il CDA, non per l’ASSEMBLEA, per la quale invece si sposa la teoria contrattualistica, e si dà ai soci il potere di disporre dell’interesse sociale, fino al potere di deliberare lo scioglimento volontario, la messa in liquidazione della società. Se anche l’assemblea seguisse la teoria istituzionalistica, i soci non sarebbero liberi di sciogliere la società quando vogliono.

Per riassumere un concetto base: la distinzione tra società di persone e società di capitali non è nettamente possibile farla basandosi sul CONTRATTO o sulla SOGGETTIVITA’ GIURIDICA, ma è possibile farla esaminando la DISCIPLINA DI PRODUZIONE DELL’AZIONE, cioè il modo in cui si producono le regole, e le DIVERSE MODALITA’ E TECNICHE DI FINANZIAMENTO DELL’IMPRESA.
Società di persone – il finanziamento si attua con il RISPARMIO NOMINALE, cioè con il conferimento da parte di soggetti BEN IDENTIFICATI, e la partecipazione sociale non è liberamente trasferibile, ci deve essere CERTEZZA nella definizione dei soci, in quanto sono coinvolti nella GESTIONE. Sono aspetti peculiari:
• Coincidenza tra amministratori e soci
• Consenso unanime dei soci per alcune decisioni
Società di capitali – le società per azioni, in particolare, costituiscono una tecnica di finanziamento attuata con il RISPARMIO DIFFUSO, e la partecipazione è liberamente trasferibile, le azioni sono cedibili, e vedendo gli aspetti peculiari è evidente che possono essere separate le funzioni di amministrazione e di sopportazione del rischio, cioè chi gestisce la società, gli amministratori, non coincide necessariamente con chi sopporta il rischio, cioè gli azionisti:
• Non coincidenza necessaria tra amministratori e soci
• Regole di produzione dell’azione tramite ORGANI

Con la riforma del diritto societario del 2003 si è creata una frattura tra le due tipiche forme di società di capitali, la SOCIETA’ A RESPONSABILITA’ LIMITATA (S.R.L.) e la SOCIETA’ PER AZIONI (S.P.A.), e ha assunto una posizione molto particolare la SRL, esaminiamola nel dettaglio.

La società a responsabilità limitata – Innanzitutto inquadriamola sul piano storico, e vediamo subito una differenza fondamentale con la società per azioni. La SPA è una creazione del mondo imprenditoriale, del mercante (Compagnia di San Giorgio – Compagnia delle Indie) che come abbiamo visto dà vita alla distinzione tra partecipanti, alla contrapposizione, ormai storica, tra soci imprenditori e soci investitori. L’origine storica si riflette ancora oggi sulla disciplina, se si pensa alle AZIONI DI RISPARMIO di oggi, che sono prive di diritto di voto, ma che hanno privilegio patrimoniale, quindi gli azionisti sono investitori ma non imprenditori.
La SRL è invece un prodotto di laboratorio, artificiale, legislativo, creato dal legislatore. Storicamente nasce a metà dell’800, e fino a quel momento l’unico tipo societario era appunto la SPA, che era agevole da costituire, su richiesta veniva rilasciato un PROVVEDIMENTO CONCESSORIO dalla pubblica amministrazione, e veniva utilizzata normalmente per le grandi iniziative, per le quali serviva una raccolta di capitale, fatta raccogliendo il risparmio, in maniera anonima. Per esempio per la costruzione delle ferrovie in America, venne usato questo sistema, nacque una CORPORATION sostenuta con il risparmio diffuso.
Purtroppo venne poi fatto un uso distorto, fraudolento, della raccolta del risparmio. Venne poste in atto molte truffe, furono raccolti fondi per società e attività che non videro mai la luce. Visto quindi l’uso illegale e la facilità con cui venivano poste in essere società truffaldine, si cercò una soluzione NORMATIVA. In realtà succede sempre così, anche oggi, se vediamo il caso Parmalat, subito dopo venne emanata la L. 262 per la tutela del risparmio.
Vennero quindi emanate delle NORME INDEROGABILI, che ponevano limiti alla autonomia privata. La SPA, che era nata libera, essendo stata male utilizzata, viene quindi disciplinata RIGOROSAMENTE, si assiste ad un inasprimento delle regole per costituire e gestire una SPA. Dal sistema concessorio si passa a un sistema di CONDIZIONI NORMATIVE per la costituzione della società per azioni, solo quindi se il contratto rispondeva a particolari e rigorosi requisiti relativi al capitale sociale e alla organizzazione corporativa, veniva rilasciata l’autorizzazione alla costituzione.
A questo punto però, per esigenze pratiche delle piccole e medie imprese, serviva uno strumento societario più flessibile. Per le società che per dimensioni non potevano avere i requisiti necessari alla SPA fu necessario ovviare all’eccessivo rigore normativo delle società per azioni. Nasce quindi in Germania la SRL, la società a responsabilità limitata denominata
Gesellschaft mit beschränkter Haftung o GmbH
che si poneva accanto alla AG l'AG (Aktiengesellschaft) la società per azioni.
Era una società di capitali a struttura personalistica, con grande rilevanza della persona del SOCIO e si colloca in una posizione intermedia tra la società di persone e la società di capitali.
Altri ordinamenti produssero altre definizioni, anche dopo la riforma del 2003, come ad esempio “società di persone assistite dal beneficio della responsabilità limitata”.
L’Italia per la sua disciplina si ispira al modello tedesco, ma solo più avanti. Nel Codice di Commercio del 1882 compare disciplinata solo la società anonima, quindi ancora solo un tipo, poi nel 1924 Tullio Ascarelli si laurea con una tesi sulla Gmbh, che viene pubblicata sulla rivista di diritto commerciale, e che diventa la base per l’introduzione della srl nel nostro codice civile del 1942.
Quando nacque, però, ebbe e si portò dietro un difetto genetico, perché il legislatore del ’42 accentuò molto l’aspetto della personalità giuridica, e usò tantissimi richiami e rimandi alla disciplina della società per azioni, mentre invece in Germania i due tipi di società avevano discipline separate, ognuna aveva regole proprie, leggi diverse. La conseguenza di questi richiami fu che la Giurisprudenza, dal 1942 al 2002/2003, cioè fino alla riforma, applicò e interpretò le norme della srl come NORME INDEROGABILI PER L’AUTONOMIA PRIVATA, come è per le spa, quando invece la soluzione normativa era nata proprio per semplificare, per ovviare alla rigidità che ‘cera per le SPA. Solo molto più tardi si arrivò ad una soluzione, con la legge delega del 2001 e il
Decreto Legislativo 17 gennaio 2003, n. 6
"Riforma organica della disciplina delle societa' di capitali e societa' cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366"

La legge delega n. 366 del 2001, all’art. 2 contiene come abbiamo visto i CRITERI DIRETTIVI per la riforma. In particolare la lettera e) cita:
e) adeguare la disciplina dei modelli societari alle esigenze delle imprese, anche in considerazione della composizione sociale e delle modalità di finanziamento, escludendo comunque l’introduzione di vincoli automatici in ordine all’adozione di uno specifico modello societario
L’art. 3 della stessa legge indica poi i criteri particolari per la SRL.
Art. 3.
(Società a responsabilità limitata)
1. La riforma della disciplina della società a responsabilità limitata è ispirata ai seguenti princìpi generali:
a) prevedere un autonomo ed organico complesso di norme, anche suppletive, modellato sul principio della rilevanza centrale del socio e dei rapporti contrattuali tra i soci;
b) prevedere un’ampia autonomia statutaria;
c) prevedere la libertà di forme organizzative, nel rispetto del principio di certezza nei rapporti con i terzi.

2. In particolare, la riforma è ispirata ai seguenti princìpi e criteri direttivi:
a) semplificare il procedimento di costituzione, confermando in materia di omologazione i princìpi di cui all’articolo 32 della legge 24 novembre 2000, n. 340, nonché eliminando gli adempimenti non necessari, nel rispetto del principio di certezza nei rapporti con i terzi e di tutela dei creditori sociali precisando altresì le modalità del controllo notarile in relazione alle modifiche dell’atto costitutivo;
b) individuare le indicazioni obbligatorie dell’atto costitutivo e determinare la misura minima del capitale in coerenza con la funzione economica del modello;
c) dettare una disciplina dei conferimenti tale da consentire l’acquisizione di ogni elemento utile per il proficuo svolgimento dell’impresa sociale, a condizione che sia garantita l’effettiva formazione del capitale sociale; consentire ai soci di regolare l’incidenza delle rispettive partecipazioni sociali sulla base di scelte contrattuali;
d) semplificare le procedure di valutazione dei conferimenti in natura nel rispetto del principio di certezza del valore a tutela dei terzi;
e) riconoscere ampia autonomia statutaria riguardo alle strutture organizzative, ai procedimenti decisionali della società e agli strumenti di tutela degli interessi dei soci, con particolare riferimento alle azioni di responsabilità;
f) ampliare l’autonomia statutaria con riferimento alla disciplina del contenuto e del trasferimento della partecipazione sociale, nonché del recesso, salvaguardando in ogni caso il principio di tutela dell’integrità del capitale sociale e gli interessi dei creditori sociali; prevedere, comunque, la nullità delle clausole di intrasferibilità non collegate alla possibilità di esercizio del recesso;
g) disciplinare condizioni e limiti per l’emissione e il collocamento di titoli di debito presso operatori qualificati, prevedendo il divieto di appello diretto al pubblico risparmio, restando esclusa in ogni caso la sollecitazione all’investimento in quote di capitale;
h) stabilire i limiti oltre i quali è obbligatorio un controllo legale dei conti;
i) prevedere norme inderogabili in materia di formazione e conservazione del capitale sociale, nonché in materia di liquidazione che siano idonee a tutelare i creditori sociali consentendo, nel contempo, una semplificazione delle procedure.

Parla di AUTONOMO E ORGANICO complesso di norme, anche SUPPLETIVE, dà rilevanza alla centralità del socio e ai rapporti contrattuali dei soci, oltre a prevedere l’obbligo di delineare una AUTONOMIA STATUTARIA per i soci.
L’art. 4 indica i principi per le società per azioni.
Art. 4.
(Società per azioni)
1. La disciplina della società per azioni è modellata sui princìpi della rilevanza centrale dell’azione, della circolazione della partecipazione sociale e della possibilità di ricorso al mercato del capitale di rischio. Essa, garantendo comunque un equilibrio nella tutela degli interessi dei soci, dei creditori, degli investitori, dei risparmiatori e dei terzi, prevederà un modello di base unitario e le ipotesi nelle quali le società saranno soggette a regole caratterizzate da un maggiore grado di imperatività in considerazione del ricorso al mercato del capitale di rischio.
2. Per i fini di cui al comma 1 si prevederà:
a) un ampliamento dell’autonomia statutaria, individuando peraltro limiti e condizioni in presenza dei quali sono applicabili a società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio norme inderogabili dirette almeno a:
1) distinguere il controllo sull’amministrazione dal controllo contabile affidato ad un revisore esterno;
2) consentire l’azione sociale di responsabilità da parte di una minoranza dei soci, rappresentativa di una quota congrua del capitale sociale idonea al fine di evitare l’insorgenza di una eccessiva conflittualità tra i soci;
3) fissare congrui quorum per le assemblee straordinarie a tutela della minoranza;
4) prevedere la denunzia al tribunale, da parte dei sindaci o, nei casi di cui al comma 8, lettera d), numeri 2) e 3), dei componenti di altro organo di controllo, di gravi irregolarità nell’adempimento dei doveri degli amministratori;
b) un assetto organizzativo idoneo a promuovere l’efficienza e la correttezza della gestione dell’impresa sociale;
c) la determinazione dei limiti, dell’oggetto e dei tempi del giudizio di omologazione, confermando i princìpi di cui all’articolo 32 della legge 24 novembre 2000, n. 340;
d) che nell’atto costitutivo non sia richiesta l’indicazione della durata della società;
e) che sia consentita la costituzione della società da parte di un unico socio, prevedendo adeguate garanzie per i creditori.
3. In particolare, riguardo alla disciplina della costituzione, la riforma è diretta a:
a) semplificare il procedimento di costituzione, nel rispetto del principio di certezza e di tutela dei terzi, indicando il contenuto minimo obbligatorio dell’atto costitutivo;
b) limitare la rilevanza dei vizi della fase costitutiva.
4. Riguardo alla disciplina del capitale, la riforma è diretta a:
a) aumentare la misura del capitale minimo in coerenza con le caratteristiche del modello;
b) consentire che la società costituisca patrimoni dedicati ad uno specifico affare, determinandone condizioni, limiti e modalità di rendicontazione, con la possibilità di emettere strumenti finanziari di partecipazione ad esso; prevedere adeguate forme di pubblicità; disciplinare il regime di responsabilità per le obbligazioni riguardanti detti patrimoni e la relativa insolvenza.
5. Riguardo alla disciplina dei conferimenti, la riforma è diretta a:
a) dettare una disciplina dei conferimenti tale da consentire l’acquisizione di ogni elemento utile per il proficuo svolgimento dell’impresa sociale, a condizione che sia garantita l’effettiva formazione del capitale sociale; consentire ai soci di regolare l’incidenza delle rispettive partecipazioni sociali sulla base di scelte contrattuali;
b) semplificare le procedure di valutazione dei conferimenti in natura, nel rispetto del principio di certezza del valore a tutela dei terzi.
6. Riguardo alla disciplina delle azioni e delle obbligazioni, la riforma è diretta a:
a) prevedere la possibilità di emettere azioni senza indicazione del valore nominale, determinandone la disciplina conseguente;
b) adeguare la disciplina della emissione e della circolazione delle azioni alla legislazione speciale e alle previsioni relative alla dematerializzazione degli strumenti finanziari;
c) prevedere, al fine di agevolare il ricorso al mercato dei capitali e salve in ogni caso le riserve di attività previste dalle leggi vigenti, la possibilità, i limiti e le condizioni di emissione di strumenti finanziari non partecipativi e partecipativi dotati di diversi diritti patrimoniali e amministrativi;
d) modificare la disciplina relativa alla emissione di obbligazioni, attenuandone o rimuovendone i limiti e consentendo all’autonomia statutaria di determinare l’organo competente e le relative procedure deliberative.
7. Riguardo alla disciplina dell’assemblea e dei patti parasociali, la riforma è diretta a:
a) semplificare, anche con adeguato spazio all’autonomia statutaria, il procedimento assembleare anche relativamente alle forme di pubblicità e di controllo, agli adempimenti per la partecipazione, alle modalità di discussione e di voto;
b) disciplinare i vizi delle deliberazioni in modo da contemperare le esigenze di tutela dei soci e quelle di funzionalità e certezza dell’attività sociale, individuando le ipotesi di invalidità, i soggetti legittimati alla impugnativa e i termini per la sua proposizione, anche prevedendo possibilità di modifica e integrazione delle deliberazioni assunte, e l’eventuale adozione di strumenti di tutela diversi dalla invalidità;
c) prevedere una disciplina dei patti parasociali, concernenti le società per azioni o le società che le controllano, che ne limiti a cinque anni la durata temporale massima e, per le società di cui al comma 2, lettera a), ne assicuri il necessario grado di trasparenza attraverso forme adeguate di pubblicità;
d) determinare, anche con adeguato spazio all’autonomia statutaria e salve le disposizioni di leggi speciali, i quorum costitutivi e deliberativi dell’assemblea, in relazione all’oggetto della deliberazione, in modo da bilanciare la tutela degli azionisti e le esigenze di funzionamento dell’organo assembleare, lasciando all’autonomia statutaria di stabilire il numero delle convocazioni.
8. Riguardo alla disciplina dell’amministrazione e dei controlli sull’amministrazione, la riforma è diretta a:
a) attribuire all’autonomia statutaria un adeguato spazio con riferimento all’articolazione interna dell’organo amministrativo, al suo funzionamento, alla circolazione delle informazioni tra i suoi componenti e gli organi e soggetti deputati al controllo; precisare contenuti e limiti delle deleghe a singoli amministratori o comitati esecutivi;
b) riconoscere, quando non prevista da leggi speciali, la possibilità che gli statuti prevedano particolari requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza per la nomina alla carica;
c) definire le competenze dell’organo amministrativo con riferimento all’esclusiva responsabilità di gestione dell’impresa sociale;
d) prevedere che le società per azioni possano scegliere tra i seguenti modelli di amministrazione e controllo:
1) il sistema vigente che prevede un organo di amministrazione, formato da uno o più componenti, e un collegio sindacale;
2) un sistema che preveda la presenza di un consiglio di gestione e di un consiglio di sorveglianza eletto dall’assemblea; al consiglio di sorveglianza spettano competenze in materia di controllo sulla gestione sociale, di approvazione del bilancio, di nomina e revoca dei consiglieri di gestione, nonché di deliberazione ed esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti di questi;
3) un sistema che preveda la presenza di un consiglio di amministrazione, all’interno del quale sia istituito un comitato preposto al controllo interno sulla gestione, composto in maggioranza da amministratori non esecutivi in possesso di requisiti di indipendenza, al quale devono essere assicurati adeguati poteri di informazione e di ispezione. Nella definizione dei requisiti di indipendenza, il Governo favorirà lo sviluppo di codici di comportamento e di forme di autoregolazione;
e) prevedere che, in mancanza di diversa scelta statutaria, si applichi la disciplina di cui alla lettera d), numero 1);
f) prevedere che, con riferimento alle fattispecie di cui alla lettera d), numeri 2) e 3), siano assicurate, anche per le società che non si avvalgono della revisione contabile, forme di controllo dei conti, avvalendosi di soggetti individuati secondo i criteri di nomina previsti dalla normativa vigente per il collegio sindacale;
g) disciplinare i doveri di fedeltà dei componenti dell’organo amministrativo, in particolare con riferimento alle situazioni di conflitto di interesse e precisare che essi sono tenuti ad agire in modo informato.
9. Riguardo alla disciplina delle modificazioni statutarie, la riforma è diretta a:
a) semplificare le procedure e i controlli, con facoltà per l’autonomia statutaria di demandare alla competenza dell’organo amministrativo modifiche statutarie attinenti alla struttura gestionale della società che non incidono sulle posizioni soggettive dei soci;
b) rivedere la disciplina dell’aumento di capitale, del diritto di opzione e del sovrapprezzo, prevedendo comunque adeguati controlli interni sulla congruità del prezzo di emissione delle azioni e consentendo, con la precisazione di limiti temporali, la delega agli amministratori per escludere il diritto di opzione, opportunamente differenziando la disciplina a seconda che la società abbia o meno titoli negoziati nei mercati regolamentati;
c) semplificare la disciplina della riduzione del capitale; eventualmente ampliare le ipotesi di riduzione reale del capitale determinandone le condizioni al fine esclusivo della tutela dei creditori;
d) rivedere la disciplina del recesso, prevedendo che lo statuto possa introdurre ulteriori fattispecie di recesso a tutela del socio dissenziente, anche per il caso di proroga della durata della società; individuare in proposito criteri di calcolo del valore di rimborso adeguati alla tutela del recedente, salvaguardando in ogni caso l’integrità del capitale sociale e gli interessi dei creditori sociali.

La legge delega qui imponeva l’esigenza di prevedere un organico complesso di norme e un assetto organizzativo che promuovesse l’efficienza e la correttezza della gestione dell’impresa, dando rilevanza centrale all’AZIONE.
Per le società per azioni gli elementi costitutivi sono:
a) Esistenza di una organizzazione corporativa INDEROGABILE, non si possono modificare le competenze degli organi.
b) La suddivisione del capitale in partecipazioni, AZIONI. L’azione è una tecnica organizzativa a rilievo tipologico.
c) Le decisioni sono prese con metodo collegiale. ASSEMBLEA

Ogni organo ha un suo nucleo di competenze ESCLUSIVE, che non sono attribuibili ad altri organi, l’organo ha una determinata funzione, e le competenze sono INDEROGABILI, ad esempio il Cda può vendere gli immobili, l’assemblea non può. Il capitale sociale, diviso in azioni, che misurano la partecipazione, il peso. Il numero delle azioni possedute ha quindi funzione organizzativa, più azioni più potere.
Per le società a responsabilità limitata gli elementi costitutivi si “affievoliscono”. Nasce una organizzativa corporativa nuova, in risposta alle esigenze di quelle società che non possono o non vogliono costituire una spa, che è attenuata, e ha carattere RESIDUALE, cioè la struttura prevista dalla legge è applicabile SE I SOCI NON HANNO DISPOSTO DIVERSAMENTE. I soci possono quindi nell’atto costitutivo prevedere un funzionamento diverso degli organi sociali. Attribuire all’amministratore o agli organi poteri diversi, quindi le decisioni possono essere assunte con consultazione scritta, o scambio di consensi espressi (definiti, certi), ma non serve convocazione, non serve contestualità fisica o temporale. L’atto costitutivo può derogare alle norme e può prevedere un amministratore o più con potere congiuntivo o disgiuntivo, secondo il modello delle società di persone, al di fuori quindi del metodo collegiale. Salvo però quanto disposto dall’art. 2479 c.c., 2° comma, e dall’art. 2475 c.c., ultimo comma. Permane un nucleo di decisioni che vanno prese comunque collegialmente, e questi articoli elencano le materie di decisione collegiale “sono in ogni caso decisioni dell’organo collegiale“.
Art. 2475 – Amministrazione della società – Salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo l’amministrazione della società è affidata a uno o più soci nominati con decisione dei soci presa ai sensi dell’art. 2476 ….. omissis …… La redazione del progetto di bilancio e dei progetti di fusione o di scissione, nonché le decisioni di aumento del capitale ai sensi delll’art. 2481 sono in ogni caso di competenza dell’organo amministrativo.
Art. 2479 – Decisioni dei soci – I soci decidono sulle materie riservate alla loro competenza dall’atto costitutivo nonché sugli argomenti sottoposti alla loro approvazione….. omissis ….. In ogni caso sono riservate alla competenza dei soci: 1) approvazione bilancio e distribuzione utili 2) nomina amministratori,. 3) nomina dei sindaci etc 4) modificazioni statuto 5) modificazione oggetto sociale
L’organizzazione corporativa si attenua , i confini tra gli organi sono fluidi, i soci possono prevedere nell’atto costitutivo che la gestione sia della stessa ASSEMBLEA, o può influire sulla ripartizione delle competenze, c’è un attenuamento delle sfere di competenza. Le materie sono decise dall’atto costitutivo non dalla legge. In qualsiasi momento i soci possono intervenire, come da primo comma art. 2479 c.c., in materie gestorie.
Ad esempio, la vendita di un immobile, può essere disposta dall’amministratore, ma anche dai soci stessi, se lo statuto lo prevede. Prima della riforma l’amministratore era invece visto come il CdA della società per azioni, e disciplinato con le regole delle spa. Oggi invece le sue competenze possono essere decise dai soci.
Il CAPITALE SOCIALE nella srl con la riforma perde la capacità di misurare la posizione dei soci. Anche qui la disciplina è RESIDUALE, se i soci non decidono diversamente, cioè nel silenzio dello Statuto, si applica l’art. 2468 c.c. terzo comma.
Art. 2468 – Quote di partecipazione – Le partecipazioni dei soci non possono essere rappresentante da azioni…. omissis…. Se l’atto costitutivo non prevede diversamente, le partecipazioni dei soci sono determinate in misura proporzionale al conferimento. Resta salva la possibilità che l’atto costitutivo preveda l’attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardanti l’amministrazione della società o la distribuzione degli utili…..
Viene usato il PRINCIPIO DELLA RILEVANZA DELLA PERSONA, del socio, e l’atto costitutivo può attribuire diritti, poteri, svincolandosi dalla quota di capitale detenuto, la quota perde quindi rilevanza. L’atto costitutivo potrebbe attribuire a un socio il diritto al 51% dell’utile, anche se questo socio detiene solo l’1% del capitale.
Tipo o Modello ? – La riforma ha sancito anche il passaggio, per quanto riguarda le srl, dal TIPO, ora previsto solo per le spa, al modello.
Società per azioni – TIPO – per le spa si parla quindi di tipo di società, perché lo schema è tipico, cioè previsto dalla legge. Tipico in materia contrattuale vuol dire infatti disciplinato dalla legge perché meritevole di tutela, ha una causa protetta dalla legge. Il contratto, nel caso fosse atipico, e può capitare vista l’autonomia contrattuale dei privati, se deve essere giudicato il giudice deve fare una valutazione ad hoc, deve ricondurre comunque il contenuto del contratto atipico a degli schemi, o a degli interessi meritevoli, tenendo presente la libertà contrattuale.
In materia societaria vige il PRINCIPIO DI TASSATIVITA’ DEI TIPI SOCIALI, PRINCIPIO DI TIPICITA’, che è diverso da quello contrattuale (sancito dall’art. 2249 c.c.). I PRIVATI non possono costituire tipi di società non previsti (la società come sappiamo non è infatti un contratto, anche se può nascere da un contratto). Siccome la società si fonda su ATTIVITA’ e FINANZIAMENTO, che coinvolgono, vengono svolte con e verso i TERZI, serve necessariamente una tutela, la società ha un rilievo reale meta-individuale, oltre l’individuo, oltre le parti del contratto, perché coinvolge interessi di altri.
Il TIPO ha due funzioni:
1) inteso come FATTISPECIE, come schema normativo, ha quindi degli elementi essenziali costitutivi che devono sussistere affinché si applichi una certa disciplina. Tanto che un giudice che si trovi a valutare un contratto di società, di una spa, non bada al nomen iuris che viene dato al contratto, ma verifica che ci siano i requisiti che costituiscono lo schema della spa (organizzazione corporativa e capitale sociale), lo riconduce quindi alla fattispecie e alla sua disciplina.
2) Serve a selezionare le iniziative societarie valide da quelle invalide. L’art. 2332 c.c., prima della riforma, che ha portato una grande rottura con la disciplina dei contratti, indicava tassativamente le ipotesi di NULLITA’, cioè i casi in cui una società di capitali iscritta potesse essere dichiarata NULLA, anche dopo l’iscrizione al registro delle imprese. Ce n’erano solo otto, di ipotesi, ora ridotte a tre, e la prima era MANCANZA DI ATTO COSTITUTIVO. Quindi la società era nulla se NON C’ERA l’atto costitutivo. Ma che cosa voleva dire MANCANZA? Inesistenza, estorsione? La lettura più accreditata dava l’inciso come DIFFORMITA’ DELLA’ATTO RICONDUCIBILE NEL TIPO VOLUTO DALLE PARTI. La seconda funzione serviva a distinguere quelle iniziative potenzialmente non valide, perché difformi dal tipo. Oggi l’articolo parla invece di MANCATA STIPULAZIONE.
Questa seconda funzione è venuta meno, con il nuovo art. 2332 c.c. non è più possibile ricondurre al TIPO per qualificare le società per azioni e reclamare la difformità dal tipo. Se l’atto contiene delle clausole difformi dal tipo della spa, che non possono quindi essere accettate, il contratto dovrebbe essere RIQUALIFICATO come contratto di srl, o altra società, con una conversione automatica in un altro contratto.
Ma attenzione, perché se è stato messo in atto un passaggio ineliminabile, cioè l’iscrizione nel Registro delle Imprese, questo impedisce la riqualificazione. Si applica quindi non la conversione del contratto, ma l’art. 1419 c.c., che sostituisce di diritto le clausole nulle con le norme imperative, cioè quelle previste dalla legge. Non c’è la nullità totale del contratto di società, ma una sostituzione delle clausole differenti dal TIPO.
Società a responsabilità limitata – MODELLO – Per le srl invece, il tipo si attenua, e si attenua la sua funzione di limite esterno alla autonomia privata e di criterio di identificazione della disciplina applicabile perché l’organizzazione corporativa e l’organizzazione del capitale E’ DECISA DAI SOCI. Si parla quindi di modello. Innanzitutto va detto che anche dietro la spa, disciplinata come tipo, c’è però un modello di impresa, quello della grande impresa, mentre dietro la srl c’è il modello di società chiusa, con pochi soci, la piccola e media impresa, ed è questo modello che ci guida per trovare la disciplina. Vediamo le funzioni del modello.
1) Il modello aiuta a interpretare le norme. Ad esempio l’art. 2467 c.c. – Finanziamento dei soci – ha introdotto con la riforma la postergazione coattiva del rimborso ai soci. “Il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori”. Il socio che magari è intervenuto in un momento di crisi finanziando la società non può essere rimborsato finchè i creditori non sono soddisfatti, e naturalmente si basa sulla presunzione che i soci sappiano della situazione quando fanno i conferimenti. E la regola vale per tutti, non si distingue in base alla partecipazione, alle quote, perché come principio generale tutti i soci sono interessati alla gestione, non c’è distinzione tra soci. Ecco che il MODELLO POCHI SOCI E TUTTI INTERESSATI aiuta a interpretare la norma, perché il modello classifica tutti i soci come IMPRENDITORI, non come nella spa dove ci sono anche soci solo finanziatori.
2) Il modello serve a riempire le lacune. Ad esempio, manca una regola espressa per alcune vicende del rapporto di amministrazione, ad esempio per la REVOCA degli amministratori, c’è proprio lacuna normativa. Ecco come il modello ci aiuta a trovare una disciplina da applicare: se le parti hanno previsto con l’atto costitutivo un modello CAPITALISTICO, e non hanno quindi derogato alla funzione corporativa, si applica per analogia l’art. 2383 – Nomina e revoca degli amministratori – previsto per la società per azioni, che dà competenza all’assemblea; se invece i soci avessero adottato per la gestione un modello PERSONALISTICO, si applicherebbe l’art. 2259 c.c. – Revoca della facoltà di amministratore - cioè la disciplina in materia per le società di persone, che prevede una giusta causa, e la regola UNANIMISTICA, cioè la necessità del consenso unanime, per fare una modifica al contratto sociale.



Lezione 28/11/2008 – Maugeri
Nella scorsa lezione avevamo rimarcato il fatto che con la Riforma del 2003 la società a responsabilità limitata (s.r.l.) diventa “flessibile”, quindi non si riconduce più a un TIPO normativo, ma configura un MODELLO, definito dallo statuto, non dalle norme.
Gli scopi del MODELLO come dicevamo sono:
 Guidare l’interprete
 Colmare le lacune
Affrontiamo ora l’aspetto dell’impatto sul MERCATO. Le società per azioni (s.p.a.) e le società a responsabilità limitata (s.r.l.) hanno diversa rilevanza nel mercato dei capitali.
La SPA, che si caratterizza per uno STABILE e potenziale ricorso al mercato dei capitali, ha due interessi sottesi:
1) a mantenere le risorse stabilmente investite nell’impresa
2) alla mobilizzazione degli investimenti
che sono soddisfatti attraverso quella particolare tecnica organizzativa costituita dalla esistenza di un CAPITALE SOCIALE suddiviso in AZIONI. Ma parliamo del ruolo del capitale sociale.
Il capitale sociale e il mercato
Il capitale sociale si concretizza in un insieme dei REGOLE volte a garantire che un certo ammontare di risorse sia sempre presente nell’impresa, tutela quindi il primo interesse sotteso nella Spa. E’ un CONCETTO NORMATIVO, esprime una disciplina.
Facciamo un esempio. Prendiamo dei fondi comuni di investimento, in un momento in cui c’è pressione, aria di crisi, come oggi, e si verifica una mancanza di liquidità. I fondi di investimento rappresentano un patrimonio che raccoglie i beni investiti secondo un certo profilo di rischio, scelto dal sottoscrittore. I fondi detti “benefit” possono essere riscattati in qualsiasi momento, il gestore deve rimborsare l’investitore del fondo entro 3 giorni. Ma come fa in un momento di crisi? Quando manca la liquidità? VENDE. Vende i titoli per monetizzare, e vendento preme al ribasso il mercato, fa scendere le quotazioni sui prezzi. Questo succede proprio perché manca il meccanismo del capitale sociale, che consente di tenere delle risorse. E’ una differenza importante.
La Spa invece, avendo questo meccanismo, è idonea, rispetto al gestore di un fondo, a finanziare progetti industriali, perché i soci non possono richiedere indietro il capitale quando vogliono, la spa garantisce STABILITA’. Il capitale sociale ha pari risorse.
Il fenomeno societario ha un significato collettivo, garantito dal meccanismo del capitale sociale. La legge impedisce al socio di chiedere quando vuole il rimborso dell’investimento, TUTELA quindi l’interesse dell’impresa, ma anche quello di TUTTI GLI ALTRI soci.
Tra quindi una società per azioni, e un gestore di un fondo, ed entrambi hanno quindi un PATRIMONIO, e sono SOGGETTI che lo gestiscono, la differenza sostanziale sta proprio nel meccanismo del CAPITALE SOCIALE.
L’investitore però ricordiamo ha anche interesse a smobilizzare il suo investimento, e in questo è tutelato dal MERCATO SECONDARIO, dove le partecipazioni possono essere vendute. Vediamo la distinzione tra i due mercati.
 MERCATO PRIMARIO – mercato dove vengono collocati gli strumenti finanziari di nuova emissione, dalla Spa che vuole reperire nuove risorse, che ha rilievo quindi per la fase di finanziamento dell’impresa.
 MERCATO SECONDARIO – mercato dove circolano strumenti già emessi, già in circolazione, che ha rilievo quindi individuale, per il socio, per il suo singolo investimento.
Il mercato esercita un grande condizionamento, condiziona il funzionamento della Spa, c’è una correlazione vera e propria tra spa e mercato.
Prima della riforma le azioni avevano solo il VALORE NOMINALE, ed era vietata l’applicazione di un prezzo di emissione di azioni al di sotto del valore nominale. La normativa imponeva il valore nominale. Il prezzo di mercato, della Borsa, poteva essere quindi uguale o INFERIORE al valore nominale. Ad esempio se il valore nominale dell’azione era di 1 €, le azioni in Borsa potevano essere vendute ad esempio a 0.70 €, e questo incideva ovviamente sulle possibilità di finanziamento dell’impresa. Più il prezzo scende più azioni una società dovrà emettere per finanziarsi. Così come incidono le VALUTAZIONI degli analisti finanziari, sul prezzo.
La spa giuridicamente si esprime in:
• una struttura organizzativa corporativa RIGIDA – necessaria alla protezione dell’investitore. La legge vuole che sia chiara la ripartizione delle competenze, anche per ragioni di efficienza; la funzione amministrativa deve essere sganciata dalla persona del socio, e attribuita al CdA, proprio perché la partecipazione sociale può essere liberamente trasferita, con la vendita delle azioni, quindi ne avrebbe danno il funzionamento, la gestione stessa della società, per la quale serve appunto la rigidità nella divisione delle competenze.
• una funzione organizzativa con il meccanismo del capitale sociale
che sono i suoi elementi costitutivi.
La sua matrice storica come abbiamo visto risale alle origini della Compagnia delle Indie. E ora abbiamo visto la sua economica correlazione con il mercato.
La Spa ricorre al MERCATO per il suo finanziamento, invece la SRL ricorre ai SOCI. Ecco che nella srl si spezza il nesso tra società e mercato, anche se è una società di capitali; il finanziamento dell’impresa nel capitale di rischio si svolge attingendo alle risorse DEI SOCI, non sul mercato.
Come avviene nelle società di persone, che infatti si finanziano con il risparmio dei soci. La srl è nel mezzo, ha il meccanismo del CAPITALE SOCIALE, ha la PERSONALITA’ GIURIDICA, ha la RESPONSABILITA’ LIMITATA ma si finanzia con il risparmio dei SOCI.
Vediamo l’art. 2468 del codice civile, relativo alle srl.
Art. 2468 – Quote di partecipazione – “Le partecipazioni dei soci non possono essere rappresentate da azioni né costituire oggetto di sollecitazione all’investimento…..”
La srl non può, per legge, finanziarmi con una forma di risparmio INNOMINATA, si spezza il legame, il nesso con il mercato. Vige il divieto di sollecitazione al pubblico risparmio, e proprio per questo il SOCIO ha così rilevanza nella gestione, è il proprietario del capitale. E’ la diversa rilevanza:
SPA
AZIONE SRL
SOCIO

che determina i criteri direttivi delle due forme di società e che fanno la differenza nel nesso con il mercato dei capitali.
Dopo la riforma vediamo che anche per la società per azioni il TIPO, la fattispecie, si articola, e si crea una tripartizione, troviamo delle differenziazioni all’interno del “tipo” spa.
Art. 2325-bis c.c. – “Società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio – Ai fini dell’applicazione del presente titolo sono società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio le società con azioni quotate in mercati regolamentati o diffuse fra il pubblico in misura rilevante.
Le norme di questo titolo si applicano alle società per azioni quotate in mercati regolamentati in quanto non sia diversamente disposto da altre norme di questo codice o di leggi speciali”
Ci sono quindi SPA
 CHIUSE – che non fanno ricorso al capitale di rischio, al mercato
 APERTE – che invece vi fanno ricorso, e tra le società per azioni aperte ritroviamo le
• Società QUOTATE – nei mercati regolamentati
• Società con azioni DIFFUSE tra il pubblico in maniera rilevante
Il secondo comma poi precisa che le norme del codice civile per le spa sono applicabili IN VIA RESIDUALE, cioè si applicano alle società quotate SE NON DIVERSAMENTE DISPOSTO da altre norme.
La spa è quindi soggetta in prima battuta a norme speciali (ad esempio al TUF) e in via residuale al codice civile, ecco cosa dice il 2 comma dell’art. 2325-bis.
Ma allora la SPA QUOTATA è un TIPO diverso, nuovo? La dottrina sta studiando la questione. Se la funzione del TIPO era di individuare la disciplina, la fattispecie da applicare, allora la SPA quotata, che ha una disciplina diversa, è un TIPO diverso?
TRASFORMAZIONE: è la disciplina del CAMBIO DI TIPO DI SOCIETA’, un cambiamento di veste, ed è competenza dell’assemblea straordinaria, che tra l’altro attribuisce al socio che non vuole aderire alla trasformazione il diritto di recesso.
Ad esempio, se la quotata perdesse il requisito della quotazione, il cosiddetto DELISTING, dove le azioni sono quindi ritirare dal mercato, per motivi diversi, per minimizzare i costi ad esempio, che sono troppo elevati o per sottrarsi ai troppo impegnativi obblighi informativi delle quotate. L’interesse da tutelare nel caso del delisting è quello dell’impresa sicuramente, ma anche quello degli investitori. E cosa fa la legge per tutelarlo? Esaminiamo le due norme in questione.
Vediamo l’art. 133 del TUF.
Art. 133 - Esclusione su richiesta dalle negoziazioni
1. Le società italiane con azioni quotate nei mercati regolamentati italiani, previa deliberazione dell'assemblea straordinaria, possono richiedere l'esclusione dalle negoziazioni dei propri strumenti finanziari, secondo quanto previsto dal regolamento del mercato, se ottengono l'ammissione su altro mercato regolamentato italiano o di altro paese dell'Unione Europea, purchè sia garantita una tutela equivalente degli investitori, secondi i criteri stabiliti dalla CONSOB con regolamento.
Se il ritiro dalla quotazione, così come la quotazione, configurano un TIPO diverso, siamo davanti alla TRASFORMAZIONE, perché queste vicende rientrerebbero in vicende di trasformazione, quindi esigerebbero la deliberazione dell’assemblea straordinaria e dà il diritto di recesso, quindi il disinvestimento.
Vediamo l’art. 2437 quinquies c.c.
“ART. 2437quinquies – Disposizioni speciali per le società con azioni quotate in mercati regolamentati – Se le azioni sono quotate in mercati regolamentati hanno diritto di recedere i soci che non hanno concorso alla deliberazione che comporta l’esclusione dalla quotazione.”
C’è anche qui una deliberazione dell’assemblea straordinaria.
Quindi sembra proprio che ci siano i requisiti per classificare il delisting come una TRASFORMAZIONE. Una parte della dottrina sostiene che si tratta di un TIPO autonomo, soggetto a disciplina diversa, ma ci sono altre teorie. Una di queste, del Prof. Paolo Spada, è a favore della tesi opposta, cioè che la SPA quotata e il delisting NON SIA un altro tipo di società, dice che non può esserlo perché le norme citate (art. 133 TUF e art. 2437quinquies c.c.) si spiegano come TUTELA DEL SOCIO AL DISINVESTIMENTO, non per ragioni tipologiche. Applicare la disciplina della trasformazione alla quotazione, o al delisting per Spada sarebbe irrazionale, proprio perché anche per l’ammissione a quotazione bisognerebbe usare la disciplina della trasformazione per le azioni necessarie che sono ad esempio
• AUMENTO DEL CAPITALE SOCIALE per la CREAZIONE DI NUOVE AZIONI PER IL MERCATO
Se usiamo la disciplina della trasformazione servirebbero per queste azioni l’assemblea straordinaria in primis, e per l’aumento del capitale sociale va bene, è già prevista, ma se si applica anche il diritto di recesso, non avrebbe senso perché con la QUOTAZIONE il socio può già smobilizzare quando vuole l’investimento. E’ un provvedimento amministrativo, esterno al contratto di società, alla fattispecie negoziale.
E’ difficile quindi, se non impossibile, dare un significato tipologico ad un elemento, come la QUOTAZIONE, ESTERNO al contratto sociale. I soci chiedono a Borsa Italiana. Estraneità del procedimento di ammissione. Tesi prevalente in dottrina.

Vediamo ora le possibilità di “mescolanza” tra società di capitali e società di persone. Una SRL, ad esempio, può essere socia di una società di persone ?
La giurisprudenza dice da sempre di NO, anche la Cassazione a sezioni unite negò questa possibilità di partecipazione. Le SPA e le SRL non sono socio di SNC. Gli ostacoli opposti alla possibilità si possono così riassumere, facendo riferimento al periodo prima della riforma:
1) L’essere società di capitali non collima con la persona del socio, cioè proprio il fatto che si tratti di società di PERSONE, nel senso di fisiche, ne esclude la possibilità;
2) Se una Spa diventa socia di società di persone si espone all’assunzione di obbligazioni a cui rispondere illimitatamente, tipico delle società di persone, e si modifica quindi la condizione di RISCHIO a cui si sottopone il socio della SPA. Nelle società di capitali la responsabilità è LIMITATA, ma se ci si apre alle società di persone, si porta il socio a rispondere illimitatamente, quindi il patrimonio della SPA sarebbe a rischio, ne dovrebbe rispondere, come farebbe una persona fisica con i suoi beni personali;
3) La Cassazione ribadisce che così facendo si spezzerebbe la correlazione tra potere e responsabilità che è alla base delle società di persone. La persona fisica gestisce e risponde, se una società di capitali diventa socio, chi poi effettivamente gestisce? Servirebbe comunque una persona fisica, e anche se questa fosse designata, potrebbe gestire senza però farsi carico della responsabilità illimitata, che resterebbe in capo alla società di capitali.
Inoltre, si è ribadito un divieto di cumulo dei vantaggi dei due modelli di società. Vediamo la risposta normativa che è stata data a queste obiezioni. Il primo e il secondo ostacolo risultano infondati. Per quanto riguarda il primo punto l’affidamento non si fonda sempre sull’INTUITU PERSONAE.
La locuzione latina Intuitu personae da tradurre con l'italiano avuto riguardo alla persona indica nel linguaggio giuridico quei negozi nei quali è rilevante per il consenso di una parte la fiducia riposta nell'altro contraente. È ad esempio un contratto intuitu personae il contratto di consulenza con un libero professionista, individuato sulla base non di una mera convenienza economica - come per le offerte più basse in materia di appalti - quanto sull'affidamento che il cliente valuta relativamente alla qualità (fino a quel momento) garantita nell'esecuzione delle prestazioni professionali. Tale affidamento può derivare dal prestigio del professionista o operatore economico, ovvero da esperienze dirette tra i due contraenti, rapporti consolidati in rapporti affini, segnalazioni o qualsiasi altro elemento rilevante per il committente-cliente. L'affidamento intuitu personae è dunque proprio delle attività dei privati e sempre più limitato invece per le amministrazioni pubbliche che, nello spendere il denaro dei contribuenti, devono per legge garantire l'equità e l'imparzialità delle scelte. Tipico esempio di scelta intuitu personae è quella del medico di fiducia, del meccanico di fiducia, dell'avvocato di fiducia, ecc.
L’affidamento può essere infatti dato anche a persona giuridica, può configurarsi quindi una società di persone dove le persone siano fungibili, interscambiabili, si potrebbe prevedere la libera trasferibilità delle partecipazioni dei soci, perché appunto l’intuitu personae non ha sempre rilievo tipologico.
La riforma ha poi risolto definitivamente la questione di ammissibilità delle società di capitali nelle società di persone.
L’art. 2361, al secondo comma recita: “L’assunzione di partecipazioni in altre imprese comportante una responsabilità illimitata per le obbligazioni delle medesime deve essere deliberata dall’assemblea: di tali partecipazioni gli amministratori danno specifica informazione nella nota integrativa …”
L’articolo subordina quindi l’assunzione di partecipazione a rischio illimitato, cioè le partecipazioni in società a responsabilità illimitata, ad una AUTORIZZAZIONE DELL’ASSEMBLEA, ad una delibera assembleare. Introduce quindi il controllo dei soci in ordine a scelte gestorie che implichino una alterazione delle condizioni di rischio. Non dice a quale tipo di assemblea, ma nel silenzio della legge si intende quella ordinaria. L’autorizzazione, con rilievo giuridico, costituisce quindi un LIMITE LEGALE al potere di rappresentanza degli amministratori. Quindi se gli amministratori acquistano partecipazioni in società con responsabilità illimitata senza autorizzazione assembleare, il vizio è opponibile a terzi, a tutti i terzi, a qualsiasi terzo.
Vediamo la portata sistematica di questa norma. Vista la rigida ripartizione delle competenze nelle spa, il CdA come sappiamo ha funzione gestoria, e la partecipazione a società è un investimento, è quindi un atto di gestione, quindi il fatto che serva la delibera assembleare è una DEROGA alla rigidità della ripartizione delle competenze, perché subordina un atto di gestione all’approvazione dei soci, tramite l’assemblea.
L’art. 2361 porta un principio di carattere generale, e sta a significare che se un atto degli amministratori va a modificare la struttura dell’impresa, le sue caratteristiche fondamentali, gli amministratori devono chiedere preventivamente l’autorizzazione ai soci. Ad esempio: la vendita del complesso aziendale, che sarebbe di competenza del CdA, configura però una modifica dei caratteri strutturali, quindi serve l’assemblea che approvi la vendita. L’art. 2361 implica quindi una REGOLA NON SCRITTA per cui l’interprete può trovare competenze dei soci anche in casi non previsti dalla legge. Questa è una tesi portata avanti in particolare dal Prof. Portale, che se si a ben guardare, andando contro la rigidità di ripartizione delle competenze potrebbe portare una incertezza giuridica, perché spesso non si possono sapere e non si possono identificare esattamente le caratteristiche strutturali, quindi se ogni volta il Cda dovesse chiedere, vista l’incertezza, il consenso assembleare, si fermerebbe la snellezza di gestione.
Vediamo dei casi realmente accaduti, in merito alle competenze non scritte dell’assemblea. Il Cda aveva conferito il complesso aziendale a una nuova società, e questo atto va a incidere sulla partecipazione, perché i soci aumentano, se si somma la società partecipante, L’atto è quindi talmente incisivo nell’assetto, che si è cercato un freno, ricercandolo nell’assenso dei soci, ricavato dal secondo comma dell’art. 2361. Ecco quindi come questa norma ha inciso sulla possibilità o meno per una società di capitali di essere socia di società di persone.
Un’altra norma è l’art. 111 duodecies delle disposizioni di attuazione del codice civile. Poniamo il caso che ci siano due società per azioni socie di una società di persone.
Art.111-duodecies disp.att. c.c. – “Qualora tutti i loro soci illimitatamente responsabili di cui all’art. 2361 comma secondo, del codice, siano società per azioni, in accomandita per azioni o società a responsabilità limitata, le società in nome collettivo o in accomandita semplice devono redigere il bilancio secondo le norme previste per le società per azioni…..”
Questa disposizione incide sulle modalità di redazione del bilancio delle società di persone e obbliga appunto le società di persone, snc e in accomandita semplice, i cui soci illimitatamente responsabili siano società di capitali, a redigere il bilancio secondo le norme previste per le spa. Quindi queste società di persone avranno il bilancio con criteri di valutazione e schemi di valutazione previsti per legge per le spa, per una esigenza di trasparenza. L’articolo supera l’ostacolo del divieto di sommare i vantaggi, e indica “qualora TUTTI”. Quindi oggi la legge ammette che una società di capitali possa assumere veste di socio illimitatamente responsabile, ma poi in realtà chi è che amministra la società di persone, il potere vero di gestione a chi spetta:
a) Alla persona giuridica, cioè alla società partecipante, socia, che lo esercita secondo le norme del proprio ordinamento, cioè tramite il proprio legale rappresentante, mentre la società resta come soggetto che risponde, questo è il modello accolto dalle società cooperative (vedi art. 2542 secondo comma,).
b) Alla persona fisica, qualsiasi persona, designata dalla persone giuridica partecipante, quindi obblighi e responsabilità gravano sulla persona fisica DESIGNATA.
Anche l’articolo 2542 secondo comma è una norma che può avere oggi portata sistematica, non solo esegetica, e valenza espressiva di un principio generale, , quindi oggi le società di persone possono dare poteri di amministrazione a un TERZO.
Art. 2542 c.c. - ….omissis…. la maggioranza degli amministratori è scelta tra i soci cooperatori ovvero tra le persone indicate dai soci cooperatori persone giuridiche”
E’ una novità rispetto al classico modello delle società di persone, dove gestione e soci si identificano, l’art. 111 duodecies consente infatti l’ingresso a un TERZO QUALSIASI, designato dalla spa socia, nella gestione.
Vediamo ora l’art. 2267 c.c., primo comma, sulle società semplici.
Art. 2267 c.c. – Responsabilità per le obbligazioni sociali – I creditori della società possono far valere i loro diritti sul patrimonio sociale. Per le obbligazioni sociali rispondono inoltre personalmente e solidalmente i soci che hanno agito in nome e per conto della società e, salvo patto, contrario, gli altri soci.”
La norma consente ai soci CHE NON GESTISCONO di limitare la propria responsabilità, salvo patto contrario. Nel caso quindi che una spa designi un terzo gestore, e che questo terzo designato sia insolvibile, visto che i soci che non gestiscono possono limitare la loro responsabilità, i creditori come sono tutelati? La questione si risolve considerando il terzo come MANDATARIO dei soci, di TUTTI i soci, che conservano il potere inalienabile di direzione dell’impresa, che impone tra l’altro di lasciare intatta la responsabilità illimitata dei soci i quali non possono fare il patto contrario citato nell’articolo.
La riforma, detta “delle società di capitali”, ha quindi inciso notevolmente anche sulle società di persone, sul fenomeno gestorio in generale della società-impresa.
Vediamo le due differenti tesi:
 SOCI SONO IMPRENDITORI, il potere di amministrazione e di gestione è dei SOCI, non si ammette quindi designazione di terzo.
 SOCI SONO INVESTITORI, si ammette individuazione di un terzo gestore, ma bisogna però prevedere la tutela dei creditori.

Costituzione di società per azioni
Vediamo ora il ruolo del contratto istitutivo sociale, diverso dal contratto di scambio, e dello statuto. Solo il contratto sociale ORGANIZZA UNA ATTIVITA’ che ha un rilievo reale, che va OLTRE le persone coinvolte nel contratto, oltre i soci, cosa che invece non avviene nel contratto di scambio, che ha forza di legge solo tra le parti.
Si pone subito il problema della interpretazione dello statuto della spa. Per quanto riguarda il contratto di scambia i criteri interpretativi sono dati dagli artt. 1362 e ss. “Nell’interpretare il contratto si deve indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti e non limitarsi al senso letterale delle parole”.
Un criterio quindi soggettivo, la volontà delle parti, il ricostruire le intenzioni dei contraenti e, se non è possibile, allora ricorrere a criteri oggettivi, indicate nell’art. 1371 c.c., norma quindi residuale, regola oggettiva che prescinde da volontà delle parti. Quando l’articolo 1362 parla di NON LIMITARSI, introduce la regola soggettiva, si distacca dal canone oggettivo di interpretazione generale della legge (preleggi) che indica invece proprio il senso letterale. Il contratto ricordiamo ha forza di legge tra le parti, e non produce effetti, se non di LEGGE, per i terzi.
Per il contratto sociale, costitutivo di società per azioni, il procedimento invece si inverte. L’interpretazione è guidata da regole OGGETTIVE, va usato il dato letterale, non la volontà., indicato nell’art. 2247 c.c. Questo perché disciplina una attività, coinvolge quindi ALTRI INTERESSI, non solo quelli dei soci.
La stessa Cassazione, nel sancire le regole oggettive per la spa, ha invece affermato che per le società di persone si potessero usare i criteri tradizionali del contratto, quindi le regole soggettive. Ma questa è una tesi inaccettabile, per questi motivi:
 Anche le società di persone sono forme di ATTIVITA’, quindi il loro contratto costitutivo coinvolge interessi di ALTRI, di terzi.
 Dopo la riforma, visto che la srl in particolare è stata per certi versi avvicinata alla società di persone, e possono quindi esistere delle srl personalistiche, stando a metà tra capitali e persone, dovrebbero poter usare criteri soggettivi.
E’ importante rilevare che mentre per le spa esiste proprio una norma che sostiene i criteri oggettivi da usare per l’interpretazione dello statuto, manca una norma simile per le srl.
Vediamo ora l’art. 2328 c.c. che stabilisce che l’atto costitutivo della spa deve essere redatto per atto pubblico e elenca poi i dati che deve contenere, vedremo successivamente come si dividono.
Al terzo comma poi recita: “Lo statuto contenente le norme relative al funzionamento della società, anche se forma oggetto di atto separato, costituisce parte integrante dell’atto costitutivo. In caso di contrasto tra le clausole dell’atto costitutivo e quelle dello statuto prevalgono le seconde.”
L’atto costitutivo, che contiene la parte negoziale del contratto, le generalità dei fondatori, le regole storiche, dovrebbe essere interpretato secondo canoni soggettivi. Lo statuto invece che contiene le regole organizzative, le norme per il funzionamento dell’attività, e le finalità, quindi l’oggetto sociale, dovrebbe seguire nell’interpretazione, le regole oggettive.
Quindi:
 ATTO COSTITUTIVO parte negoziale, accordo tra i fondatori
 STATUTO parte organizzativa, rigida
Lo statuto abbiamo visto dall’articolo, prevale sul contenuto negoziale, quindi sono avallate le regole oggettive rispetto a quelle soggettive. Notiamo che questa norma non è richiamata per le srl.
Il problema di interpretazione del contratto costitutivo non è un problema di opponibilità ai terzi, ma serve a trovare la disciplina applicabile per quelle parti non previste, quindi per quelle questioni di carattere extra-statutario.
Se guardiamo all’efficacia del contratto in generale vediamo che se un dato non è presente nel contratto, non può essere opposto ai terzi. Per quanto riguarda i conflitti con i terzi, l’interprete usa il secondo comma dell’art. 2193 (Efficacia dell’iscrizione) come regola generale. Non possiamo usare quindi dati non presenti nel contratto per opporci ai terzi.
Questo ci porta a porci la questione del materiale extra-statutario in fase di interpretazione dei contratti costitutivi di società. La domanda è: in quale misura per interpretare il contratto il giudice può andare oltre e attingere ad altri documenti oltre lo statuto? Vediamo intanto quali potrebbero essere questi documenti:
 Comunicazioni che i soci si sono scambiati
 La prassi applicata nel tempo
 I patti parasociali, quegli accordi presi dai soci al di fuori del contratto.

4/12 – Convegno Class Action (Vedi file a parte)

Lezione 12/12/2008 – Maugeri
Interpretazione dello Statuto, del contratto costitutivo di spa, e di società di capitali
Avevamo iniziato a parlare dei limiti entro i quali è possibile per il giudice utilizzare materiale extra-statutario, extra-contrattuale, per l’interpretazione e per l’opponibilità a terzi. Questo materiale è costituito di solito dai patti parasociali, dalle dichiarazioni che i soci si scambiano, e dalla prassi. Ex art. 2193, sulla base della efficacia della pubblicità, dell’iscrizione, vediamo che è opponibile ai terzi solo quanto risultante dal contenuto del contratto, e dalla avvenuta iscrizione.
Vediamo le diverse utilizzazioni per il giudice e per identificare il fine a qui servono questi materiali, anche in riferimento alla volontà delle parti.
1° utilizzazione.
Il materiale extra-statutario è utilizzato per individuare UNA tra le POSSIBILI interpretazioni di UNA SINGOLA clausola, cioè serve per orientare, per selezionare l’interpretazione nella scelta tra le possibili interpretazioni di una clausola che è, quindi, suscettibile di diverse letture. In questo caso il giudice può servirsi del materiale per scegliere, per appunto orientarsi. Ad esempio: una srl controllata dal comune di Milano.. Ci si trova di fronte a una prima convocazione un giorno e a una seconda un altro giorno. Di fronte a questo conflitto che riguarda appunto la convocazione, dove ci si chiede se la seconda convocazione era legittima, il giudice che fa? Lo statuto non prevede niente, tace, e la legge anche lei non prevede niente. Oltretutto lo statuto non è adeguato alla riforma del 2003, e richiama infatti l’art. 2482 per la convocazione dell’assemblea ordinaria, facendo riferimento al numero di articolo vigente prima della riforma
Si va allora a guardare se esiste una prassi. Nel silenzio gli amministratori che fanno di solito? Sono soliti convocare anche in seconda? Nel caso specifico la risposta fu no, non c’era una prassi che vedeva convocati i soci in prima e anche in seconda, ma la cosa importante è che si è utilizzato, si è fatto ricorso a uno strumento extra-statutario, appunto la prassi, per interpretare e decidere.
2° utilizzazione.
Per ovviare a un ius superveniens, cioè al diritto sopravvenuto. Quando lo statuto, come nel caso ora citato, rinvia a una norma che è stata modificata. E’ una ipotesi molto frequente. Ad esempio: se nello statuto si fa riferimento, si rinvia a una norma vecchia relativa al quorum necessario per la delibera dell’assemblea, ed è invece vigente una nuova legge che prevede un nuovo quorum. Se il contenuto della legge si è modificato, allora a quale si deve fare riferimento, il rinvio nello statuto si intende al vecchio testo o al nuovo? Al contenuto della norma nel momento della redazione dello statuto o si intende che i soci volevano comunque intendere lo statuto come adeguato alla nuova normativa?
Anche in questo caso viene utilizzato il materiale extra-statutario, guardando il quorum come è stato usato dai soci fino a questo momento.
Ci sono però anche dei LIMITI all’utilizzo del materiale extra-statutario, un limite oggettivo e uno soggettivo.
Limite SOGGETTIVO: si può usare soltanto in ambito di controversie che riguardino i soci che hanno concorso a formare detto materiale. Il giudice può quindi usarlo solo per quei soci che hanno ad esempio scambiato le dichiarazioni, per un socio nuovo per esempio non può essere usato, così come non può essere usato per essere opponibile ai terzi.
Limite OGGETTIVO: in nessun caso si può addivenire a una interpretazione contraria al TENORE LETTERALE della clausola, non può forzare il significato della clausola. Se questo fosse possibile infatti, sarebbe come realizzare una modificazione del contratto sociale senza l’osservanza del procedimento pubblicitario previsto per appunto le modificazioni. Non rispetteremmo cioè l’art. 2436 c.c., che subordina infatti le modificazioni all’iscrizione della delibera nel registro delle imprese. Lo statuto infatti non recepisce la modifica se non dopo l’iscrizione. Se si usasse il materiale extra-statutario per allontanarsi dal tenore letterale della clausola statutaria sarebbe come modificarla.
I soci possono farlo UNA TANTUM, deliberando all’UNANIMITA’. I soci cioè con una deliberazione unanime possono fare una deviazione dallo statuto, ma solo una volta, e per un caso specifico, sono infatti considerate deviazioni occasionali, che servono per un atto, non sono modificazioni definitive. Ad esempio per l’acquisto di un immobile, per appunto un atto specifico, questo può essere autorizzato senza modifica dello statuto.
Facciamo un altro esempio. In una srl due soci dichiarano nello statuto che si resti in carica come amministratore per tre anni. In un successivo patto parasociale si attribuisce al socio di minoranza il diritto di restare amministratore per dieci anni. Allo scadere dei tre anni l’assemblea quindi non rinnova il socio di minoranza nel ruolo di amministratore. La delibera è conforme alla legge, conforme allo statuto, ma non è conforme al patto parasociale.
Precisiamo che il patto parasociale ha efficacia obbligatoria tra le parti che lo hanno stipulato, quindi il socio di maggioranza deve rimborsare il socio di minoranza, che ha avuto un danno dal mancato rispetto del patto parasociale.
Altro esempio: un altro patto parasociale prevede l’obbligo di non concorrenza, cioè i soci si obbligano, si impegnano a non fare attività in concorrenza con le imprese dei soci partecipanti.
Quindi eventuali joint-venture che le società dei soci potrebbero costituire non possono fare concorrenza alle singole società. Mettiamo il caso che il socio di maggioranza di una joint venture faccia ottenere il controllo di una società concorrente della società del socio di minoranza. La giurisprudenza ha ritenuto che sia nella prima ipotesi che nella seconda le delibere assembleari siano ANNULLABILI, perché in violazione di un patto parasociale sottoscritto da TUTTI i soci. Quindi sembra che un patto parasociale sottoscritto da tutti abbia efficacia reale e che prevalga sullo statuto. Ma non è questo che la giurisprudenza ha preso come criterio. I giudici hanno ritenuto che tali delibere fossero contrarie alla legge perché violavano i principi di:
 correttezza – art. 1175 “Comportamento secondo correttezza”
 buona fede – art. 1375 – Dei contratti in generale “Esecuzione di buona fede – il contratto deve essere eseguito secondo buona fede”
principi che devono governare TUTTI i contratti, quindi anche quelli parasociali. Così come l’art. 1366 che impone una interpretazione secondo buona fede. Il materiale extra-statutario può quindi essere utilizzato, ma rispettando il criterio di BUONA FEDE, l’utilizzo ha il Limite della BUONA FEDE.
Art. 1366 c.c. – “Il contratto deve essere interpretato secondo buona fede.”

Vediamo ora il rapporto tra il contratto preliminare e il contratto definitivo di società.
Partiamo anche qui dal contratto PRELIMINARE tra privati, di scambio, in generale. Innanzitutto deve essere stipulato nella stessa FORMA che avrà poi il contratto definitivo, e deve avere lo stesso CONTENUTO. Inoltre, come sappiamo, il contratto preliminare dà obbligo di stipulare, quindi il giudice in caso di controversia, o di inadempimento, può con una sentenza essere causa di risarcimento (per responsabilità extra-contrattuale, perché siamo in fase preliminare), ma può vedersi anche richiedere una sentenza che abbia effetti come il contratto non concluso (art. 2932 c.c. – Esecuzione specifica dell’obbligo di concludere un contratto). I principi base del contratto preliminare sono quindi:
1) Forma
2) Contenuto
3) Rimedio a inadempimento con sentenza in forma specifica
Ma questi principi possono essere applicati e utilizzati anche per il contratto di società?
Ricordiamo che per le società la disciplina riguarda una ATTIVITA’, ed è questo infatti l’orientamento della giurisprudenza, piuttosto che un orientamento contrattuale, che porterebbe ad applicare al preliminare costitutivo di una Spa le stesse regole di un contratto di scambio.
Esaminiamo l’art. 2328 c.c. – Società per azioni – Atto costitutivo – La società può essere costituita per contratto o per atto unilaterale. L’atto costitutivo delle essere redatto per atto pubblico e deve indicare….1) 2) etc.… seguono tredici punti…
L’atto pubblico è quindi un requisito formale, la redazione dal Notaio è condizione necessaria. Se dovessimo applicare i canoni privatistici anche il preliminare dovrebbe essere quindi fatto per atto pubblico, e dovrebbe contenere un contenuto minimo essenziale, i tredici punti dell’articolo, che vedremo poi in dettaglio.
Ma la società come abbiamo detto non è un contratto, ma è una forma organizzata di ATTIVITA’, quindi il contratto preliminare e il contratto definitivo sono posti su piani diversi.
 Il contratto PRELIMINARE di società ha significato NEGOZIALE, vincola le parti, è il momento negoziale tra le parti, ed è un PROGRAMMA di un PROGRAMMA.
 Il contratto DEFINITIVO di società ha significato invece ORGANIZZATIVO, è il momento organizzativo di disciplina dell’attività.
C’è quasi un muro che separa questi due momenti, profondamente diversi.
Vediamo uno alla volta i canoni privatistici e confrontiamoli con il contratto societario.
La FORMA – per il preliminare di costituzione di società di capitali quindi NON E’ RICHIESTA la forma solenne, obbligatoria per il definitivo, vige il principio di LIBERTA’ DI FORMA. Anche per le società di persone è richiesta la forma scritta, ai fini dell’iscrizione, la quale è necessaria per l’opponibilità ai terzi. Nel contratto privato la forma è causa di NULLITA’ se è ad substantiam, cioè se la legge la prevede espressamente. In particolare l’art. 1350 indica i contratti che hanno la forma ad sustantiam e sancisce la pena di nullità.
Art. 1350 c.c. – Della forma del contratto – Atti che devono farsi per iscritto – “Devono farsi per atto pubblico o per scrittura privata, sotto pena di nullità: segue elenco. “
L’art. 2328 invece vediamo che tace sul punto, non recita “sotto pena di nullità”, esclude quindi già la nullità del preliminare, ma se esaminiamo l’art. 2332 vediamo che questo recupera la possibilità di nullità.
Art. 2332 – Nullità della società – “Avvenuta l’iscrizione nel registro delle imprese, la nullità della società può essere pronunciata soltanto nei seguenti casi: 1) mancata stipulazione dell’atto costitutivo nella forma dell’atto pubblico; 2) etc. etc.”
L’atto pubblico era un requisito formale già previsto dal Legislatore del 1942, ma risponde anche a una direttiva comunitaria, in particolare la prima, sulle formalità da osservare per la costituzione di una Spa, che prescrive che sul contratto costitutivo di società per azioni debba intervenire un CONTROLLO dell’autorità, giudiziaria o amministrativa, o di un pubblico ufficiale (Notaio). Subordina quindi la costituzione ad un controllo.
L’ordinamento per certe fattispecie prevede la forma solenne, l’atto pubblico (per es. per le donazioni, per i contratti immobiliari), per i beni più rilevanti, per rendere edotte le parti della RILEVANZA dell’atto che stanno compiendo.
Questo significato privatistico si può pensare anche per l’art. 2328? No, perché la prima direttiva dice che va previsto l’atto pubblico non per un interesse delle parti, ma per tutelare l’interesse dei TERZI, dei terzi che entreranno in contatto con la società, vista l’attività. Quindi un controllo teso alla tutela di altri, perché l’atto, e lo statuto, è un insieme di regole per l’attività che la società svolgerà nei confronti di terzi, ha un significato quindi meta-individuale, quindi non ha senso prescrivere la forma come requisito formale per il preliminare, che ha invece rilevanza solo per le parti, cioè rilevanza negoziale. La direttiva ha rafforzato una scelta del legislatore del ’42 e ha dato indicazioni di interpretazione per la scelta dell’atto pubblico.
IL CONTENUTO - Il contenuto del preliminare abbiamo visto che in ambito privatistico deve essere conforme al definitivo, per quanto riguarda le società il preliminare deve almeno contenere le indicazioni necessarie, per lo meno il TIPO di società, e la descrizione dell’attività, cioè l’OGGETTO SOCIALE.
L’ESECUZIONE IN FORMA SPECIFICA – Un autore (Borgioli) afferma che l’esecuzione in forma specifica del contratto preliminare si distingue in questo caso tra:
 società di persone – NON PRATICABILE perché nel silenzio del contratto i soci di società di persone hanno potere di amministrare, e questo corrisponde a un facere incoercibile, non si possono costringere. Afferma questo perché mette al centro dell’esecuzione del contratto appunto un FACERE dei soci.
 società di capitali – PRATICABILE, rimedio esperibile, perché nelle società di capitali i soci non possono amministrare, nel silenzio del contratto. Il contratto non prevede che i soci lo eseguano amministrando la società, serve la forma specifica.
L’impostazione di questo autore non è accoglibile perché la disciplina dell’attività non può essere contenuta in una SENTENZA GIUDIZIARIA.
Il preliminare contiene sì il tipo e l’oggetto sociale, ma le regole che organizzano l’attività non possono essere decise da un giudice, tutti gli altri 11 punti dell’art. 2328 c.c. non possono essere decisi in sede giudiziaria. Quindi l’articolo sulla esecuzione specifica (art. 2932 c.c.) non può essere applicato al preliminare di società.
Esaminiamo ora più in dettaglio il contenuto dell’atto costitutivo della Spa.
Riprendiamo l’articolo 2328 c.c. e facciamo una distinzione tra gli elementi citati. Si possono dividere in elementi
 ESSENZIALI: necessari per l’iscrivibilità nel registro delle imprese, e questi a loro volta divisi in:
 ASSOLUTAMENTE necessari: tanto che se non compaiono l’atto non può essere iscritto e rende anche la società instabile, cioè può essere dichiarata nulla in qualsiasi momento. Questi elementi si ricavano dall’articolo sulla nullità, l’art. 2332, al numero “3) mancanza nell’atto costitutivo di ogni indicazione riguardante la denominazione della società, o i conferimenti, o l’ammontare del capitale sociale, o l’oggetto sociale.”
 SEMPLICEMENTE necessari: non può essere iscritto l’atto ma nel caso in cui, per un qualsiasi motivo venisse iscritto la società può esistere (es. un errore del Notaio, uno scarso controllo da parte dell’ufficio del registro)
 EVENTUALI: la mancanza non impedisce l’iscrizione nel registro delle imprese, si supplisce con la norma di legge. Es. il numero 7) dell’art. 2328 che richiede di indicare “le norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti”, nel caso questo dato non apparisse nell’atto si intende sostituito con la norma che regola la divisione degli utili (art. 2350 c.c. – Diritto agli utili e alla quota di liquidazione), quindi non impedisce l’iscrizione. Sono eventuali anche quei dati che indicano elementi sottintesi, ricavabili, come ad esempio i numero 4) e 5) riguardo l’indicazione del capitale sociale, del numero e del valore nominale delle azioni, avendo già indicato il capitale e il numero delle azioni si può omettere il valore nominale perché si ottiene dividendo il capitale per il numero delle azioni, e viceversa, se viene indicato il valore nominale si può fare la divisione:
CAPITALE SOCIALE : VALORE NOMINALE = NUMERO AZIONI
Facciamo degli esempi: il comune dove risiede la società è un dato semplicemente necessario, perché serve per la notifica degli atti, ma non provoca nullità, invece la denominazione è un dato assolutamente necessario. La durata è un dato eventuale, se non c’è si considera a durata indeterminata.
I punti 9) 10) e 11) dell’art. 2328 indicano dei dati semplicemente necessari.
Vediamo ora in dettaglio uno degli elementi essenziali: l’oggetto sociale. E’ anzi assolutamente necessario e la sua mancanza determina nullità.
La nozione di OGGETTO SOCIALE è determinata dall’art. 2247, e si identifica quindi con una ATTIVITA’ ECONOMICA, e sottolineiamo attività. Non è società un contratto che ha ad oggetto il compimento di un solo atto. Un singolo atto, da non confondere però un singolo AFFARE, che ha un significato più complesso rispetto all’atto. L’affare, infatti, ha un certo grado di complessità organizzativa che in realtà può formare oggetto di una società, anche se magari riguarda una sola opera, perché si protrae nel tempo, e ha anche tanti investimenti. L’esempio classico è la costruzione del ponte sullo stretto di Messina.
Il solo ATTO invece è caso mai una società occasionale, perché manca proprio il requisito dell’attività. Come diceva il Prof. Gambino, l’organizzazione di una singola gita, è un singolo atto, occasionale, più di una gita diventa poi a discrezione del giudice valutare se si è costituita una organizzazione tale che configura una attività, e quindi una società.
L’attività, inoltre, deve essere ECONOMICA, si esclude quindi il mero godimento. Non si configura una società se più persone utilizzano un singolo bene, anche in modo organizzato, ad esempio un immobile, solo per mero godimento. In tal caso si fa riferimento alla disciplina della comunione (ex art. 2248 c.c.).
Se invece per esempio l’immobile viene affittato a terzi, si trasferisce quindi il valore d’uso di quel bene, si vende a terzi il diritto di godimento, ecco che diventa una attività economica. Si configura un godimento INDIRETTO, della proprietà, del bene, in quanto si percepisce il canone di affitto. Il godimento DIRETTO invece dà luogo a attività economica se si tratta di un bene PRODUTTIVO, ad esempio un complesso aziendale, usandolo, godendone, facendolo produrre, si esercita una attività economica.
Così come il prestare una somma di denaro, con interessi, dà luogo a un godimento INDIRETTO, di tale somma.
Per concludere, solo il PURO GODIMENTO del SINGOLO BENE NON DA’ LUOGO a attività economica.

Vediamo ora un altro aspetto dell’oggetto sociale. Poniamo che questo preveda una attività commerciale E anche delle attività culturali, o degli scopi religiosi, o di beneficienza, delle attività IDEALI. Come si fa a decidere se si configura un’attività economica o meno, si applica il principio di prevalenza? No, perché in sede di costituzione non si può prevedere quale sarà l’attività prevalente della società, non c’è un criterio per stabilire ex ante cosa farà di più la società. La risposta è che l’oggetto sociale NON PUO’ contenere attività diverse da quelle economiche. La partecipazione poi a eventi di beneficienza, a attività ideali, equivale a fare atti di sponsorizzazione, atti di promozione dell’immagine, per la visibilità dell’azienda, sono fatte a supporto dell’INTERESSE SOCIALE, non sono l’oggetto sociale. Le finalità ideali non definiscono l’oggetto sociale, ma sono poste in essere nell’interesse sociale, a compimento dell’attività economica (pubblicità).
Altri profili rilevanti dell’oggetto sociale. Vediamo l’art. 2437 c.c. che elenca le ipotesi in cui un socio ha diritto di recedere.
Art. 2437 c.c. – Diritto di recesso – Hanno diritto di recedere, per tutte o parte delle loro azioni, i soci che non hanno concorso alle deliberazioni riguardanti: a) la modifica della clausola dell’oggetto sociale, quando consente un cambiamento significativo dell’attività della società b) la trasformazione della società …. Omissis…
Lo Statuto può anche ampliare le ipotesi elencate nell’articolo, in ogni caso la prima è la più rilevante per noi, riguarda la modifica dell’oggetto sociale, quindi un cambiamento di attività, che dà diritto al socio di recedere, se è SIGNIFICATIVO. E’ un problema pratico diffusissimo. E se per esempio avviene l’abbandono di UN CAMPO di attività, questo può determinare il recesso? Un cambiamento significativo significa, si traduce di solito in una sostituzione di un attività prevista nell’oggetto sociale con un’altra. Non è significativo se ci si limita ad AMPLIARE il campo di attività verso settori AFFINI a quello attuale. Esempio un società produce burro e decide di produrre anche margarina, non è un cambiamento significativo. Se invece la nuova attività non è affine (da burro a produzione di scarpe), si devono valutare le condizioni di rischio del socio, perché potrebbero cambiare.
E se l’oggetto sociale comprende anche un’attività mai svolta, e questa viene eliminata, dà diritto questa eliminazione al recesso del socio? No, perché l’oggetto sociale è considerato un PROGRAMMA, cioè ciò che la società potenzialmente può fare, come attività, quindi è una modifica comunque significativa. Il socio ha accettato il rischio così come descritto nell’oggetto sociale, ha sottoscritto un programma in tutti i suoi aspetti, quindi questo sarebbe un cambiamento significativo per lui.
Oltre tutto la questione è tanto più rilevante quanto sono numerosi i soci.
Vediamo ora l’art. 2361 c.c., (di cui abbiamo già incontrato il secondo comma quando abbiamo esaminato la partecipazione delle società di capitali nelle società di persone) in particolare il primo comma.
Art. 2361 - Partecipazioni - “L’assunzione di partecipazioni in altre imprese, anche se prevista genericamente nello statuto, non è consentita, se per la misura e per l’oggetto della partecipazione ne risulta sostanzialmente modificato l’oggetto sociale determinato dallo statuto. …. omissis….. “
Questo comma dell’art. 2361 c.c. attribuisce all’oggetto sociale il ruolo di LIMITE DI GESTIONE DEGLI AMMINISTRATORI, perché riguarda l’assunzione di partecipazioni in imprese connesse all’oggetto sociale della società. Ad esempio una società che produce burro, gli amministratori usano i capitali per acquisire una partecipazione in una fabbrica di scarpe, che diventa quindi una controllata, e quindi indirettamente la società produce anche scarpe, e quindi modifica DI FATTO l’oggetto sociale. E’ questa una norma a tutela della competenza assembleare dei soci, perché spetta solo a loro modificare l’oggetto sociale, il quale definisce le condizioni di rischio degli investitori.

Altro profilo di rilevanza. Gli amministratori hanno anche il potere il RAPPRESENTANZA, della società. L’oggetto sociale costituisce un limite anche a questo potere? Gli amministratori della nostra società che produce burro comprano un terreno con dei vigneti, quindi per fare il vino. Intanto il contratto sarebbe nullo se risultasse contrario all’oggetto sociale. E poi ci domandiamo se si applicherebbe il limite al loro potere di rappresentanza.
Art. 2384 – Poteri di rappresentanza – “Il potere di rappresentanza attribuito agli amministratori dallo statuto o dalla deliberazione di nomina è generale. Le limitazioni ai poteri degli amministratori che risultano dallo statuto o da una decisione degli organi competenti non sono opponibili ai terzi, anche se pubblicate, salvo che si provi che questi abbiano intenzionalmente agito a danno della società”
Il primo comma dell’articolo attribuisce quindi un potere generale. E il secondo comma indica la non opponibilità ai terzi di eventuali limiti, salvo che non ci sia un DANNO. Si può opporre quindi l’estraneità all’oggetto sociale solo se si dimostra che c’è un danno, cioè che hanno agito intenzionalmente per danneggiare la società, cioè l’ exceptio doli.
L’oggetto sociale è un limite statutario al potere di rappresentanza degli amministratori, opponibili solo nei limiti del DANNO. Nel diritto comune è onere del terzo solo di accertare i poteri, di visionare in caso la PROCURA, i traffici sarebbero rallentati se ogni volta si dovesse verificare i poteri degli amministratori per ogni atto che ipoteticamente potrebbe essere collegato all’oggetto sociale. Ciò che è necessario con i terzi è solo mostrare di avere i poteri, e poi in caso si può opporre il fatto che abbiano causato un danno, non che abbiano agito non potendo, non avendo il potere di farlo. Per questo si applica infatti l’art. 2384, secondo comma, che mette solo il limite del DANNO.
Facciamo un ultimo esempio: una banca, controllante, concede e garantisce un finanziamento a una società controllata. C’è il rischio che stia agendo contro l’oggetto sociale? Il Cda, che ha concesso il finanziamento, ha potere generale, illimitato, salvo come dicevamo il DANNO. Quindi la garanzia, il finanziamento dato a una controllata in realtà non fa danno, anzi, è a salvaguardia del gruppo intero.
L’art. 2384 secondo comma è una norma di portata rilevantissima, perché garantisce la snellezza degli affari e delle operazioni, che altrimenti dovrebbero ogni volta verificare se l’operazione va a toccare l’oggetto sociale.

Lezione 19/12/2008 – Maugeri (le lezioni riprenderanno il 27/02/2009)
Abbiamo affrontato nelle lezioni precedenti gli elementi del contratto costitutivo di società e la loro divisione in eventuali e essenziali, e questi ultimi a loro volta divisi in necessari assolutamente e necessari semplicemente, a seconda che incidano o meno sulla condizione di iscrizione al registro delle imprese.
Abbiamo poi esaminato l’oggetto sociale. Vediamo oggi altri due istituti fondamentali per l’impresa: la DENOMINAZIONE e il CAPITALE SOCIALE.

La denominazione
Per definire la denominazione, darle un significato, anzi per dargliene tre, possiamo ricollegarci al termine e alla definizione della SOCIETA’, ai suoi tre significati:
1) Disciplina di una attività
2) Contratto
3) Soggetto
Questi tre significati del concetto di società corrispondono, e vediamo come, a tre significati del termine denominazione. La denominazione quindi è:
1) Il nome del SOGGETTO societario. Come qualunque altro soggetto anche la società ha un nome CIVILE, che gode infatti della tutela che l’ordinamento riconosce ai nomi, all’uso e alla lesione dei nomi delle persone fisiche. Come recita infatti l’art. 7 del codice civile “Tutela del diritto al nome – La persona, alla quale si contesti il diritto all’uso del proprio nome o che possa risentire pregiudizio dell’uso che altri indebitamente ne facciano, può chiedere giudizialmente la cessazione del fatto lesivo, salvo il risarcimento dei danni…..”
2) L’identificazione del rapporto contrattuale, cioè del CONTRATTO costitutivo del tipo di società. Vediamo il criterio di formazione della denominazione, nell’art. 2329 c.c. – “Denominazione sociale – la denominazione sociale, in qualunque modo formata, deve contenere l’indicazione di società per azioni”. La norma indica un criterio generale, anche se nello specifico cita la società per azioni, e obbliga quindi a indicare nella denominazione il TIPO di società, il tipo di rapporto giuridico, deve identificare il rapporto CONTRATTUALE societario. Ricordiamo che per le società di persone si parla di RAGIONE SOCIALE, non di denominazione, e contiene per retaggio storico il nome della famiglia, per identificare appunto la famiglia proprietaria della società. Art. 2292 c.c. – Ragione sociale - La società in nome collettivo agisce sotto una ragione sociale costituita dal nome di uno o più soci con l’indicazione del rapporto sociale….”
3) Per quanto riguarda l’ATTIVITA’, la denominazione rappresenta anche il segno distintivo dell’impresa, cioè dell’attività economica svolta dalla società, che è appunto il significato di ditta. La denominazione ha quindi anche significato di DITTA, cioè di disciplina dell’attività, secondo il titolo del codice civile che disciplina l’azienda. Le regole che governano la ditta sono contenute nell’ art. 2563 ss. c.c., ma si applicano davvero tutte alla denominazione?
No, in realtà se ne applicano solo alcune, vediamo quali. La Regola della NOVITA’, per evitare il pericolo di confusione Art. 2564 c.c.”Quando la ditta è uguale o simile a quella usata da altro imprenditore e può creare confusione per l’oggetto dell’impresa o per il luogo in cui questa è esercitata, deve essere integrata o modificata con indicazioni idonee a differenziarla. Per le imprese commerciali l’obbligo dell’integrazione o modificazione spetta a chi ha iscritto la propria ditta nel registro delle imprese in epoca posteriore.”
Nel secondo comma è evidente la regola della novità, di conseguenza in conflitti si risolvono basandosi sul criterio di pubblicità commerciale, cioè chi ha registrato per primo prevale sull’altro, nel caso che ci siano ditte simili. Tuttavia si applica anche, in certi casi, l’efficacia negativa dell’iscrizione, ossia se non ti sei iscritto al registro delle imprese, ma puoi dimostrare un uso precedente della ditta, ma soprattutto puoi dimostrare la conoscenza presso terzi della tua ditta, precedente a quella iscritta, tu puoi prevalere.
La Regola della LICEITA’, invece, è quella che prevede che nella denominazione non vengano inseriti elementi contrari al buon costume e all’ordine pubblico, regola generalissima, applicabile sempre e in ogni circostanza.
Per quanto riguarda invece la Regola della VERITA’, indicata nell’art.2563 secondo comma “La ditta, comunque sia formata, deve contenere almeno il cognome o la sigla dell’imprenditore, salvo quanto disposto dall’art. 2565” si può applicare alla denominazione? La regola è posta affinchè non si possa indurre in errore, le indicazioni devono essere rispondenti a dati veritieri, riguardo al nome e all’attività svolta. Se si dovesse applicare vorrebbe dire che la denominazione dovrebbe indicare SEMPRE il tipo di attività svolta. Facciamo un esempio. La FIAT per esteso significa Fabbrica Italiana Automobili Torino, quindi sembra rispettare la regola, perché fabbrica automobili e ha sede a Torino. Ma in realtà la società del gruppo che è quotata è la holding, che è una società finanziaria, che detiene le partecipazioni delle società del gruppo, e questa holding si chiama sempre FIAT. Quindi è illecita questa denominazione? Oppure se la Fiat cambiasse sede, e si trasferisse a Milano, dovrebbe modificare la denominazione in FIAM? La risposta a entrambe le domande è NO. Si dovrebbe in caso addirittura vietare la modifica dell’oggetto sociale, se non si modifica anche la denominazione, per rispettare rigorosamente la regola della verità, il requisito richiesto per la ditta. Ma non c’è traccia di questo divieto, il requisito va inteso in realtà solo IN SENSO STORICO, cioè si tende a richiamare nella denominazione le caratteristiche che la società aveva all’epoca della costituzione, la denominazione non diventa poi un limite ai cambiamenti successivi, ad esempio di sede. La società quindi può avere UN SOLO NOME, ma avere PIU’ DITTE, cioè diverse attività.
E’ una cosa che capita molto spesso. Se si pensa poi ad esempio alle operazioni di fusione, vediamo che spesso, anzi quasi sempre, la società INCORPORANTE mantiene ovviamente la sua denominazione, acquisisce la ditta dell’impresa incorporata, della quale si perde la denominazione. Come quando è avvenuta l’incorporazione Olivetti/Telecom, è stata modificata la denominazione appunto in Telecom, ma si è conservata la ditta Olivetti, cioè il contenuto della sua attività, alla quale ha aggiunto quella di Telecom. Quindi UNA denominazione, ma DUE ditte.
Ecco quindi i diversi significati della DENOMINAZIONE e la differenza nell’applicazione della disciplina prevista per la DITTA, quando si osserva la denominazione nel suo significato di ATTIVITA’.

Il capitale sociale.
L’istituto del capitale sociale innanzitutto non va confuso con il PATRIMONIO SOCIALE e con il PATRIMONIO NETTO.

Il Patrimonio sociale è il complesso di rapporti giuridici, attivi e passivi, che fanno capo al soggetto societario. Il soggetto societario ha quindi un patrimonio come qualsiasi altro soggetto, come chiunque di noi, crediti e debiti. Questo patrimonio assolve alla funzione di GARANZIA ex art. 2740, la responsabilità patrimoniale, che infatti abbiamo tutti. In realtà in materia societaria ci sono alcune deroghe, per favorire alcune iniziative economiche, e assolve anche a una funzione PRODUTTIVA, cioè forma oggetto di una attività di gestione, serve per creare nuova ricchezza, è la base dell’attività che si svolge, viene usato per produrre di più.
Il Patrimonio netto invece ha un significato prettamente CONTABILE, è una grandezza ottenuta detraendo dalle attività le passività, e si suddivide in altre grandezze, in particolare tra CAPITALE SOCIALE E RISERVE.
Se in uno stato patrimoniale abbiamo attività (cassa, crediti etc.) per 100 e passività (debiti etc.) per 60, il patrimonio netto risulterà di 40. Questi 40, che ricordiamo non sono beni, è bene ricordare che non sono beni perché spesso il capitale sociale viene identificato con la ricchezza presente in azienda, come se questi 40 fossero in soldi effettivamente in cassa, quindi disponibili, liquidi. Non è così, il capitale sociale e le riserve sono GRANDEZZE meramente CONTABILI. Il capitale sociale e le riserve, che dividiamo in:
 riserva LEGALE
 riserve STATUTARIE
 riserve FACOLTATIVE
sono concetti normativi, rappresentano cioè un complesso di regole, sono dei VINCOLI DI INDISPONIBILITA’ DELL’ATTIVO della società, più o meno intensi, vediamo ora come.
Procedendo infatti dal capitale sociale vediamo che si riduce il vincolo di indisponibilità, il capitale sociale ha il massimo di indisponibilità, si attenua già con la riserva legale, poi ancora con le riserve statutarie per avere il minimo di vincolo con le riserve facoltative.
Rileviamo ora, e approfondiremo poi, il fatto che negli Stati Uniti non c’è l’istituto del capitale sociale, e partiamo ora da una funzione essenziale del capitale sociale, la funzione di GARANZIA. Non si può distribuire ricchezza ai soci che non sia stata effettivamente creata nella gestione dell’impresa. Il sistema continentale, diciamo europeo, rispetto agli Stati Uniti, usa proprio il sistema del capitale sociale e del bilancio per evitare che venga distribuita ricchezza creata al di fuori dell’impresa, e quindi fuori dal capitale sociale.
Il capitale sociale lo troviamo infatti indicato nelle PASSIVITA’, in quanto rappresenta un DEBITO verso i soci, e in questo caso la società rappresenta la disciplina del finanziamento, che vede infatti i soci come CREDITORI, però RESIDUALI, come abbiamo visto nelle lezioni precedenti, si segue cioè la regola della disponibilità, i valori corrispondenti alla cifra del capitale sociale possono essere corrisposti ai soci sono dopo che sono stati soddisfatti tutti gli altri creditori.
Il capitale sociale, che NON E’ un valore a sé, non può essere recuperato se non in fase di scioglimento. Può però avvenire una restituzione ai soci, nel caso della RIDUZIONE del capitale sociale, che comporta infatti una restituzione prima dello scioglimento, ma è soggetta a due stringenti regole:
 La regola di COMPETENZA: deve esserci una delibera dell’assemblea straordinaria, perché rappresenta una modifica allo statuto.
 La regola di TUTELA dei creditori sociali, che rispecchia il vincolo di disponibilità.
Queste regole le troviamo nell’art. 2445 c.c., che disciplina la riduzione del capitale sociale, e in particolare al terzo comma: ….”La deliberazione può essere eseguita soltanto dopo novanta giorni dal giorno dell’iscrizione nel registro delle imprese, purchè entro questo termine nessun creditore sociale anteriore all’iscrizione abbia fatto opposizione”.
Se queste regole non sono rispettate si commette un REATO.

Ora torniamo alle riserve, che rappresentano gli altri vincoli di indisponibilità, i quali hanno il massimo livello come abbiamo visto per il CAPITALE SOCIALE, del quale non si può disporre fino a che i creditori non sono stati soddisfatti, e fino a che non sono esaurite appunto le riserve.
La riserva legale. La riserva legale è una regola di destinazione dell’utile disciplinata dall’art. 2430.
Art. 2430 – Riserva legale – dagli utili netti annuali deve essere dedotta una somma corrispondente almeno alla ventesima parte di essi per costituire una riserva, fino a che questa non abbia raggiunto un quinto del capitale sociale. La riserva deve essere reintegrata a norma del comma precedente se viene diminuita per qualsiasi ragione. Salve le disposizioni di leggi speciali”.
Quindi per legge bisogna accantonare la ventesima parte degli utili ogni anno finché non si è raggiunto un accantonamento pari al quinto del capitale sociale. Quindi in caso di PERDITE di esercizio la riserva legale precede il capitale sociale, viene intaccata PRIMA LA RISERVA LEGALE, e poi il capitale sociale, la cui integrità ha quindi questo grosso freno, limite. La riserva legale ha un forte vincolo di indisponibilità.
Le riserve statutarie. Sono riserve previste dallo statuto, il quel ne descrive la destinazione. Anche queste sono accantonamenti, e hanno un vincolo di indisponibilità dei valori dell’attivo di molto inferiore rispetto a quello del capitale sociale. Seguono naturalmente delle regole. Una distribuzione della riserva statutaria ai soci presuppone, come la riduzione del capitale sociale, una delibera dell’assemblea straordinaria, perché distribuendo i valori della riserva legale si modifica lo statuto, cosa compito dell’assemblea appunto straordinaria. In questo caso però non c’è il potere di opposizione dei creditori sociali, infatti il vincolo di indisponibilità è attenuato, se ne può disporre con meno vincoli. In caso di PERDITA d’esercizio questa intacca prima la riserva statutaria, poi la riserva legale e poi il capitale sociale.
Le riserve facoltative. Hanno un vincolo molto attenuato, il loro utilizzo può essere deliberato in quasiasi momento dall’assemblea ordinaria, e non c’è potere di opposizione dei creditori.
Il vincolo di indisponibilità può quindi essere rappresentato come un cono, che si stringe al punto massimo al capitale sociale.

______________________ riserve facoltative
________________ riserve statutarie
___________ riserva legale
_____ capitale sociale
Anche la riserva facoltativa è una posta contabile, che viene attaccata dalle perdite per PRIMA, insieme all’UTILE di esercizio. Abbiamo utile quando il patrimonio netto alla fine dell’esercizio è maggiore del patrimonio netto esistente all’inizio dell’esercizio, quindi durante l’anno devono essere o aumentate le attività, o diminuite le passività, visto che il patrimonio netto è la differenza tra attività e passività.
Facciamo un esempio:
STATO PATRIM
ATT. PASS.
500 400 Patrimonio netto all’inizio dell’esercizio = 100
550 400 Patrimonio netto alla fine dell’esercizio = 150
L’ UTILE è pari a 50, la differenza tra attività e passività è aumentata di 50.
Ricordiamo che queste sono tutte GRANDEZZE CONTABILI, sono valori contabili, NON LIQUIDITA’ effettiva, non soldi in cassa o in banca, perché qualcuno pensa che avere un utile di 50 voglia dire avere da qualche parte 50 in contanti.
L’art. 2424, alla lettera A) del Passivo, indica la completa articolazione del patrimonio netto:
A) Patrimonio netto:
i. Capitale
ii. Riserva da sovrapprezzo azioni
iii. Riserve di rivalutazione
iv. Riserva legale
v. Riserve statutarie
vi. Riserva per azioni proprie in portafoglio
vii. Altre riserve, distintamente indicate
viii. Utili (perdite) portati a nuovo
ix. Utile (perdita) dell’esercizio
Noi ci focalizziamo sulle riserve statutarie facoltative e legale. Facciamo un altro esempio. Il nostro patrimonio netto di 100 risulta così suddiviso:
CAPITALE SOCIALE = 40
RISERVA LEGALE = 10
RISERVE STATUTARIE = 20
RISERVE FACOLTATIVE = 30
Mettiamo di avere una perdita di 50, che deve essere imputata a queste poste del patrimonio netto. Se consideriamo anche l’utile di 50, questo è il primo che viene intaccato, se no le prime sono le riserve facoltative, poi quelle statutarie, come da cono di prima. In nessun caso una perdita può intaccare il capitale sociale finchè esistono riserve di patrimonio netto.
In caso, andremmo ad applicare l’art. 2446 c.c., che prevede l’obbligo di convocare l’assemblea per prendere provvedimenti, nel caso in cui il capitale venga intaccato di oltre un terzo.
Art. 2446 – Riduzione del capitale per perdite – Quando risulta che il capitale è diminuito di oltre un terzo in conseguenza di perdite, gli amministratori o il consiglio di gestione, e nel caso di loro inerzia il collegio sindacale ovvero il consiglio di sorveglianza, devono senza indugio convocare l’assemblea per gli opportuni provvedimenti. … omissis..”
Intanto da questo rileviamo che gli amministratori hanno il dovere di monitorare continuamente il capitale sociale, per prevenire se possibile di intaccarlo, e anzi si prevede l’intervento di altri organi in caso di loro inerzia.
Mettiamo che la nostra perdita sia di 65, senza utili precedenti. Useremmo quindi le riserve facoltative per 30, le riserve statutarie per 20 e quella legale per 10, ma dovremmo intaccare anche il capitale sociale per 5, quindi lo intacchiamo ma non di un terzo. Se invece la perdita fosse di 75, stesso utilizzo delle riserve, ma il capitale risulterebbe intaccato per più di un terzo (cioè per 15, e un terzo di 40 è 13,3333), quindi si deve applicare l’art. 2446.
Se l’anno successivo avessimo un utile, ipotesi di 20, per sapere cosa fare andiamo a vedere il terzo comma dell’ art. 2433 (distribuzioni degli utili ai soci) e vediamo che “Se si verifica una perdita del capitale sociale non può farsi luogo a ripartizione di utili fino a che il capitale sociale non sia reintegrato o ridotto in misura corrispondente”.
Quindi con il nostro utile di 20 l’anno successivo dobbiamo prima ricostituire il capitale sociale intaccato dalla perdita, e ricostituire la riserva legale, proprio perché appunto lo prevede la legge, e poi possiamo distribuire una eventuale differenza di utile ai soci. La riserva statutaria e la riserva facoltativa non sono obbligatoriamente da ricostituire, dipendono dalla volontà dei soci. Il terzo comma dell’art. 2433 quindi proibisce di distribuire utili ai soci finché il capitale sociale non sia stato ricostituito.
Il capitale sociale come abbiamo visto è nelle passività, quindi si può concludere che più è basso più è facile fare UTILE (infatti tante società hanno solo il minimo legale di capitale, vedremo poi il concetto di società sotto-capitalizzate). Più il capitale sociale è elevato più bisogna sforzarsi di aumentare le attività, per fare utile.
Cataloghiamo allora le funzioni della disciplina del capitale sociale, che sono sostanzialmente quattro:
1) Funzione di GARANZIA – serve a stabilire se la società ha conseguito o meno un utile nell’esercizio, e evita che ai soci sia distribuito un attivo non corrispondente a una ricchezza effettivamente creata nella società. Così assolve la funzione di garanzia/tutela dei creditori sociali. Anche il patrimonio sociale ha questa funzione, nel senso che costituisce il patrimonio del soggetto, ex art. 2740, mentre il capitale sociale non corrisponde ai beni su cui valersi, ma rappresenta quel complesso di regole che impedisce la distribuzione ai soci se i creditori non sono soddisfatti.
2) Funzione ORGANIZZATIVA – fornisce il criterio per misurare la posizione partecipativa dei soci. Maggiore è la quota di partecipazione del singolo azionista, maggiore è il suo peso all’interno della società. Questo fatto nella Spa ha rilievo tipologico, nella Srl ha meno rilievo tipologico in quanto con lo statuto si può attribuire (ex art. 2468 c.c.) diritti particolari ai soci indipendentemente dalla consistenza della loro quota di capitale detenuta.
3) Funzione PRODUTTIVA – Anche questa funzione è propria del patrimonio sociale, oltre che del capitale sociale, ma anche qui c’è una differenza, perché il patrimonio sociale forma oggetto di attività di gestione per creazione di ricchezza, mentre il capitale sociale serve per mantenere all’interno dell’impresa valori economici in misura corrispondente alla cifra di capitale. E’ sempre possibile quindi trovare nell’impresa valori corrispondenti alla cifra totale del capitale sociale. E’ quindi funzionale al concetto di ATTIVITA’.
Come abbiamo già visto, per il concetto di attività c’è una differenza fondamentale, ad esempio con i fondi comuni di investimento, che essendo restituibili in ogni momento, non possono supportare l’attività, cosa che invece può fare il capitale sociale, anch’esso considerato finanziamento dei soci, ma vincolato da regole che lo identificano come funzionale all’attività.
4) Funzione INFORMATIVA – imponendo agli amministratori come abbiamo visto un costante dovere di monitoraggio sull’andamento della gestione, per accertare che si siano verificate o meno delle perdite di capitale (art. 2446 c.c.), il capitale sociale ha quindi anche la funzione di informare i soci riguardo un eventuale approssimarsi di una situazione di crisi dell’impresa. Ha la funzione di campanello d’allarme, che può chiamare i soci a intervenire. Se vediamo anche l’art. 2250, al secondo comma prevede l’obbligo di inserire il capitale sociale in tutti gli atti e la corrispondenza della società, proprio per obbligo di informare i terzi e i soci sul suo andamento. Va indicato la cifra, il capitale versato dai soci e soprattutto realmente esistente, cioè al netto delle perdite che lo abbiano eventualmente intaccato. La carta intestata e gli atti devono recepire le eventuali modifiche.

Il minimo legale del capitale sociale.
Il minimo legale rappresenta l’insieme dei conferimenti minimi che i soci per legge devono effettuare al fine della costituzione di una società di capitali, e sono (art. 2327 per spa):
 € 120.000 (centoventimilaeuro) per la S.P.A.
 € 10.000 (diecimila euro) per la S.R.L.
Vediamo ora perché la legge subordina la costituzione di una società per azioni al versamento di una somma minima, neanche tanto elevata. La risposta data dalla dottrina è in genere che questo garantisca la SERIETA’ dell’iniziativa economica. Ha una ragione storica, il minimo legale è stato introdotto nel 1942, e la spa doveva avere un capitale di almeno un milione di lire e la srl di ventimila lire, quindi selezionava molto chi aveva i mezzi per intraprendere e chi non li aveva. Con la svalutazione monetaria, queste grandezze hanno perso significato, hanno perso valore. Oggi il capitale sociale non è più idoneo a identificare la serietà, quindi oggi ha un nuovo significato e una nuova funzione, il minimo legale, la prospettiva del capitale sociale si è spostata verso la tutela dei terzi creditori, innanzitutto, e verso anche una prospettiva dei soci stessi.
L’articolo 2447 c.c. prevede che se il capitale sociale scende sotto il minino, e ha una perdita di oltre un terzo del totale, questo vada reintegrato, o deve essere deliberata la trasformazione della società (es. da spa in srl) o addirittura deve essere applicato lo scioglimento.
Art. 2447 – “Riduzione del capitale sociale al di sotto del limite legale – Se per la perdita di oltre un terzo del capitale, questo si riduce al di sotto del minino stabilito dall’art. 2327, gli amministratori o il consiglio di gestione o in caso di loro inerzia, il consiglio di sorveglianza devono senza indugio convocare l’assemblea per deliberare la riduzione del capitale e il contemporaneo aumento del medesimo ad una cifra non inferiore al detto minimo, o la trasformazione della società.”
Ad esempio, una spa con capitale sociale di 120.000 euro, ha una perdita di oltre un terzo, mettiamo di 80.000 euro. I soci devono reintegrare, trasformare la società in una srl (o anche in una società di persone) o deliberare lo scioglimento.
Andare sotto il minimo impone ai soci l’ONERE (attenzione non l’obbligo), in caso di crisi dell’investimento, di effettuare un nuovo investimento, onere perché questo sarebbe un adempimento nel loro interesse, qualora volessero conservare la struttura organizzativa propria delle società di capitali. La regola dice infatti che i soci, in caso di crisi, sono tenuti a nuovo esborso se vogliono restare ad essere una spa, o una srl, se vogliono mantenere questa struttura organizzativa, cioè continuare a godere del beneficio della spa. che perderebbero che non ricostituissero, tramite un nuovo versamento, il capitale sociale.
Una prospettiva moderna, ma molto acuta, identifica questo BENEFICIO nella partecipazione azionaria, vista come possesso di un BENE, trasferibile.
La sotto-capitalizzazione come dicevamo si configura quando il capitale sociale è inadeguato al conseguimento dell’oggetto sociale, ed essendo le cifre legali piuttosto basse, questo può capitare spesso. La domanda che sorge è quindi: come mai non si pensa ad aumentare il limite minimo? Non si pensa ad un aumento della soglia minima, quindi alzare una barriera più alta all’ingresso di nuove società nel mercato, perché innanzitutto non si potrebbe quantificare a priori un limite per tutti gli oggetti sociali, sono tantissimi e diversissimi, e poi si impedirebbe una libera iniziativa economica.
Ma esiste un divieto espresso che esclude la costituzione di società con un oggetto sociale che è ovviamente e manifestamente troppo complesso e impegnativo rispetto alla cifra minima legale del capitale? Ci sono delle norme, argomentiamo questo concetto del divieto proprio con le norme, e vediamo se esiste o meno per davvero un freno se il capitale sociale è manifestamente inadeguato all’oggetto sociale (es. SRL che hanno ad oggetto la costruzione di ponti).
a) L’art. 2253, ad esempio, di portata generale, compensa la “bassezza” del minimo legale. Art. 2253, secondo comma “se i conferimenti non sono determinati, si presume che i soci siano obbligati a conferire, in parti uguali tra loro, quanto è necessario per il conseguimento dell’oggetto sociale.” Si possono dare diverse letture, è vero che l’articolo impone una conformità dei conferimenti all’oggetto sociale, ma questo vale soltanto nel momento della costituzione della società, non durante il suo funzionamento. Cioè, ciò che rileva è l’oggetto sociale nel contratto costitutivo, ma poi in seguito si prescinde sia dalle dimensioni successive della società, dell’impresa, sia da eventuali successive modifiche dello stesso oggetto sociale.
b) L’art. 2445 invece, prima della riforma subordinava l’eseguibilità della riduzione del capitale sociale al fatto che il capitale fosse ESUBERANTE rispetto al conseguimento dell’oggetto sociale, la cosiddetta riduzione per esuberanza, cioè quando il capitale era superiore alla necessità dell’oggetto sociale. Questo limite è caduto nel 2003, con la riforma, cioè è caduto ogni riferimento all’esuberanza, si può deliberare la riduzione anche se non c’è “esuberanza” del capitale rispetto all’oggetto sociale.
c) L’art- 2484 al numero 4) prevede lo scioglimento della società per capitale insufficiente. Nell’elencare le cause di scioglimento, individua uno scioglimento della società ex-post, se la società difetta di elementi essenziali, non una nullità ex-ante, cioè non prevede prima una distinzione tra le iniziative sociali adeguate al capitale sociale o meno.
Ma né a) né b) né c) possono essere utilizzati e considerati come divieti di sotto-capitalizzazione cioè dei freni per evitare che vengano messe in atto tramite società delle iniziative non solide. E poi se dovessimo adeguare il capitale sociale continuamente all’oggetto sociale questo si configurerebbe come un elemento di VALIDITA’ del contratto sociale. Cioè se nella vita della società dovesse essere continuamente adeguato il capitale all’oggetto, ad ogni variazione delle dimensioni si dovrebbe modificare il capitale. Dal punto di vista applicativo poi sarebbe impossibile, pensate se un Giudice dovesse valutare in continuazione nei casi propostigli se un capitale sociale sia adeguato o meno, non ne avrebbe la possibilità né per competenze tecniche né per tempi di approfondimento sull’attività della società. La distinzione tra iniziative solide, che deve essere fatta necessariamente ex-ante, per consentire in caso la costituzione o meno di una società, non è applicabile con l’art. 2484 che come abbiamo visto prevede lo scioglimento solo ex-post.
La svalutazione della funzione del minimo legale è quindi molto svalutata, ma a questa svalutazione la dottrina sta cercando di reagire. Si sta assistendo in realtà a una vera e propria crisi del capitale sociale, o meglio della disciplina del capitale sociale, che è stata messa in crisi anche da recenti orientamenti della Corte di Giustizia delle Comunità europee, in particolare in tre sentenze sulla libertà di stabilimento nella UE. La Libertà di stabilimento è uno dei principi cardine dell’Unione europea, e si concretizza nella possibilità per una società costituitasi in uno stato membro di operare in un altro stato membro. Si sono dati dei criteri di uniformità minima, cioè tramite delle direttive comunitarie gli stati recependole hanno istituito dei livelli minimi comuni per tutelare i soci e i terzi, garantiti quindi da queste direttive comunitarie. Gli stati membri come sappiamo sono obbligati a recepire queste direttive, quindi un limite minimo comune di tutela si trova dappertutto nella UE.
Facciamo un esempio, una società costituita in Spagna viene ad operare in Italia, ma potrebbe benissimo avvenire il contrario, una società italiana va a operare in Spagna. Ci si chiede, ma quale disciplina si dovrebbe applicare nei conflitti? Ci sono due teorie.
1° teoria della sede EFFETTIVA – si applica la disciplina della sede della società operativa, cioè dove opera (nel primo caso quindi quella italiana)
2° teoria della INCORPORAZIONE – questa è la teoria più coerente con la libertà di stabilimento, che assoggetta la società alla legge del paese dove è stato fatto l’atto costituito (nel primo caso, la Spagna). La libertà di stabilimento infatti consente ai privati di costituire una società in un paese e di operare poi in un altro con l’atto costitutivo valido.
Come dicevamo la Corte di Giustizia CE ha dovuto applicare il principio di libertà di stabilimento in casi relativi alla disciplina del capitale sociale. Società costituite in ordinamenti che non prevedevano il capitale sociale minimo, ma operavano poi in territori che lo prevedevano. E’ stato chiamato il forum shocking. Le società tendono ovviamente a scegliere l’ordinamento più conveniente dove costituirsi.
Ad esempio il caso di una società danese (Centros). La Danimarca ha una disciplina rigorosa per quanto riguarda il capitale sociale, così come ce l’ha la Germania. I soci non volevano versare il minimo legale per costituire una LLC (limited liabilities company), perciò andarono a costituirla in Inghilterra, ma poi in Danimarca gli rifiutarono l’iscrizione al registro delle imprese per elusione del versamento del capitale minimo. Nella causa che ne seguì la Corte di Giustizia diede torto all’ufficio delle imprese danese, per violazione della libertà di stabilimento.
Ad un’altra società non è stata data capacità processuale a Dusseldorf perché era stata costituita in Inghilterra, e anche qui la Corte di Giustizia a dato torto al tribunale. Ad un’altra società olandese non è stato potuto opporre il divieto di operare per società estera. Secondo la Corte di Giustizia si deve applicare il diritto inglese, che non prevede un minimo di capitale sociale.
Ecco che quindi la UE sta svuotando di contenuto il capitale sociale, gli sta infliggendo un colpo durissimo, e si sta avvicinando sempre più al diritto americano. Negli USA ogni stato ha il suo diritto societario, quindi gli operatori scelgono lo stato dove costituirsi, ovviamente quello più comodo. Ad esempio lo stato del DELAWARE ha pochissimi vincoli di costituzione per le società, molte vengono quindi costituite lì e poi vanno ad operare altrove, ad esempio in Texas.

Questo discorso vale molto per le SRL, un po’ meno per le SPA, perché il legislatore comunitario ha previsto per le società per azioni molte più regole, ha emesso più direttive per tutti gli stati membri, quindi la tutela è molto più estesa. Per le SRL invece c’è proprio concorrenza tra stati, la corsa a quello più conveniente. La UE non prevede molte regole per le SRL perché pensa che i terzi possano informarsi da soli riguardo la disciplina della società, l’informazione sulla costituzione e gestione delle SRL è più facilmente ottenibile, i creditori possono informarsi meglio, si dice che l’Europa applica il MODELLO DEL CREDITORE INFORMATO.
Questo non è un argomento validissimo, il fatto cioè che per la SRL sia più facilmente conoscibile la disciplina dello stato dove si è costituita. Comunque per ora è questo il criterio seguito dalla Corte di Giustizia.


DIRITTO COMMERCIALE II – secondo semestre
Lezione 27/02/2009 – Maugeri
Riprendiamo il discorso sul MINIMO legale del capitale sociale e sulle sue funzioni. Gli articoli in particolare che abbiamo esaminato sono 2253, 2245 e 2484 c.c. Abbiamo parlato del principio di adeguatezza del capitale sociale e la sua funzione per individuare il costo che i soci devono sostenere per l’organizzazione capitalistica dell’attività, cioè il capitale come complesso di regole di partecipazione societaria come se fosse un bene, cioè il suo aspetto di specchio della partecipazione azionaria dei soci, nel caso che questi volessero trasferirla come se fosse un bene.
Il capitale sociale non è quindi solo un insieme di valori, ma ha quattro funzioni specifiche:
a) DI GARANZIA – è un complesso di valori dell’attivo che restano sempre nella società a garanzia dei creditori sociali, indica di quanto l’attivo deve superare il passivo affinché ci sia un utile, da poter distribuire ai soci;
b) ORGANIZZATIVA – misura i diritti dei soci, la funzione organizzativa indica idoneità del capitale a offrire un criterio di misurazione del capitale nei soci;
c) PRODUTTIVA – è una funzione conseguente alla prima, di garanzia, i valori conservati nel capitale sociale consentono e garantiscono la produzione, cioè l’esercizio dell’impresa;
d) INFORMATIVA – l’art. 2250 esige che negli atti e nella corrispondenza sia indicato il capitale sociale, così che i terzi che entrano in contatto con la società sappiano e abbiano informazioni sul rischio, su quanto capitale c’è a garanzia.

La funzione informativa si ricollega alla riduzione del capitale sociale per perdite, l’art. 2446, che impone agli amministratori di convocare l’assemblea quando il capitale sociale si ritrovi ridotto di oltre un terzo, in conseguenza di perdite. Questo obbligo è necessario perché gli amministratori informino i soci tempestivamente sull’andamento dell’impresa, per predisporre eventuali azioni e provvedimenti di risanamento.
Queste funzioni del capitale sociale sono state criticate, e in particolare il minimo legale è stato considerato inutile, perché non garantisce il più delle volte come cifra l’esercizio di una attività. Si è diffusa una dottrina che parla di ADEGUATA CAPITALIZZAZIONE, si parla cioè di un obbligo dei soci a dotare la società di un capitale adeguato al conseguimento dell’oggetto sociale.
Esaminiamo a questo proposito gli articoli 2253, 2445, e 2448 (oggi 2484) c.c., prima della riforma.
ART. 2253 C.C. – Conferimenti – Il socio è obbligato a eseguire i confermimenti determinati nel contratto sociale. Se i confermimenti non sono determinati, si presume che i soci siano obbligati a conferire in parti eguali tra loro, quanto è necessario per il conseguimento dell’oggetto sociale.
Sembra quindi, guardando questa norma, che i soci siano obbligati a versare cifre superiori a quanto stabilito dalla legge, oltre il limite legale, ma per fare questo servirebbero degli esperti economisti che stabiliscano quanto possa essere necessario per ogni specifico oggetto sociale, che cifre ogni volta siano necessarie per esercitare correttamente l’attività


ART. 2445 – Riduzione del capitale sociale – La riduzione del capitale sociale può aver luogo sia mediante liberazione dei soci dall’pbbligo dei versamenti ancora dovuti, sia mediante rimborso del capitale ai soci, nei limiti ammessi dagli artt. 2327 e 2413…
Questo articolo consente di deliberare la riduzione volontaria del capitale sociale, ma solo a condizione che il capitale sociale sia ESUBERANTE rispetto al conseguimento dell’oggetto sociale. Serviva un nesso di corrispondenza tra capitale sociale e oggetto sociale.
ART. 2484 ( ex 2448) – Cause di scioglimento – 4) per la riduzione del capitale al di sotto del minimo legale..
Quindi la riduzione del capitale sociale sotto il minimo legale implica una causa di SCIOGLIMENTO. Ma se appunto la riduzione al di sotto del minimo è causa di scioglimento, e se il minimo legale è la base minima di adeguatezza, vuol dire che la società non sopravvive se priva di un capitale sociale adeguato al conseguimento dell’oggetto sociale. Una parte di dottrina dice appunto che non può sopravvivere con un capitale sociale inadeguato all’oggetto sociale, ma c’è stato un cambiamento con la riforma del 2003.
Veniamo ora all’art. 2467, sul finanziamento dei soci, che rappresenta una regola di applicazione COSTANTE, tenendo presente che il capitale sociale è costituito da conferimenti, ma anche da prestiti, finanziamenti dei soci.
ART. 2467 – Finanziamenti dei soci - Il rimborso dei finanziamenti dei soci a favore della società è postergato rispetto alla soddisfazione degli altri creditori e, se avvenuto nell’anno precedente la dichiarazione di fallimento della società, deve essere restituito.
Ai fini del precedente comma s’intendono finanziamenti dei soci quelli in qualsiasi forma effettuati, che sono stati concessi in un momento in cui, anche in considerazione del tipo di attività esercitata dalla società, risulta un eccessivo squilibrio dell’indebitamento rispetto al patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento.
La congiunzione con il criterio di adeguatezza è che stiamo parlando di una regola di postergazione di finanziamenti fatti a società sottocapitalizzate.
La sottocapitalizzazione può essere:
• NOMINALE – se le risorse necessarie al conseguimento dell’oggetto sociale sono messe a disposizione dei soci come CREDITO, a titolo di CREDITO. Ad esempio, se serve un capitale di 200.000 euro per l’attività, e i soci hanno messo il minimo legale, il rimanente 190.000 è composto da finanziamenti. La società è quindi sottocapitalizzata nominalmente, e finanziatori sono creditori, da rimborsare per primi secondo la regola di postergazione.
Da ricordare che le norme servono sempre per equiparare interessi contrapposti, nel caso specifico quelli dei soci e quelli dei creditori sociali, per risolvere quindi i conflitti che potrebbero insorgere.
• MATERIALE – si ha invece quando la società non è dotata dai soci dei fondi necessari all’attività, quindi non è finanziata né con mezzi propri né con finanziamenti, ma la società dipende da finanziamenti di TERZI.
L’art. 2467, al secondo comma, è teso a risolvere la sottocapitalizzazione nominale, offre la nozione di finanziamento a cui si applica la regola di postergazione. La regola di soluzione del conflitto offerta dalla norma è appunto quella di postergazione, si pagano quindi prima i CREDITORI, che possono chiedere la restituzione in qualsiasi momento e lega quindi i soci alle pretese creditorie degli altri.
La sottocapitalizzazione determina come abbiamo visto un conflitto tra i soci (che hanno messo il capitale sociale) e i finanziatori sociali, che hanno messo gli altri fondi necessari all’attività, al conseguimento dell’oggetto sociale. L’art. 2467 indica come redimere il conflitto e identifica due criteri, due paramentri:
1) PATRIMONIALE – quando c’è un eccessivo squilibrio di indebitamento rispetto al patrimonio netto. Il patrimonio netto è composto da attività MENO le passività e si differenzia dal capitale sociale perché il capitale è una cifra fissa, da statuto, mentre il patrimonio varia a ogni esercizio secondo l’andamento dell’impresa. Se il patrimonio netto è superiore al capitale sociale si ha un UTILE, se è inferiore la società è quindi in PERDITA. Il patrimonio netto indica l’effettiva ricchezza della società. Entrambi sono grandezze contabili.
2) FINANZIARIO – ricollega la sottocapitalizzazione a una situazione finanziaria ove sarebbe stato ragionevole non un finanziamento ma un conferimento.
Questi due criteri alimentano la tesi contro la sottocapitalizzazione, cioè quella tesi che dice che i soci dovrebbero incrementare il capitale sociale affinché sia adeguato al raggiungimento dell’oggetto sociale. Infatti la norma dice “anche in considerazione del tipo di attività esercitata” quindi tenendo presente l’oggetto sociale, evidenzia che i mezzi propri non sono sufficienti.
Ma quando e soprattutto CHI stabilisce che il capitale è inadeguato? La norma questo non lo dice. La tesi sulla adeguatezza, contro la sottocapitalizzazione, si basa sul testo dell’art. 2253, che obbliga i soci a conferire quanto necessario.
ART. 2253 C.C. – Conferimenti – Il socio è obbligato a eseguire i conferimenti determinati nel contratto sociale. Se i conferimenti non sono determinati, si presume che i soci siano obbligati a conferire in parti eguali tra loro, quanto è necessario per il conseguimento dell’oggetto sociale.
Ma questo obbligo si applica SOLO IN FASE DI COSTITUZIONE, i soci non sono obbligati ad ulteriori conferimenti perché altrimenti la responsabilità LIMITATA, non sarebbe più tale, se ogni volta i soci dovessero provvedere ad incrementare la loro quota di capitale. Il Prof. Maugeri ha sottolineato proprio questo tema in un articolo sulla Rivista Banca Borsa e Titoli di credito.
Ma in FASE DI COSTITUZIONE ovviamente non può essere applicato l’art. 2467, perché non si può fare in questa fase una valutazione patrimoniale su quanto possa essere necessario per il raggiungimento dell’oggetto sociale. La norma opera solo in SITUAZIONE DI CRISI.
Vediamo quando opera la regola di postergazione (primo comma dell’art. 2467), in società sottocapitalizzate.
L’art. 2467 affianca e si applica in due situazioni particolari: quando durante il fallimento il socio è ancora creditore, e quando il rimborso del suo versamento è avvenuto nell’anno precedente al fallimento. Il curatore può quindi chiedere al socio la restituzione delle somme versate a rimborso fino all’anno precedente. Siamo di fronte praticamente a una AZIONE REVOCATORIA. Questo comporta che la regola di postergazione valga solo nel caso di fallimento della società. E questa è la cosiddetta TESI PROCESSUALISTICA, cioè una tesi che sostiene che la restituzione ai soci possa essere chiesta solo dopo l’apertura di una procedura concorsuale. Prima del fallimento, infatti, se il socio chiede la restituzione, gli amministratori devono restituirgli quanto richiesto. Così come la regola di postergazione può essere applicata solo in ambito concorsuale.
Azione revocatoria - E’ un mezzo legale di conservazione della garanzia patrimoniale, regolato dall'articolo 2901 del codice civile il quale consiste nel potere del creditore (revocante) di agire in giudizio per far dichiarare inefficace, nei suoi confronti, gli atti di disposizione patrimoniale coi quali il debitore arrechi pregiudizio alle sue ragioni. Sono presupposti del rimedio descritto: il credito del revocante, il pregiudizio arrecato dall'atto dispositivo del debitore alle ragioni del creditore, la conoscenza di questo pregiudizio da parte del debitore e, se l'atto è a titolo oneroso, la conoscenza del pregiudizio anche da parte del terzo. A livello soggettivo, innanzitutto si richiede la conoscenza del pregiudizio da parte del debitore, che deve essere consapevole di aver provocato, col suo atto di disposizione, una lesione alle ragioni del creditore. La conoscenza deve quindi avere ad oggetto il pericolo attuale e concreto dell'insolvenza: la prova di tale conoscenza è a carico dell'attore e, come per ogni stato soggettivo, può esser data per presunzioni. Serve la conoscenza effettiva del pericolo e non la conoscibilità; si sostiene però che alla conoscenza possa essere equiparata la colpa grave del debitore e quindi la sua assoluta negligenza (NICOLO’).
Ai fini della revocatoria, può poi essere necessaria anche la conoscenza da parte del terzo del pregiudizio arrecato al creditore: questo presupposto è essenziale quando l'atto dispositivo è a titolo oneroso. Alla malafede è equiparata la colpa grave. È terzo la parte sostanziale dell'atto dispositivo del debitore o comunque il suo destinatario.La prova di questa conoscenza deve essere data dall'attore. La conoscenza del terzo non è richiesta per gli atti a titolo gratuito( nei quali alla prestazione principale del debitore non segue una controprestazione da parte del terzo), i quali sono quindi revocabili a prescindere da qualunque considerazione soggettiva del destinatario.
Infine, quando l'atto dispositivo è anteriore al sorgere del credito, la revocatoria è esperibile solo se l'atto dispositivo è stato dolosamente preordinato in danno del creditore, cioè è stato scientemente diretto dal debitore a pregiudicare il soddisfacimento del credito. In questo caso, il terzo deve essere stato partecipe della dolosa preordinazione. Al contrario, qualora l'atto di disposizione sia successivo al sorgere del credito, non è richiesto il dolo specifico e basta quello generico (l'atto dispositivo è compiuto con la previsione cosciente del pregiudizio del creditore). La partecipazione del terzo alla preordinazione ricorre quando costui conosceva proprio la destinazione soggettiva dell'atto come finalizzata a creare danno al creditore (scientia fraudis): la prova può esser data per presunzioni. L'intento doloso non ricorre quando il debitore ha per tempo reso nota la sua condizione patrimoniale, consentendo al creditore di valutare la sua convenienza all'operazione
Può essere quindi a titolo oneroso o a titolo gratuito. A titolo oneroso quando gli atti sono normali, e il periodo sospetto è di 6 mesi (prima della legge fallimentare del 2005 era un anno).
A questa tesi si contrappone la TESI SOSTANZIALISTICA, che dice: ma siamo davvero di fronte a una azione revocatoria? La revoca del rimborso di un credito a un socio va collocata tra le azioni revocatorie? E a quali, a titolo gratuito o a titolo oneroso? Senz’altro oneroso, quindi dovrebbe rientrare nel periodo sospetto di 6 mesi, e soprattutto presupporre la conoscenza del terzo (in questo caso del socio) dello stato di insolvenza, oltre a dare in carico al curatore dell’onere della prova. Nell’articolo non c’è niente di tutto questo, ma una certa dottrina tenta di ricondurre l’art. 2467 all’azione revocatoria. Il curatore non deve provare alcun credito, e poi anche il periodo non concide, nel 2467 il periodo è di un anno, nell’azione revocatoria è sei mesi, come da Legge Falllimentare del 2005.
Quindi le differenze sono:
 diverso periodo sospetto
 non c’è l’onere della prova per il curatore
Si può provare allora a ricondurlo ad un’altra azione revocatoria diversa? Ad esempio l’art. 65 della Legge Fallimentare, i PAGAMENTI ANTICIPATI NON SCADUTI.


R.D. 267/1942 – Legge Fallimentare 80/2005.
Art. 65.- Pagamenti - Sono privi di effetto rispetto ai creditori i pagamenti di crediti che scadono nel giorno della dichiarazione di fallimento o posteriormente, se tali pagamenti sono stati eseguiti dal fallito nei due anni anteriori alla dichiarazione di fallimento.
Secondo questo articolo in un periodo di crisi, si rende momentaneamente inesigibile il credito del socio. Quindi l’eventuale rimborso effettuato dagli amministratori a un socio, in un momento di inesigibilità è considerato come il rimborso di un credito NON SCADUTO, soggetto quindi all’art. 65 L. Fallimentare.
Si applica la stessa regola degli atti a titolo gratuito. Gli atti successivi alla dichiarazione di fallimento sono INEFFICACI, ma anche un rimborso fatto prima della scadenza e prima della dichiarazione di fallimento (fino a due anni prima, come gli atti a titolo gratuito). Il socio rimborsato, come il creditore anticipato, è trattato come un creditore privilegiato, quindi la norma è una reazione alla par condicio credito rum.
Ma se si potesse applicare l’art. 65 della L. Fallimentare, e quindi se si potessero trattare i soci rimborsati come dei creditori l’art. 2467 non avrebbe senso. Il curatore avrebbe anzi due anni.
Questo porta a desumere che l’art. 2467 ha validità anche durante la vita della società. Cioè finchè perdura lo stato di sottocapitalizzazione, di cui al secondo comma dell’articolo, finchè la società è in squilibrio patrimoniale o in tensione finanziaria gli amministratore non hanno il potere di rimborsare al socio il finanziamento. La norma dice “è POSTERGATO” non fa riferimento a nessun periodo in particolare.
Gli interessi, la ratio, la funzione della norma è quindi operare una riqualificazione del finanziamento in conferimento, trattare cioè un finanziamento come se fosse un conferimento (quindi postergato), finchè perdura lo stato di crisi della società. Trattare il finanziamento di un socio, come un conferimento, non facendolo quindi rientrare tra i crediti esigibili.
Serve quindi anche a prevenire dei comportamenti opportunistici dei soci a danno dei creditori sociali, a ridurre l’incentivo dei soci a operare appunto a danno dei creditori. Se i soci per esempio perdono l’intero capitale sociale, potrebbero essere portati a chiedere agli amministratori di fare investimenti rischiosi, con però un alto tasso di rendimento (è tipico degli investimenti a rischio avere un tasso alto). Loro non perderebbero tanto nulla, perché la loro perdita è limitata al capitale, rischierebbero i soldi degli altri finanziatori/creditori, perché come detto il loro investimento resta limitato al capitale sociale, ci perderebbero solo i creditori sociali che hanno finanziato la società a titolo di CREDITO. Speculerebbero con i soldi dei creditori. La legge invece ecco che interviene e impedisce di speculare sulla postergazione, che invece privilegia i creditori. Questa è la vera funzione della norma.
Ma abbiamo visto che l’art. 2467 opera anche AL DI FUORI della procedura concorsuale, non è solo processualistica, è SOSTANZIALE. La conferma di questo la troviamo nella sua collocazione tipologica, infatti si trova nelal disciplina delle SRL, non delle SPA.
La disciplina di finanziamento dei soci in regime di sottocapitalizzazione è regolata quindi dall’art. 2467 c.c. e richiamata in tema di GRUPPI, all’art. 2497 quinquies.
Art. 2497 quinquies – Finanziamenti nell’attività di direzione e coordinamento – Ai finanziamenti effettuati a favore della società da chi esercita attività di direzione e coordinamento nei suoi confronti o da altri soggetti a essa sottoposti si applica l’articolo 2467.

Perché non nelle SPA, solo nella disciplina delle SRL e nei GRUPPI? Perché la postergazione trova applicazione solo su un soggetto INFORMATO, e in grado di INFLUIRE sulle scelte gestorie degli amministratori. Solo se il socio è coinvolto, è informato da vicino della situazione di crisi, e può agire, influire sui comportamenti degli amministratori. Solo quindi un socio di SRL (dopo la riforma) ha queste tipiche caratteristiche, il socio azionista della SPA non le ha, i soci delle spa non sono coinvolti nella gestione, non possono influire e speculare.
La capogruppo invece, ha come il socio della SRL, di intervenire verso le attività delle società del gruppo, per questo richiama l’art. 2467, e parla di DIREZIONE E COORDINAMENTO, attività che consentono di influire sulla gestione delle controllate.
Recentemente il tribunale di Pistoia ha applicato per analogia (casi simili) l’art. 2467 anche a un socio di una SPA. La società aveva due soci, e uno aveva presentato insinuazione al passivo per i finanziamenti da lui conferiti, e voleva essere trattato come un creditore. L’art. 2467 risolve i conflitti tra soci e creditori sociali e abbiamo visto impedisce ai soci di speculare, visto il legame del rischio del socio legato solo al suo conferimento.
Quindi la norma può essere applicata analogicamente OGNI VOLTA che c’è questa distinzione, tra soci e creditori sociali, naturalmente se l’impresa è in forma societaria. Quindi per applicazione analogica anche alle SPA e alle SOCIETA’ DI PERSONE, ma non alle Associazioni, perché l’associato non ha diritto al rimborso della sua quota associativa.
Non avendo però il legislatore espressamento esteso la norma alle SPA bisogna dimostrare la similitudine, oltre a trovare la LACUNA, necessaria a fare l’applicazione analogica.
Quindi se gli azionisti finanziatori di una SPA sottocapitalizzata sollevano un conflitto con i creditori sociali, si crea una lacuna legislativa, e va trovata la similitudine con il caso disciplinato dall’art. 2467 per poterlo applicare, che si ritrova solo nel fatto che i soci della SPA erano informati e potevano influire, quindi solo a spa piccole, ristrette, come appunto il caso di Pistoia, con due soci.
Quindi alle società quotate in Borsa, ad esempio, non si può applicare, perché gli azionisti non sono influenti nella gestione.
La postergazione comunque quindi VALE SEMPRE, e si traduce in una RIQUALIFICAZIONE DEL FINANZIAMENTO DEL SOCIO IN UN CONFERIMENTO, quindi postergato rispetto ai creditori.
Nel caso di Pistoia la società era già in fallimento, ma la regola vale sempre.
Se gli amministratori rimborsano un finanziamento ai soci in caso di crisi, è come se avessero restituito un conferimento al capitale sociale, che invece è postergato, quindi si verificherebbe un INDEBITO, e si applica la RIPETIZIONE DELL’INDEBITO, la restituzione, come da articolo 2467.
Oltretutto per tutto l’anno precedente si opera in regime di PRESUNZIONE ASSOLUTA di conoscenza dello stato di crisi da parte del socio. Cioè se il rimborso è stato effettuato nell’anno precedente, la società si trova senza possibilità di prova contraria. Ad esempio:
DICHIARAZIONE DI FALLIMENTO: 31/01/2009
Rimborso al socio: 30/10/2008 – entro quindi l’anno precedente
Il curatore può chiedere la restituzione senza avere l’ONERE DELLA PROVA, si presume che il socio sapesse già della crisi.
Rimborso al socio: 30/10/2007 – il curatore può agire per la restituzione solo se PROVA che la società era già insolvente, e quindi il socio lo sapeva.
Se quindi il rimborso risulta essere un INDEBITO, il finanziamento del socio è trattato alla stregua di un conferimento, e quindi postergato.

Lezione 06/03/2009 – Maugeri
Il CONTROLLO DEL NOTAIO sull’ATTO COSTITUTIVO DELLA società per azioni
Il ruolo del Notaio nella costituzione delle società si è andato rafforzando con il passare del tempo. Storicamente la costituzione di una spa nasce come frutto di una iniziativa GOVERNATIVA, politica, come abbiamo visto il caso della Compagnia delle Indie. Poi verso la fine del 1700, inizio dell’800, vediamo che la pubblica amministrazione ha il dovere di controllo sulle costituzioni di Spa frutto di iniziativa PRIVATA. Questo controllo è però prettamente di merito, cioè è una valutazione della opportunità della singola iniziativa economica. Con le codificazioni dell’800 vediamo che la costituzione della spa viene subordinata al rispetto di precise condizioni concernenti l’organizzazione corporativa e la disciplina del capitale, la cui verifica è rimessa all’ AUTORITA’ GIUDIZIARIA.
Da una iniziativa politica quindi, una concessione del sovrano, passando poi per una fase amministrativa di controllo, si arriva alla iniziativa privata e all’intervento dell’autorità giudiziaria, che effettua la cosiddetta OMOLOGAZIONE, che si concretizza nell’ordine di ISCRIZIONE AL REGISTRO DELLE IMPRESE.
Il controllo rimane quindi soggetto al controllo dell’autorità giudiziaria, in particolare al TRIBUNALE del luogo dove ha la sede legale la società, e questo controllo è funzionale all’ISCRIZIONE AL REGISTRO DELLE IMPRESE. In Italia questa procedura rimane in vigore fino al 2000, dal 2000 in poi la figura del giudice omologatario viene meno, cosa confermata ufficialmente con la riforma societaria del 2003, e il controllo del rispetto delle condizioni passa quindi al NOTAIO.
Vediamo ora quali sono i dati normativi da cui risulta il contenuto del controllo notarile.
 Art. 2330 c.c. (in fase di costituzione della società)
 Art. 2436 c.c. (in fase di modificazioni dello statuto)
 Art. 28 Legge Notarile (Legge 16 febbraio 1913, n. 89)
 Art. 138bis Legge Notarile (Legge 16 febbraio 1913, n. 89)

Art. 2330 c.c. – Deposito dell’atto costitutivo e iscrizione della società – Il notaio che ha ricevuto l’atto costitutivo deve depositarlo entro venti giorni presso l’ufficio del registro delle imprese nella cui circoscrizione è stabilita la sede sociale, allegando i documenti comprovanti la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 2329. … omissis …
L’articolo riguarda quindi il controllo del notaio in FASE DI COSTITUZIONE
Art. 2436 c.c. – Deposito, iscrizione e pubblicazione delle modificazioni – Il notaio che ha verbalizzato la deliberazione di modifica dello statuto, entro trenta giorni, verificato l’adempimento delle condizioni stabilite dalla legge, ne richiede l’iscrizione nel registro delle imprese contestualmente al deposito e allega le eventuali autorizzazioni richieste. …. Omissis ….
L’articolo riguarda quindi il controllo in fase di MODIFICAZIONI DELLO STATUTO.

Legge Notarile
Art. 28
Il notaro non può ricevere atti:
1. se essi sono espressamente proibiti dalla legge, o manifestamente contrari al buon costume o all'ordine pubblico;
2. se v'intervengano come parti la sua moglie, i suoi parenti od affini in linea retta, in qualunque grado, ed in linea collaterale, fino al terzo grado inclusivamente, ancorché v'intervengano come procuratori, tutori od amministratori;
3. se contengano disposizioni che interessino lui stesso, la moglie sua, o alcuno désuoi parenti od affini nei gradi anzidetti, o persone delle quali egli sia procuratore per l'atto, da stipularsi, salvo che la disposizione si trovi in testamento segreto non scritto dal notaro, o da persona in questo numero menzionata, ed a lui consegnato sigillato dal testatore.

Le disposizioni contenute nei numeri 2 e 3 non sono applicabili ai casi d'incanto per asta pubblica.

Il notaro può ricusare il suo ministero se le parti non depositino presso di lui l'importo delle tasse, degli onorari e delle spese dell'atto, salvo che si tratti di persone ammesse al beneficio del gratuito patrocinio, oppure di testamenti.
L’articolo indica quindi i termini generali della funzione di controllo del Notaio.

Legge Notarile
Art. 138-bis


1. Il notaio che chiede l'iscrizione nel registro delle imprese delle deliberazioni di società di capitali, dallo stesso notaio verbalizzate, quando risultino manifestamente inesistenti le condizioni richieste dalla legge, viola l'articolo 28, primo comma, n. 1, della presente legge, ed é punito con la sospensione prevista dal secondo comma dell'articolo 138 e con la sanzione amministrativa da lire 1.000.000 a lire 30.000.000.
2. Con sanzione amministrativa pari a quella di cui al comma 1 é punito il notaio che chiede l'iscrizione nel registro delle imprese di un atto costitutivo di società di capitali, da lui rogato, quando risultino manifestamente inesistenti le condizioni richieste dalla legge.

(La legge 24 novembre 2000, n. 340 ha disposto con l'art. 32 l'inserimento dell'art. 138-bis).
L’articolo riguarda la responsabilità del Notaio che riceve atti societari.

Ora che abbiamo visto le norme a cui fare riferimento nell’analisi del contenuto del controllo da parte del Notario, dobbiamo risolvere tre problemi.
1) Ma vi è davvero un controllo da parte del Notaio in fase di costituzione? Il Notaio deve effettivamente esercitare un controllo, secondo il c.c. ? Può sembrare una domanda anomala, ma vedremo che non lo è. Se confrontiamo gli artt. 2330 e 2436 vediamo che nell’art. 2330 la norma non dice “verificato l’adempimento delle condizioni stabilite dalla legge” , è silente su questa questione. Quindi il Notaio è esonerato dalla verifica? Sembrerebbe di no, invece la risposta si trova nei due articoli della Legge Notarile. L’art. 28 VIETA al Notaio di ricevere atti proibiti dalla legge, e che siano manifestamente contrari all’ordine pubblico e al buon costume, e l’art. 138bis commina una sanzione per il Notaio che riceve atti costitutivi o delibere assembleari quando siano manifestamente inesistenti le condizioni richieste dalla legge per quell’atto.
2) Il controllo del Notaio ha la stessa ampiezza in sede di costituzione e in sede di modificazioni? Se confrontiamo l’art. 2436 c.c. e l’art. 138bis L.Notarile risulta che: in sede di costituzione deve controllare che non siano “manifestamente inesistenti”, invece in sede di modificazioni la legge dice che deve verificare “l’adempimento delle condizioni”. Si può affermare che in entrambe le fasi il controllo abbia la stessa ampiezza, perché il 138bis disciplina solo il profilo della responsabilità AMMINISTRATIVA del Notaio, e tace sulla ampiezza dei doveri CIVILISTICI di controllo. Quindi è l’art. 2346 che determina l’ampiezza, che è quindi più ampia della singola resp. Amministrativa. Se il Notaio quindi viola i doveri di verifica incorre nella responsabilità sia CIVILE che AMMINISTRATIVA.
3) Qual è il CONTENUTO effettivo di questo controllo? Sicuramente NON è un controllo di MERITO, cioè non è un controllo sulla opportunità o meno dell’atto. Ad esempio non può rifiutarsi di stilare l’atto per sottocapitalizzazione della società, perché non c’è un principio che obbliga la società ad adeguare il capitale all’oggetto sociale. Ma non è neanche un mero controllo di legalità FORMALE. Il controllo non si limita infatti a verificare che sia presente la documentazione necessaria. Il controllo è di legalità SOSTANZIALE (questa definizione è dovuta a Scialoja, 1928), cioè il Notaio deve verificare: cause di NULLITA’ e TIPICITA’, accertare cioè che l’atto costitutivo sottoposto al suo esame presenti gli ELEMENTI COSTITUTIVI del TIPO indicato dalle parti nell’atto. Ad esempio il TIPO della SPA richiede la divisione del capitale in quote, quindi nell’atto deve esserci, oppure se il Notaio rileva che nell’atto c’è un obbligo di conferimento dei soci su semplice richiesta degli amministratori, questa è una cosa non prevista dalle regole della spa.
E’ dubbio se il Notaio possa sindacare su cause di ANNULLABILITA’ dell’atto costitutivo, ad esempio per incapacità di uno dei soci. Quello che è certo è che il Notaio non può e non deve svolgere indagini, valuta solo tabula, cioè sui documenti che gli vengono sottoposti. Anche se avesse dubbi, se pensasse che uno dei soci sia incapace di intendere e di volere, e quindi non si sia reso conto di cosa stesse sottoscrivendo, non può richiedere ulteriori documenti e verifiche.
Vediamo che l’art. 2330 e 2436 indicano per il Notaio un termine differente. Entro 20 gg la risposta per la costituzione e 30 gg. In caso di modificazioni.
Questo perché in fase di costituzione il Notaio non roga l’atto se non ci sono le condizioni di legge, invece se ci sono nasce per lui l’obbligo di deposito. In fase di modificazione invece, lui si limita a redigere il verbale, verbalizza cioè la delibera assembleare che contiene la modifica, e poi fa il controllo, che avviene quindi successivamente al verbale, ma prima di depositare, quindi il termine è più lungo.
Esaminiamo ora la questione della ISCRIZIONE AL REGISTRO DELLE IMPRESE, e in particolare due questioni:
• LA DISCIPLINA DEGLI ATTI COMPIUTI IN NOME DELLA SOCIETA’ PRIMA DELL’ISCRIZIONE e la
• NULLITA’ DELLA SPA
Se ci chiediamo che EFFICACIA ha l’iscrizione degli atti nel Registro delle imprese vediamo che ce l’ha di due tipi:
1) COSTITUTIVA – quando la pubblicità è condizione essenziale per il completamento della fattispecie (vedi artt. 2331 per gli effetti dell’iscrizione in fase di costituzione e 2436 quinto comma per gli effetti in fase di modificazione). Prima della riforma del 2003, che ha introdotto il quinto comma dell’art. 2436, c’erano un sacco di problemi riguardo la data da considerare per la modifica. Ad esempio: un versamento di soci di nuovo capitale fatto in assemblea. Che data bisognava prendere per considerare il capitale aumentato? Quella dell’assemblea? E se poi intercorrevano ad esempio un parere contrario del tribunale? Oggi la legge stabilisce il termine di efficacia, cioè la data di iscrizione al registro.
2) SANANTE – questo effetto si concretizza con il fatto che una volta iscritto, l’atto non può più essere dichiarato nullo, né annullato, questo per esigenza di certezza dei rapporti giuridici. L’iscrizione quindi sana tutti i vizi fatti salvi i casi indicati nell’art. 2332. Vedi anche l’art. 2504 quater, che rimanda a un risarcimento del danno per quei soci danneggiati da una fusione, dopo che questa è stata iscritta, e quindi non più sottoposta a invalidità. Ciò vuol dire che, ad esempio, cosa che succede spesso, durante una fusione il rapporto di cambio, cioè la stima di quante azioni la controllante debba assegnare ai soci della controllata, non sembri adeguato ai soci, con l’art. 2504 quater si stabilisce che una volta depositato l’atto di fusione i soci di minoranza non potranno comunque più opporsi, ma in caso chiedere solo il risarcimento del danno. L’unica alternativa che avevano era chiedere in caso PRIMA dell’iscrizione, di sospendere la delibera. Il principio di efficacia SANANTE dell’iscrizione, è nato infatti da una esigenza di stabilità, e investe sia l’atto costitutivo, sia le operazioni di fusione, scissione etc. ma NON le delibere di MODIFICAZIONE dello statuto, la cui iscrizione ha effetto COSTITUTIVO e NON SANANTE.

Vediamo ora gli ATTI COMPIUTI IN NOME DELLA SOCIETA’ PRIMA DELL’ISCRIZIONE.
Riprendiamo l’art. 2331 e ricordiamo un concetto molto importante: tutte le norme risolvono sempre dei conflitti di interessi. Quindi vediamo ora quali tipi di interessi sono coinvolti in questo articolo. Sono coinvolti tre tipi di interessi:
a) L’interesse dei SOCI a vedersi restituire TUTTI i conferimenti effettuati, qualora non si giunga all’iscrizione dell’atto costitutivo nel registro delle imprese (fatte salve le spese notarili, come vedremo più avanti).
b) L’interesse dei TERZI, che vanno tutelati, i terzi che entrano in rapporto con la società non ancora costituita. Facciamo un esempio: un amministratore, prima dell’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto costitutivo, stipula un contratto di acquisto di una partecipazione; ma non essendoci la registrazione la società non c’è ancora, e se poi non si costituisce?
c) L’interesse dei SOCI a compiere, prima della costituzione, atti di impresa INDIFFERIBILI. Ad esempio, nel caso di prima, se l’acquisto della partecipazione è un grosso vantaggio per i soci, questi sono interessati a che vada a buon fine, se la società si costituisce.
L’iscrizione nella costituzione di società ha NATURA COSTITUTIVA, la società si costituisce, cioè NASCE, solo con l’iscrizione nel registro delle imprese, prima non esiste. Quindi il patrimonio stanziato dai soci entra nella società solo DOPO.
Ma i conferimenti fatti prima, allora che fine fanno? Se il patrimonio della società si forma solo con l’iscrizione, i conferimenti dove restano fino a quel momento? Restano nel patrimonio DEI SOCI, non in quello della società, che NON ESISTE. Che conseguenza abbiamo però? Che i soci NE POSSONO QUINDI DISPORRE, le loro quote possono essere cedute, pignorate dai creditori etc.
Riguardo questo aspetto ci sono varie teorie in dottrina. Il Prof. Galgano per esempio ritiene che ci sia un effetto traslativo della proprietà dell’azienda sottoposto alla condizione SOSPENSIVA, che si perfezione poi all’iscrizione. Ma questa prospettiva non risolve la tutela degli interessi in gioco.
Un’altra teoria è quella elaborata da Giorgio Oppo negli anni sessanta e rielaborata poi dal Prof. Portale più recentemente.
G. OPPO – Tesi della SPA IRREGOLARE: l’iscrizione ha sì efficacia costitutiva, ma solo riguardo l’acquisto della personalità giuridica, non della soggettività, che ha già con la stipula dell’atto. Nasce quindi con l’atto costitutivo, secondo Oppo, il soggetto societario, ma la personalità giuridica di spa, e quindi il beneficio della limitazione della responsabilità, tipico delle società di capitale, nasce solo con l’iscrizione al registro.
PORTALE – Tesi della SOCIETA’ PRELIMINARE, o società in formazione, in divenire: si costituisce, secondo Portale, con l’atto costitutivo, un patrimonio autonomo, oggetto di gestione da parte degli amministratori, e questo patrimonio è sottratto ai poteri dispositivi dei soci conferenti, nonché sottratto da azioni esecutive da parte di creditori dei soci. Praticamente come un fondo, un trust. Si applicherebbero a questo patrimonio le regole della spa, e se poi non si giungesse all’iscrizione della società, questo patrimonio andrebbe liquidato secondo le regole dello scioglimento di una spa.

In Germania ci sono alcune sentenze che avvalorano questa tesi. Per quanto riguarda l’Italia vediamo ora su quali norme si basa appunto questa tesi.
Art. 2331 – quarto comma - … Se entro novanta giorni dalla stipulazione dell’atto costitutivo o dal rilascio delle autorizzazioni previste dal numero 3) dell’art. 2329 l’iscrizione non ha avuto luogo, esse sono restituite ai sottoscrittori e l’atto costitutivo perde efficacia.
Se l’articolo dice che l’atto costitutivo PERDE efficacia, vuol dire che allora CE L’AVEVA, quindi aveva comunque effetti, e questi effetti secondo Portale sono appunto quelli descritti nella teoria della società preliminare.
Art. 2342 – terzo comma – Per i conferimenti di beni in natura e di crediti si osservano le disposizioni….. Le azioni corrispondenti a tali riferimenti devono essere integralmente liberate al momento della sottoscrizione.
Questo articolo è più stringente, per la tesi in esame. Se dice che le azioni devono essere LIBERATE, vuol dire che il loro conferimento era stato ESEGUITO. Ricordiamoci che qui parliamo di conferimenti in natura, vedremo poi la differenza con quelli in denaro.
Si parla di integrale liberazione delle azioni in quanto il soggetto destinatario del conferimento, cioè la società costituenda, deve acquistarne subito la disponibilità giuridica e materiale, fisica, IMMEDIATAMENTE, cioè al momento della sottoscrizione dell’atto, non della registrazione. La legge vuole quindi che ci sia SUBITO un patrimonio, e vuole che l’intestazione giuridica di quel bene ci sia SUBITO, che il patrimonio diventi quindi subito AUTONOMO rispetto ai soci conferitori.
La terza regola che si può utilizzare a sostegno della tesi della società PRELIMINARE è individuabile all’art. 2331, quinto comma.
Art. 2331 – quinto comma – Prima dell’iscrizione nel registro è vietata l’emissione delle azioni ed esse, salvo l’offerta pubblica di sottoscrizione ai sensi dell’art. 2333, non possono comunque costituire oggetto di una offerta al pubblico di prodotti finanziari.
Questo articolo stabilisce quindi che prima dell’iscrizione sia VIETATA l’emissione di azioni e l’offerta al pubblico. Questa norma è stata modificata con la riforma del 2003, prima vietava anche la vendita, perché si affermava che NON ESISTEVANO, prima dell’iscrizione, partecipazioni sociali che potessero essere oggetto di transazioni. Nel 2003 il divieto di vendita cade, e rimane il divieto di emissione di titoli azionari. Questo al fine di un corretto funzionamento del mercato mobiliare.
Ma la vendita, oggi non più vietata, legittima la tesi che dice che prima dell’iscrizione ci siano partecipazioni azionarie alienabili, che possono essere cedute. Però l’iscrizione come abbiamo visto ha EFFICACIA COSTITUTIVA, quindi prima di questa la società NON ESISTE.
Maugeri non crede alle tesi indicate, secondo lui il patrimonio che si crea con l’atto costitutivo, e che vive fino a prima dell’iscrizione, la sua gestione interinale quindi, deve essere disciplinata dalle norme della:
 società semplice – se l’oggetto è agricolo
 società in nome collettivo – se l’oggetto è commerciale.
Considerando quindi un soggetto societario che nasce con l’atto, ma che non è ancora una spa.
Questo però solo se i CONFERIMENTI SONO IN NATURA, che devono fuoriuscire dal patrimonio del socio, perché devono essere gestiti.
o Se poi avviene l’iscrizione, nasce la società e il patrimonio confluisce nella società nuova.
o Se non avviene, i conferimenti sono restituiti NELLO STATO IN CUI SI TROVANO.
Per quanto riguarda i CONFERIMENTI IN DENARO, invece, che non devono essere gestiti, devono essere depositati presso una banca (vedi artt. 2342, secondo comma e 2331, quarto comma), e sono somme INDISPONIBILI da parte degli amministratori. La loro sorte sarà poi:
o se avviene l’iscrizione, nasce la società, confluiscono nella società e quindi sono gestibili dagli amministratori
o se non avviene, vengono restituiti ai soci
Vediamo ora l’aspetto della RESPONSABILITA’ degli atti compiuti prima dell’iscrizione.
Abbiamo visto che gli interessi in gioco sono:
- dei soci a vedersi restituire i conferimenti in caso di non iscrizione
- dei terzi che entrano in contatto con la società costituenda
- dei soci verso gli atti compiuti prima dell’iscrizione.
Per quanto riguarda la responsabilità verso i TERZI, c’è una duplice responsabilità, illimitata e solidale tra:
1) coloro che hanno agito (esempio gli amministratori che hanno sottoscritto contratto con un terzo)
2) i soci che hanno autorizzato o consentito l’atto gestorio
Art. 2331, secondo comma.
Per quanto riguarda la società UNIPERSONALE, cioè con un socio unico, vediamo che questo risponde anche se non ha autorizzato l’atto gestorio. Non incide quindi la sua volontà. Da dove nasce questa sua responsabilità senza scampo? La tesi prevalente la identifica in una RESPONSABILITA’ da POSIZIONE.
Ma che natura hanno queste responsabilità? Ci sono due tesi in materia. Ricordiamo che sono in ballo tre figure: SOCI – AMMINISTRATORI – SOCIETA’ (che però non esiste ancora)
a) I soci che hanno autorizzato l’atto ne rispondono in veste di MANDANTI, come se ci fosse un mandato senza rappresentanza, ma questo è in deroga alle norme in tema di mandato, perché il responsabile sarebbe in realtà in MANDATARIO. Oltretutto l’amministratore che compie l’atto si spende il nome della società, quindi è una doppia regola alle norme in materia di mandato.
Si deve parlare quindi di RESPONSABILITA’, di tutela del terzo supportata da GARANZIA EX LEGE. E’ proprio la legge che quindi tutela l’interesse dei terzi, affiancando a coloro che hanno agito anche i soggetti INTERESSATI. Simile ad esempio alla Fidejussione, il fideiussore, che è simile a quei soci che hanno autorizzato l’atto, risponde di un DEBITO ALTRUI.
b) Coloro che hanno agito risponderebbero, cioè avrebbero responsabilità degli atti in virtù della NEGOTIORUM GESTIO, cioè della gestione di affari.
Con l'espressione latina negotiorum gestio si indica un istituto giuridico del diritto privato, disciplinato nel Codice Civile agli articoli 2028 e seguenti. Si ha negotiorum gestio allorché un soggetto, detto gestore, svolga un'attività nell'interesse di un'altra persona del tutto spontaneamente, senza cioè averne avuto un precedente incarico da questi. Da questa attività sorgono, secondo il diritto, obblighi sia a carico del gestore, sia a carico del soggetto nei cui confronti l'attività è posta in essere: quanto al primo, egli sarà obbligato a portare a termine l'azione intrapresa fin quando l'interessato non sia in grado di provvedervi da sé stesso. Quanto al secondo, dovrà rimborsare al gestore le spese effettuate. Nel processo civile, l'istituto della negotiorum gestio è considerato inammissibile dalla dottrina prevalente, in quanto la tutela degli interessi in sede processuale è riservata al soggetto (attore) che si ritiene danneggiato
Quindi coloro che hanno agito sono responsabili per aver agito per un titolare di interessi, che però non può tutelare da solo i propri interessi, senza averne avuto incarico. Quindi un terzo (amministratore) cura gli interessi di un terzo (socio) e quest’ultimo è tenuto a risponderne.
Ma a ben guardare i soci hanno nominato loro gli amministratori, quindi per configurarsi la negotiorum gestio manca l’elemento di impossibilità, o dell’inerzia dei soci.
Si potrebbe ipotizzare la RAPPRESENTANZA SENZA RAPPRESENTATO, come ad esempio sono gli atti compiuti per il nascituro, per il concepito, un soggetto cioè che non ha potuto conferire rappresentanza ma va tutelato nei suoi interessi. Quando il rappresentato viene ad esistenza (il nascituro, o la società) acquisterà autonomamente i diritti. Ma abbiamo visto che la personificazione del soggetto societario si concretizza come REGOLE DI ATTIVITA’, non come soggettività giuridica. Questa tesi muove dalla personificazione, non dalla condizione.
c) Un terzo tipo di responsabilità che potrebbe configurarsi è quella del RAPPRESENTANTE SENZA POTERE. Colori che hanno agito, cioè, rispondono verso i terzi perché rappresentano senza poteri la società (vedi art. 1398 c.c.). Il cosiddetto falsus procurator.
Definizione: la figura della rappresentanza senza poteri investe le fattispecie in cui il rappresentante agisce senza essere munito dei poteri necessari perché ne è sprovvisto ab initio, o gli sono stati revocati o modificati, ovvero consapevolmente ha esorbitato i limiti fissati nella procura. Disciplina codicistica (artt. 1398-1399 c.c.): Il negozio compiuto dal falsus procurator non produce alcun effetto nella sfera giuridica dell'interessato, il quale, tuttavia, può con una propria dichiarazione di ratifica far proprio l'atto concluso da chi non aveva il potere di rappresentarlo. La ratifica è un negozio unilaterale recettizio nei confronti del terzo contraente e deve rivestire la forma prescritta dalla legge per la conclusione del negozio rappresentativo. Essa ha effetto retroattivo, ma non pregiudica i diritti acquistati dai terzi.Se non interviene la ratifica del dominus, chi contratta con un rappresentante senza poteri beneficia delle seguenti prospettive di tutela: può con il consenso del falso rappresentante sciogliere il contratto rappresentativo; può interpellare l'interessato assegnandogli un termine per pronunziarsi sulla ratifica; può agire nei confronti del falso rappresentante per il risarcimento dei danni nei limiti dell'interesse negativo, qualora abbia confidato senza sua colpa nella validità del contratto.
Ma se vediamo l’art. 1398 notiamo che nel caso del falsus procurator IL CONTRATTO stipulato con lui NON E’ VALIDO. L’interesse contrattuale tutelato del terzo è in negativo, può cioè chiedere il risarcimento del danno subito in mancanza della mancata conclusione del contratto, che non verrà mai stipulato (in positivo invece è quando anche se la parte è inadempiente, il contratto è ritenuto comunque valido, e se ne può chiedere l’esecuzione). L’art. 2331 muove invece proprio dalla validità, chi ha agito è tenuto a rispettare il contratto.
Anche questa tesi quindi non è valida, anche perché come potrebbe il terzo sincerarsi dei poteri dell’amministratore? Dovrebbe chiedere di visionare la procura, onere solitamente proprio a carico del terzo che ha a che fare con un rappresentante, per appurarne i poteri di firma.
L’art. 2331 solleva invece proprio il terzo da questo onere, dalla necessità di chiedere, di verificare i poteri del rappresentante, cioè dell’amministratore. Questo perché la legge vuole facilitare le transazioni, e i compimenti di atti della futura società nel lasso di tempo che passa tra l’atto costitutivo e la iscrizione al registro delle imprese, ma al tempo stesso tutela il terzo che sottoscrive questi atti.
Dopo l’iscrizione il problema non si pone perché il terzo può richiedere il certificato di iscrizione al registro delle imprese.
La responsabilità degli amministratori ha quindi la stessa natura di quella dei soci. Gli amministratori sono GARANTI EX LEGE dei debiti di altri (per altri si intende la società costituenda).
Vediamo ora la SORTE DELLE OBBLIGAZIONI (di spesa) SORTE, costituite PRIMA dell’iscrizione, nel caso in la società si costituisca effettivamente, cioè VENGA AD ESISTENZA.
A chi sono imputate queste obbligazioni? Chi ne risponde? La nuova società? Gli amministratori? I soci?
Bisogna distinguere innanzitutto tra:
 SPESE NECESSARIE alla costituzione della società:
 SPESE UTILI per la gestione della società
Le spese NECESSARIE sono automaticamente imputate alla società, appena questa viene ad esistenza, senza necessità di alcuna ratifica (vedi art. 2338, secondo comma), da chiunque siano state sostenute.
Art. 2338 – secondo comma – La società è tenuta a rilevare i promotori delle obbligazioni assunte e a rimborsare loro le spese sostenute, sempre che siano state necessarie per la costituzione della società o siano state approvate dall’assemblea.
Vengono meno quindi le responsabilità degli amministratori e dei soci in merito alle spese necessarie. Ma come si identificano queste spese necessarie? Le identifichiamo al numero 12) dell’art. 2328 c.c. che elenca i dati che vanno obbligatoriamente inseriti nell’atto costitutivo, e che al numero 12) indica: l’importo globale, almeno approssimativo delle spese per la costituzione, poste a carico della società.
Quindi già nell’atto costitutivo i soci autorizzano che tali spese vengano poi imputate alla società, per questo non servono ratifiche successive affinchè siano considerate spese della società. Per fare un esempio di spesa necessaria, questa è sicuramente la spesa da sostenere per il Notaio che redige l’atto. Tanto è vero che se la società non viene poi iscritta, i conferimenti sono sì restituiti ai soci, ma al netto delle spese del Notaio, che va comunque pagato.
Le spese UTILI sono invece tutte le altre spese, ed è necessaria una ratifica dell’assemblea affinchè siano poste invece a carico della società (vedi art. 2331, terzo comma). Non viene meno la responsabilità di coloro che hanno agito, resta ferma. Il terzo, ad esempio, che abbia venduto alla società futura, tramite un amministratore, una partecipazione sociale potrà anche dopo la ratifica, chiedere comunque il pagamento a coloro che hanno agito.

Lezione 13/03/2009 – Maugeri
Facciamo un rapido riepilogo degli argomenti trattati fino ad ora, anche per consentire ai nuovi studenti che iniziano oggi di seguire il filo del discorso. Vi ricordo con l’occasione che gli studenti di Giurisprudenza studiano sul Manuale di Gambino-Santosuosso, mentre quelli di Economia sul manuale Campobasso.
Vediamo prima di tutto come abbiamo definito fino a oggi la società.
Abbiamo che detto la SOCIETA’ si può definire come una DISCIPLINA CHE ORGANIZZA IL FINANZIAMENTO E LA GESTIONE DELL’IMPRESA, di qualunque tipo.


Abbiamo visto i criteri che distinguono le società di persone dalle società di capitali, che sono:
a) La RESPONSABILITA’ (limitata e illimitata), ma che non è un criterio distintivo perché c’è il modello di società in accomandita: SEMPLICE (dove alcuni soci – accomandanti - rispondono limitatamente anche se è una società di persone) e PER AZIONI (dove alcuni soci – accomandatari – rispondono illimitatamente anche se è una società di capitali)
b) La MODALITA’ di FINANZIAMENTO, ed è questa la differenza fondamentale, che si riflette poi anche sulla gestione. Le società di persone si finanziano con il risparmio NOMINATO, dei soci, cioè si sanno proprio i nomi di coloro che finanziano la società. Le società di capitali, o meglio la società per azioni si finanziar con il risparmio ANONIMO, INNOMINATO, fa ricorso cioè al mercato dei capitali.
c) La MODALITA’ DI GESTIONE, che è un riflesso come abbiamo detto delle modalità di finanziamento. La società di persone è gestita dai SOCI, gestione facilitata dal fatto che sono POCHI, e sono i soggetti realmente interessati alla gestione, e sono quelli anche che la finanziano.
La società di capitali è gestita invece da un ufficio specializzato composto da professionisti, dal CONSIGLIO DI AMMINISTRAZIONE. I soci possono essere, e spesso sono, anche TANTI, ma soprattutto possono cambiare di continuo.
d) Le MODALITA’ DI TRASFERIMENTO DELLA PARTECIPAZIONE SOCIALE. Per le società di persone per il trasferimento serve che tutti i soci siano d’accordo, si presuppone in CONSENSO DI TUTTI, perché è una modifica del contratto. Per le società di capitali il trasferimento è LIBERO, perché attraverso un procedimento di “reificazione”, la partecipazione sociale diventa una res, una cosa, una bene che può essere liberamente trasferito, che sta sul mercato e può circolare. Il mercato di partecipazioni azionari intese come BEI manca nelle società di persone.
La creazione di un mercato, in questo caso specifico LA BORSA, soddisfa e tutela due tipi di esigenze, di interesse:
1 – l’esigenza di stabilità di finanziamento dell’impresa, l’investimento è stabile, è solo in caso trasferito da un azionista a un altro, e la società ha il finanziamento sempre garantito. Quindi il mercato mantiene sempre le risorse investite nell’azienda.
2 – l’esigenza di un agevole disinvestimento per un socio, che se vuole disinvestire, non ha diritto alla restituzione del conferimento, ma può liberamente vendere le sue azioni. Quindi il mercato consente all’azionista al tempo stesso un agevole disinvestimento. Se non ci fosse questa possibilità di disinvestire, così agevolmente tramite il mercato, nessuno investirebbe, a meno che non potesse anche gestire il suo investimento.
In conclusione il meccanismo del MERCATO consente di finanziare imprese di grandi dimensioni, senza condizionare o vincolare i soci, lasciandoli liberi di cedere le proprie partecipazioni, senza compromettere la liquidità della società. Se facciamo infatti un paragone con un FONDO di investimento, dove il sottoscrittore chiede il rimborso della propria quota, vediamo che il fondo ha la necessità di avere sempre LIQUIDITA’, per poter restituire in ogni momento le quote.
Se una società dovesse in ogni momento essere pronta a restituire le partecipazioni ai soci che ne chiedono il rimborso la gestione si paralizzerebbe, servirebbe sempre liquidità sufficiente per tutte le quote, dovrebbero tenere sempre beni liquidi sempre pronti.
Invece come abbiamo visto l’azionista può VENDERE A TERZI, senza rivolgersi alla società. NON PUO’ chiedere il rimborso, se non in presenza di EVENTI TIPICI che lo legittimano alla richiesta, e cioè in presenza di CAUSE DI RECESSO.
Tutto questo discorso vale per le SPA, le società per azioni. Le SRL, società a responsabilità limitata, invece, anche se come categoria sono società di capitale sono in realtà collocate a metà strada tra società di persone e società di capitali. Hanno personalità giuridica e rispondono limitatamente, caratteristiche tipiche della società di capitali, ma hanno il DIVIETO DI SOLLECITAZIONE DEL PUBBLICO RISPARMIO.
Art. 2468 – Quote di partecipazione – Le partecipazioni dei soci non possono essere rappresentate da azioni né costituire oggetto di offerta al pubblico di prodotti finanziari. …. Omissis ….
La SRL quindi non si finanzia attraverso il mercato, e visto che il finanziamento influenza la gestione, il diverso tipo di finanziamento previsto per la SRL dà vista a una diversa gestione. Il socio della SRL è vicino alla gestione, infatti se leggiamo l’art. 2468, terzo comma vediamo che:
Art. 2468 – terzo comma – Resta salva la possibilità che l’atto costitutivo preveda l’attribuzione a singoli soci di particolari diritti riguardanti l’amministrazione della società o la distribuzione degli utili.
L’atto costitutivo può quindi attribuire diritti particolari ai singoli soci. Il socio può avere un diritto individuale di gestione della società, ecco perché si dice che la SRL è a metà con le società di persone, e differisce dalle società di capitali propriamente dette, cioè le spa.
Ma perché le SRL sono state collocate a metà strada? La nuova disciplina, introdotta dal Legislatore con la riforma del diritto societario del 2003, è un prodotto di LABORATORIO, non come la disciplina della Spa, che è invece un prodotto STORICO, nasce infatti dalla compagnia delle Indie, come abbiamo visto. La SRL nuova è invece proprio una creazione legislativa.
La codificazione del 1942 aveva introdotto la SRL, ma non si affermò come modello di società perché la sua disciplina era come la società per azioni, rinviava sempre al tipo azionario, dando scarsa autonomia privata, quindi non venne utilizzata, si preferiva comunque scegliere la forma della SPA, a quel punto, che diventò il modello maggiormente utilizzato.
Fu quindi ripensata nel 2003, senza intaccarne la limitazione di responsabilità, ma aprendola all’AUTONOMIA STATUTARIA, che invece la SPA non ha assolutamente. L’art. 2468, terzo comma non è infatti norma valida per la società per azioni. Le SPA hanno vincoli statutari, non possono attribuire diritti gestori particolari ai soci.
Dal 1942 al 2003 c’erano stati comunque vari progetti di riforma, improntati più alla tutela delle minoranze, non alla modifica sostanziale del tipo di società.

Torniamo ora all’argomento della lezione scorsa, e ribadiamo che la SOCIETA’ DI CAPITALI NASCE CON L’ISCRIZIONE DELL’ATTO COSTITUTIVO NEL REGISTRO DELLE IMPRESE, che ha quindi EFFICACIA COSTITUTIVA, alla quale si affianca l’EFFICACIA SANANTE, che impedisce che siano fatti valere i vizi del contratto/atto costitutivo, dell’atto di fusione, scissione e trasformazione dopo l’iscrizione.
Dopo l’iscrizione quindi, che sana l’atto, non ne può più essere pronunciata l’invalidità.
Per le delibere di MODIFICAZIONE del contratto invece, l’efficacia dell’iscrizione non è sanante, è COSTITUTIVA, produce quindi gli effetti, ma può essere impugnata.
L’efficacia sanante della nullità dell’atto/contratto costitutivo di società (art. 2332) è in base al principio di stabilità e di efficienza dell’azione societaria.
Qui la disciplina si allontana da quella del contratto DI SCAMBIO. Ci sono grandi differenze con il contrtatto di scambio Nel contratto di scambio la nullità è retroattiva, è come se il contratto non ci fosse mai stato, e le prestazioni, se eseguite, devono essere restituite, dà luogo quindi alla nascita del diritto di RIPETIZIONE DELL’INDEBITO, cioè di una prestazione non dovuta, perché il contratto non esiste più, è nullo.
Non si possono applicare queste norme del contratto di scambio alla spa, al contratto ASSOCIATIVO, perché disciplina una attività nei confronti dei TERZI, che ha rapporti con i TERZI, ha RILIEVO REALE, cioè un rilievo che va oltre le parti, è meta-individuale. E’ il concetto di ATTIVITA’ al centro della disciplina della società.
Un contratto di scambio può essere annullato (art. 1418 c.c.) quando manca uno degli elementi essenziali del contratto, e quando viola le NORME IMPERATIVE. Ma se si applicasse questo criterio anche ai contratti costitutivi delle spa l’attività non potrebbe essere mai garantita, potrebbe essere sempre dichiarata nulla, renderebbe più instabile la società. Quindi la nullità del contratto delle spa ha una disciplina diversa, non si applicano gli artt. 1418 e ss sulla nullità, perché come abbiamo visto al centro c’è l’attività verso terzi, il contratto di società NON ESAURISCE I SUOI EFFETTI TRA LE PARTI.
Già nel 1942 nell’art. 2332 dedicato alla nullità dell’atto costitutivo, il legislatore era consapevole delle differenze con il contratto di scambio, che possiamo identificare in questi punti:
1) La dichiarazione di nullità non pregiudica gli effetti degli atti compiuti in nome della società dopo l’iscrizione, non ne travolge gli effetti, restano fermi, e questo è già in deroga alla nullità dello scambio;
2) Il contratto sociale ha come prestazione il CONFERIMENTO, e se si applicasse la disciplina del contratto di scambio si avrebbe diritto alla ripetizione, cioè i soci potrebbero in qualsiasi momento chiedere la restituzione. Invece l’art. 2332 dice il contrario, “i soci non sono liberati…..” sono obbligati infatti a eseguirlo, i conferimenti vanno tenuti in vigore finchè i crediti verso i terzi non sono soddisfatti;
3) La nullità della spa opera come CAUSA DI SCIOGLIMENTO, a seguito della nullità cioè si apre il processo di liquidazione del patrimonio sociale. L’art. 2332, quarto comma, prevede infatti la nomina di liquidatore. Converte la NULLITA’ in SCIOGLIMENTO.
4) Altro elemento di differenza è la CONVALIDA DI UN NEGOZIO NULLO, che è impossibile per il contratto di scambio (art. 1423) ma possibile per il contratto di costituzione di spa (art. 2332, quinto comma) se la causa è stata eliminata ed è stata iscritta nel registro delle imprese, si può revocare la nullità.

Nel 1942 però non si prevedevano CAUSE TIPICHE DI NULLITA’ per le spa, aveva una disciplina a parte per gli EFFETTI, ma non distingueva le FATTISPECIE di nullità, quindi si sarebbero applicate, sarebbero state usate quelle previste per il contratto di scambio, e applicare l’art. 1418, prevedendo quindi la possibilità di travolgere l’iniziativa societaria per qualsiasi violazione di norme imperative, con le conseguenze che abbiamo prima descritto.
Nel 1969 viene applicata la PRIMA DIRETTIVA COMUNITARIA che introduce il principio di TASSATIVITA’ DELLE CAUSE DI NULLITA’, che implica che la Spa è nulla solo nelle ipotesi previste dalla legge. Nel 1969 queste ipotesi erano otto, nel 2003 vengono ridotte a tre.
IPOTESI DI NULLITA’ (art. 2332 c.c.)
1) Mancata stipulazione dell’atto costitutivo in forma di ATTO PUBBLICO;
2) ILLICEITA’ dell’ oggetto sociale
3) Mancanza di ogni indicazione concernente l’oggetto, la denominazione, i conferimenti, il capitale.
L’applicazione del principio presuppone però l’ISCRIZIONE della società nel registro delle imprese, perché invece prima di questo l’atto può essere dichiarato nullo per tutti i casi previsti per quello di scambio, e l’atto sociale può essere attaccato come qualsiasi altro contratto.
E se l’atto costitutivo manca di elementi essenziali per il funzionamento, ma diversi da quelli indicati nel terzo motivo di nullità? Vediamo l’art. 2328 c.c. Se nell’atto mancano per esempio gli amministratori? Che succede? Non rientra nelle cause di nullità. Oppure cosa succede se l’atto indica il capitale ma non il numero delle azioni? può funzionare la spa in un caso simili? No, sicuramente no.
E come si sana una mancanza del genere? Serve una MODIFICAZIONE DELLO STATUTO, per integrare il contenuto mancante, altrimenti si produce una causa di scioglimento per impossibilità di funzionamento della società.
Anche se ad esempio per errore viene redatto un atto costitutivo che dice che utili sono destinati a TERZI, invece che ai soci, indica una etero destinazione, e configura un fine quindi ANTILUCRATIVO, lo scopo lucrativo, tipico delle società, manca nell’atto, quindi non corrisponde al modello di società previsto dal codice. Come si rimedia a questa clausola atipica, che si potrebbe definire illecita? Viene sostituita EX LEGE, come da art. 2247 c.c.
Se invece fosse nulla la partecipazione di UN SOLO SOCIO, ad esempio però incapace di intendere ed di volere? Si potrebbe applicare la disciplina dei contratti plurilaterali, con comunione di scopo (art. 1420 c.c.)? Ma la nullità della partecipazione del singolo comporta la nullità dell’intero contratto se questa singola partecipazione è essenziale. Si può applicare questa disciplina anche alle spa? Lo prevede l’art. 2332? No, non si può. Ecco un’altra distanza tra i due contratti. Il problema del singolo NON IMPORTA MAI la nullità dell’atto della società ISCRITTA. Le esigenze come si conciliano? Convertendo la causa di invalidità della partecipazione del singolo socio in una CAUSA DI RECESSO. Il socio avrà quindi poi diritto al rimborso del valore delle sue azioni.
Continuiamo con la tematica della nullità e vediamo ora un caso particolare, la SIMULAZIONE DELLA SOCIETA’ PER AZIONI. Ma può essere simulato un atto costitutivo di società per azioni?
Il caso si è posto per le cosiddette SOCIETA’ DI COMODO.
Sono società che hanno nell’oggetto sociale un’attività di impresa ma che in realtà si limitano al godimento del bene conferito. Una ipotesi tipica è quella delle società immobiliari. Si intesta un immobile alla società ma poi i soci si limitano a viverci, non la utilizzano per attività economica. Se vediamo l’art. 2248 vediamo che non può esserci società con scopo di MERO GODIMENTO, si può parlare di COMUNIONE, non di società, a scopo di godimento, e la disciplina è retta dalle norme del libro in tema appunto di Comunione della proprietà. L’art. 2348 impedisce di usare lo schema societario per il godimento, così come l’art. 2247 che definisce il contratto di società e specifica che è per esercitare un’attività economica, non per il godimento, un’attività produttiva di nuova ricchezza, l’art. 2247 presuppone che ci sia un’attività che crea nuova ricchezza.
Allora come si reagisce alle società di comodo? Visto oltretutto che l’oggetto sociale è lecito, non può essere sanzionato con la nullità. Si è trovata una soluzione giurisprudenziale, con la SIMULAZIONE. I giudici inquadrano le società di comodo nella simulazione di un contratto. La simulazione è prevista di due tipi:
 SIMULAZIONE ASSOLUTA – le parti non vogliono nessun effetto del contratto
 SIMULAZIONE RELATIVA – le parti volevano un contratto diverso
La giurisprudenza (i giudici nelle sentenze) ha applicato la disciplina, lo schema della simulazione, che prevede che il contratto non produca effetti tra le parti. In particolare una decisione del Tribunale di Catania ha sentenziato che la fattispecie era configurabile nella simulazione, quindi ne ha dichiarato l’INESISTENZA, non la nullità, e sono stati pertanto dichiarati ANNULLATI tutti gli atti messi in essere dalla società, dopo l’iscrizione. Giudizio oltretutto avallato anche dalla Cassazione. Ma è una decisione, e il conseguente orientamento, NON ACCETTABILE. Non si può accettare una soluzione del genere perché la simulazione non comporta l’inesistenza, in caso la nullità, o un regime analogo. Questo giudizio trascura il fatto che il contratto di società ha rilievo REALE, la simulazione NON PUO’ PREGIUDICARE I RAPPORTI CON I TERZI. I simulatori non possono opporre la simulazione ai terzi in contatto con loro, verso i quali i simulatori hanno instaurato contratti, rapporti obbligatori, la decisione di Catania invece la rende opponibile.
La soluzione potrebbe essere invece questa. Come abbiamo visto deve esserci una integrazione del contratto sociale ove manchino degli elementi di cui all’art. 2247, se no si configura causa di scioglimento. La società di comodo potrebbe essere identificata come società che ha mancanza di attività a fini di lucro, e quindi rientrare tra le cause di scioglimento. Considerare cioè le società di comodo, che non fanno attività di lucro come atti ai quali manca un elemento, e che quindi possono configurare causa di scioglimento.

Illiceità oggetto sociale
Va precisato e ricordato anche che quando si parla di ILLICEITA’ dell’oggetto sociale, come causa di nullità, si deve considerare l’attività SCRITTA, descritta nell’oggetto sociale, non quella ESERCITATA, l’oggetto descritto formalmente e scritto nello Statuto, non l’attività che in pratica i soci fanno. Ad esempio per una società che ha nell’oggetto vendita di profumi ma poi vende stupefacenti, non si può considerare l’oggetto sociale illecito, è l’attività svolta che è illecita.

L’illiceità dell’oggetto sociale può essere intesa in due sensi:
 In senso FORTE – l’oggetto sociale è in sé illecito, descrive un’attività illecita. Ipotesi irrealistica perché nessuno Notaio stipulerebbe un atto con un oggetto illecito.
 In senso DEBOLE – quando l’attività descritta nell’oggetto, nell’atto, è di per sé lecita, ma è esercitata in mancanza delle condizioni richieste dalla legge. Per esempio una spa bancaria che esercita senza l’autorizzazione della Banca d’italia, o una società assicurativa che esercita senza l’autorizzazione dell’ISVAP, anche se potrebbero esserci mere irregolarità, non illiceità, che in ogni caso coinvolgerebbero interessi di terzi.
Vediamo in merito a questo cosa dice l’art. 223 quater, secondo comma, delle Disposizioni di attuazione al codice civile.
“L’autorità competente al rilascio delle autorizzazioni di cui al primo comma è altresì legittimata , qualora l’iscrizione al registro delle imprese sia avvenuta nonostante la loro mancanza o invalidità, a proporre istanza di cancellazione della società medesima nel registro. …..”
L’autorità può quindi proporre istanza di cancellazione per quella società che ha illiceità dell’oggetto sociale in senso debole.
NULLITA’ per le società di persone
E le società di persone? Manca un articolo analogo all’art. 2332 – Nullità della società - per le società di persone.
Per le società di persone si deve distinguere per quanto riguarda la nullità tra FATTISPECIE E DISCIPLINA.
 Per quanto riguarda la FATTISPECIE, si usano le fattispecie proprie dei contratti di scambio, e quindi l’efficacia dell’iscrizione è dichiarativa, il soggetto esiste già da prima, e le cause di nullità di ricavano dagli schemi del contratto di scambio;
 Per quanto riguarda la DISCIPLINA questa si ricava da una applicazione analogica proprio dell’art. 2332, perché la tutela dei terzi che entrano in contatto con la società è esattamente la stessa.
Società per azioni uni-personale
Soffermiamoci un momento su questo particolare tipo di società, dove le azioni sono in mano tutte a un unico socio. Se consideriamo la società come un contratto questa sarebbe una vera e propria anomalia. Ma se intendiamo la società come abbiamo sempre detto come una disciplina di finanziamento, allora è possibile.
Quando era in vigore il Codice del Commercio del 1882 la dottrina riteneva che l’unipersonalità determinasse lo scioglimento della società perché, se intesa come contratto, ovviamente non può esistere un contratto con una parte sola. Questo criterio è rimasto valido anche oggi ma solo per le società di persone, la cui pluralità dei soci va infatti ricostituita entro 6 mesi, prevale quindi per le società di persone l’elemento CONTRATTO.
Per quanto riguarda le Spa, Tullio Ascarelli nel 1900 distinse il piano della UNIPERSONALITA’ da quello della UNILATERALITA’, da quel momento non andavano più confuso il NUMERO DELLE PARTI di un contratto con il NUMERO di RAPPRESENTANTI DI PARTECIPAZIONI SOCIALI che nascono con la costituzione della società, cioè il NUMERO DELLE AZIONI. Può essere quindi che la pluralità dei soci venga meno, durante l’attività, non in fase di costituzione, e che un solo socio si ritrovi con tutte le azioni, ma resta comunque invariata la PLURILATERALITA’, cioè il numero di azioni, di partecipazioni.
Nel 1942 il legislatore recepisce la teoria di Ascarelli e detta l’art. 2362 – Unico azionista.
L’articolo risultò alla fine un po’ ambiguo, ma salvava la spa uni personale, non più soggetta a scioglimento, e sanciva il fatto che nella vita di una società si potesse realizzare una situazione così, dove un unico socio si ritrova con tutte le azioni. Inserisce però una sorta di sanzione, per l’unico socio, commina la RESPONSABILITA’ ILLIMITATA all’unico azionista, per le obbligazioni sorte nel momento in cui lui ha tutte le azioni. Quindi in caso di insolvenza della società l’unico socio deve risponderne. La dottrina vide in questo articolo una vera e propria sanzione, la cui motivazione sembrava essere ABUSO DEL POTERE GESTORIO, per l’unico socio (in particolare la dottrina di Vigiavi). Ma così questa disciplina poteva essere applicata in tutti i casi in cui il socio di maggioranza avesse potuto abusare del proprio potere, anche quindi in presenza di pluripersonalità, abuso di personalità giuridica, usata come cosa propria da chi può disporre del controllo.
Questo succede ad esempio nei casi di confusione patrimoniale, dove il socio e la società hanno lo stesso conto corrente bancario, o in caso di inosservanza delle regole organizzative, il socio prende decisioni senza convocare l’assemblea o il consiglio di amministrazione (abuso personalità giuridica). Vigiavi lo definisce addirittura SOCIO TIRANNO, e lo si fa rispondere quindi illimitatamente delle obbligazioni, visto il superamento della personalità giuridica gli si impone la negazione della limitazione di responsabilità, che è un beneficio.
L’articolo, visto in quest’ottica avrebbe dettato un principio base secondo il quale il socio, ogni qual volta abusi, l’ordinamento reagisce disapplicando per lui il beneficio della responsabilità limitata. E’ una tecnica diffusa, e adottata dalle Corti di molti paesi.
Nel 2003 il legislatore, di fronte alla unipersonalità, dopo aver già introdotto nel 1993 la possibilità di costituire SRL uni personali, in applicazione della XII direttiva CE estende la facoltà di costituire per atto unilaterale anche alle SPA. E di conseguenza si modifica la disciplina della responsabilità, e oggi la responsabilità riguarda l’unico azionista (SPA) o l’unico quotista (SRL) solo in due ipotesi:
a) Quando non hanno integralmente liberato le azioni o le quote nel momento della costituzione (e cioè in violazione delle norme di conferimento) – ART. 2342 c.c.
b) Quando non hanno provveduto a dare pubblicità nel registro imprese della situazione di uni personalità (obbligo di pubblicità) – ART. 2362 c.c.
Con la riforma del 2003 si passa da una responsabilità PATRIMONIALE PER DEBITI, responsabilità DA POSIZIONE (risponde l’unico socio per la sua posizione), a una responsabilità DA COMPORTAMENTO, vale a dire che prima l’unico socio rispondeva per il fatto stesso di essere unico, oggi risponde solo se viola i due obblighi di comportamento descritti in a) e b).
Ma perché il legislatore ha fatto questa modifica? Ha potuto intervenire sulla responsabilità perché oggi la limitazione di responsabilità non è più vista come un beneficio, un privilegio in deroga all’art. 2740, ma come uno STRUMENTO DI ORGANIZZAZIONE DELL’IMPRESA.
Art. 2740 - Responsabilità patrimoniale -Il debitore risponde dell'adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni presenti e futuri. Le limitazioni della responsabilità non sono ammesse se non nei casi stabiliti dalla legge.
Gli si dà infatti oggi un significato economico, si considera una tecnica atta a favorire l’attività d’impresa, lo ritiene una separazione tra il patrimonio dei soci e dell’impresa, che incentiva lo sviluppo del mercato, perché la responsabilità limitata intesa come AUTONOMIA PATRIMONIALE della società, minimizza i costi di transazione e di finanziamento dell’impresa perché se i creditore che finanzia si può DISINTERESSARE delle sorti del patrimonio del singolo socio, e preoccuparsi solo del patrimonio della società, perché è quello che gli importa visto che con quello sarebbe eventualmente ripagato, non deve sostenere costi di controllo sui singoli soci.
La responsabilità limitata ha quindi un impatto economico, e il legislatore del 2003 ne prende atto e ne fa la regola.
Se rivediamo l’art. 2331, al secondo comma, recita “Per le operazioni compiute in nome della società prima dell’iscrizione sono illimitatamente e solidalmente responsabili verso terzi coloro che hanno agito. Sono altresì solidamente e illimitatamente responsabili il socio unico fondatore e quelli che nell’atto costitutivo o con atto separato hanno deciso, autorizzato, o consentito il compimento dell’operazione”.
Responsabilità illimitata quindi per chi ha agito e per chi ha consentito. Ma vediamo che è prevista anche per il socio unico fondatore. Perché? Sembra a priva vista una responsabilità DA POSIZIONE, come se implicitamente avesse autorizzato, ma invece dovrebbe rispondere degli atti compiuti prima SOLO SE ha autorizzato, quindi dovrebbe essere una responsabilità DA COMPORTAMENTO.

Lezione 20/03/2009 – Maugeri
Ricordandoci che il corso completo di diritto commerciale verte su:
1) Impresa
2) Società di persone
3) Società di capitali
4) Titoli di credito
Affrontiamo oggi l’argomento dei PATTI PARASOCIALI.
I patti parasociali non hanno carattere associativo, designano una figura contrattuale definita plurilaterale con comunione di scopo, ma priva del carattere associativo perché, per definizione il patto:
- Intercorre tra più soggetti;
- Ha uno scopo di coordinamento dell’azione di più soggetti, ma
- Non è rivolto a disciplinare l’esercizio di una attività nei confronti dei terzi, non ha carattere reale.
I patti parasociali sono delle realtà fondamentali, soprattutto per le società quotate. E’ un PATTO FRA SOCI, il cui fine è GOVERNARE L’IMPRESA, un tema che ha una rilevanza pratica pari a quella teorica.
Identifichiamo due tipologie, o meglio due FUNZIONI del patto parasociale:
1) DISCIPLINARE l’esercizio di determinati diritti inerenti la partecipazione sociale. Ad es. il diritto di voto in assemblea:si stabilisce il modo in cui i soci del patto dovranno votare in assemblea. Questi patti stabilizza quindi la GESTIONE, il GOVERNO, del voto, e vengono chiamati SINDACATI DI VOTO.
2) CRISTALLIZZARE gli assetti proprietari, questo tipo di patti individua e stabilisce dei limiti alla circolazione delle partecipazioni sociali, i soci sottoscrittori del patto si impegnano a non cedere le loro azioni, e vengono chiamati SINDACATI DI BLOCCO.
I patti parasociali sono normalmente stipulati fra soci, ma NON SEMPRE, non necessariamente da soci, possono essere coinvolti soggetti terzi.
Ad esempio, due o più soggetti si propongono e si impegnano a acquistare azioni di una certa società. Ipotesi espressamente contemplata nell’ART. 122 T.U.F., che qualifica espressamente questi accordi come PARASOCIALI.
L’oggetto è sempre IL FUNZIONAMENTO DELLA SOCIETA’.
Ci sono due profili che qualificano i patti parasociali, rapportati al contratto sociale, all’atto costitutivo.
A) DISTINZIONE del patto rispetto al contratto sociale
B) COLLEGAMENTO con il contratto sociale

DISTINZIONE
Come si distingue, e cosa distingue un patto parasociale dal contratto sociale? Vediamo prima di tutto quali sono i criteri distintivi. Innanzitutto l’EFFICACIA è differente.
- Il patto parasociale ha efficacia OBBLIGATORIA tra le parti che lo stipulano, vincola solo le parti che hanno stipulato l’accordo.
- Il contratto sociale ha efficacia REALE , ha effetti reali, è destinato a produrre effetti nei confronti dei terzi, ha rilievo meta-individuale, e la sua efficacia nasce con l’iscrizione, come abbiamo più volte ripetuto.
I due accordi hanno quindi un diverso regime di conseguenze, in caso di VIOLAZIONE.
La sanzione tipica per la violazione del contratto sociale è l’INVALIDITA’ (se una delibera è fatta in violazione del contratto sociale è nulla).
La sanzione tipica per la violazione del patto parasociale è il RISARCIMENTO DEL DANNO (se due soci hanno fatto un patto di voto per eleggere Tizio amministratore, e poi uno dei due non vota come d’accordo per Tizio, deve risponderne all’altro con cui ha sottoscritto il patto).
Facciamo però un esempio concreto, capitato a Milano, dove un lodo di un collegio arbitrale, confermato poi dal Tribunale, è indice di una astratta rilevanza sociale, reale, invece che obbligatoria, del patto parasociale.
Due soci, uno di maggioranza e uno di minoranza, si accordano e sottoscrivono un patto parasociale per la stabilità della carica al socio di minoranza. In assemblea però poi il socio di maggioranza non rispetta il patto. Il socio di minoranza a questo punto impugna la delibera. Tale delibera è annullabile, o può dar luogo solo al risarcimento? Il Collegio arbitrale e il Tribunale affermano che se il patto è FRA TUTTI I SOCI diventa una fonte di affidamento per i soci stessi, quindi la delibera è impugnabile e annullabile per VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DI CORRETTEZZA, così afferma la Giurisprudenza, e crea per ora l’unico caso in cui un patto parasociale ha rilievo reale, perché in generale dà invece luogo solo al risarcimento.
Esaminiamo le clausole nel dettaglio.
Il primo criterio di distinzione è FORMALE e afferma che non è sociale, ma parasociale, TUTTO CIO’ che è AL DI FUORI dell’atto costitutivo, del contratto sociale. Non ha efficacia reale, e non è iscritto nel registro delle imprese, cioè che è fuori dall’atto costitutivo. Ma può anche accadere che il contratto sociale contenga clausole che hanno un rilievo unicamente parasociale.
Quindi non è completamente vero che ciò che è nel contratto sociale ha natura sociale, perché per esempio l’atto costitutivo contiene i primi amministratori, designa chi dovrà essere ad amministrare, quindi è una pattuizione tra soci su chi dovrà essere amministratore. Ma poi questi amministratori potrebbero non essere confermati in assemblea, quindi è una clausola temporanea, e non ha efficacia e natura sociale, reale.
Il secondo criterio distintivo è quello dell’INTERESSE DISCIPLINARE (cioè l’interesse disciplinato). Se la clausola ha RILEVANZA COLLETTIVA, cioè che è destinata a operare nei confronti di chiunque si troverà a essere socio di quella società, siamo in presenza di una clausola sociale, Hanno natura invece parasociale quelle clausole che disciplinano e riguardano INTERESSI INDIVIDUALI.
Distinguiamo allora clausole del contratto sociale che hanno diversa disciplina, RILIEVO:
 SOCIALE, collettivo, sottoposte a regola di maggioranza e a regime di pubblicità nel registro delle imprese, ad esempio il quorum assembleare, o il regolamento degli organi sociali
 INDIVIDUALE, parasociale, che riguarda situazioni soggettive, la cui modifica non ha bisogno di pubblicità, dove solo certi soci sono coinvolte.
Facciamo un esempio di situazione soggettiva ATTIVA. In una SRL, visto che nell’atto costitutivo si può attribuire diritti particolari ai singoli soci (art. 2468, terzo comma), ci sono quindi nel contratto sociale clausole che riguardano solo certi soci, ma ha al tempo stesso rilievo sociale, reale, collettivo, non individuale e parasociale, perché il socio che ha quel particolare diritto può farlo valere nei confronti di chiunque, e di qualunque altro socio, anche futuro. La clausola ha quindi valenza e rilevanza organizzativa, gestionale.
Un esempio di situazione soggettiva PASSIVA invece potrebbe essere questo. Una SPA emette delle azioni con prestazioni accessorie (art. 2345 c.c.), cioè delle azioni alle quali accede l’obbligo per chi le ha sottoscritte di eseguire determinate prestazioni di lavoro in favore della società. Queste sono regolate dall’atto costitutivo. Esistono queste azioni perché nella Spa vige il divieto di conferire la propria opera o i propri servizi, si possono conferire solo DENARO o BENI IN NATURA. Questa clausola delle azioni con prestazioni accessorie è quindi uno strumento alternativo per fornire prestazioni, e consente alla Spa di acquisire prestazioni lavorative dai soci. La clausola quindi identifica delle situazioni soggettive passive per chi ha acquistato quelle prestazioni. Questa clausola è sociale o parasociale ? E’ SOCIALE, perché TUTTI possono pretendere l’adempimento della prestazione accessoria da parte del socio possessore di quelle azioni. Ha rilievo REALE.
Il criterio distintivo tra clausola sociale o parasociale è identificabile quindi nel fatto che SE TUTTI i soci (anche futuri) possono attivare quella clausola.
Incidono la rilevanza organizzativa, ma in particolare il criterio ERGA OMNES o validità individuale.
COLLEGAMENTO
Para viene dal greco, parallelamente. Il patto parasociale non è solo distinto dal contratto sociale, ma è COLLEGATO, ma è unidirezionale, cioè va solo in un senso. Vale a dire che mentre un vizio del contratto sociale che porta alla nullità dell’atto costitutivo travolge il patto parasociale, si riflette sul patto, ne determina la nullità, non è vero il contrario, i vizi del patto parasociale non travolgono il contratto sociale, hanno efficacia solo obbligatoria.
Anche se sembra ci sia una norma che afferma il contrario, l’art. 2341 ter.
Gli articoli 2341 bis e ter disciplinano i patti parasociali, e in particolare recitano “in qualunque forma stipulati”. Non c’è forma prescritta, il patto può avere anche forma tacita(mentre il contratto sociale ha come forma l’atto pubblico) e non c’è pubblicità.
Ma pensiamo ad esempio alla disciplina dell’OPA (offerta pubblica di acquisto), che prevede l’obbligo di essere lanciata da chi o da coloro che supera il 30% di un società quotata. Vediamo per esempio come possono rilevare i patti parasociali in caso di OPA. Poniamo che tre soci, Tizio Caio e Sempronio abbiano rispettivamente il 5%, il 5% e il 21%. Nessuno dei tre singolarmente è tenuto a lanciare un’OPA. Ma se si accordano con un patto e fanno il sindacato di voto, un’azione di concerto, arrivano e superano il 30%, dovrebbero fare l’offerta pubblica di acquisto. Ma se si accordano senza forma, tacitamente, come si può far valere la norma del 30%?.
E’ fondamentale identificare lo SCOPO degli accordi, dei patti fra soci.
Abbiamo visto che si identificano due tipologie di patto:
a) Con funzione di governo della società – es. patto su voto
b) Con funzione di cristallizzazione degli assetti proprietari – es. sindacato di blocco
L’art. 2341 ter prevede degli OBBLIGHI DI TRASPARENZA, di informazione circa l’esistenza di patti parasociali per le società con azioni diffuse sul mercato. Gli obblighi di informazione sui patti sono :
1) Comunicazione alla società
2) Dichiarazione in apertura di assemblea
3) Di informazione sul patto
4) Di nozione, di citazione nel verbale di assemblea
In caso di mancanza di adempimento di questi obblighi informativi chi ha fatto il patto non può esercitare il diritto di voto, oppure in caso voti è poi impugnabile la delibera. Ma in quest’ultimo caso si potrebbe allora affermare che non è unidirezionale, se un patto può annullare una delibera vuol dire che i patti possono travolgere gli atti sociali? Attribuisce efficacia reale al patto?
NO, perché l’impugnabilità della delibera non deriva dalla violazione, dal vizio del patto, ma dalla violazione degli OBBLIGHI DI TRASPARENZA. La delibera è impugnabile come conseguenza della violazione delle norme di trasparenza, di informazione agli altri soci.
Vediamo ora un terzo problema, sempre relativo al collegamento tra patto e atto. Sono sempre validi i patti parasociali? I patti parasociali hanno avuto una storia travagliata. In particolare Tullio Ascarelli considerava i sindacati di voto funzionanti a maggioranza come ILLECITI. Vale a dire, se due o tre soci si accordano, e stabiliscono di esercitare il loro diritto di voto secondo il volere della maggioranza. Tizio Caio e Sempronio si accordano per votare come la maggioranza di loro.
Ascarelli considera questi accordi illeciti perché vanno contro due principi:
a) Sono accordi idonei a privare di contenuto la dialettica assembleare, la decisione non nascerebbe in assemblea ma sarebbe frutto di una fase precedente;
b) Ledono il principio di corrispondenza tra potere e rischio, il principio plutocratico, del potere delal ricchezza, secondo il quale comanda, e decide, chi rischia di più. E’ un principio di efficienza economica, che si basa sul fatto che chi più investe più ha interesse a che vada bene la società, quindi ha più potere decisionale. Infatti con il patto se tizio caio e sempronio insieme hanno il 50% più un’azione, ma singolarmente tizio ha solo il 26%, con il patto rischia poco (26%) e governa come se avesse il 50%. Si chiama effetto di leva giuridica.
La giurisprudenza ha a lungo sposato queste tesi di Ascarelli, poi c’è stata una evoluzione normativa e la legittimità del patto parasociale è stata invece riconosciuta. Identifichiamo due fasi:
1) In una prima fase la legge ha considerato gli accordi parasociali come un FATTO giuridico con determinate conseguenze (ad esempio tenendo presente le norme in tema di controllo ha individuato delle situazioni di controllo), senza considerarne la legittimità, la leicità, li ha considerati dati di fatto, situazioni createsi.
2) La seconda fase si apre con l’art. 122 T.U.F. e si conclude con gli articoli 2341 bis e ter. Il Legislatore consacra la legittimità degli accordi parasociali, ma TIPIZZATI, cioè espressamente menzionati dalla legge. Lascia la possibilità di porre in essere accordi diversi da quelli previsti per legge, ma in quel caso si pone poi il problema della loro legittimità. Serve quindi una valutazione ai sensi dell’ordinamento giuridico (art. 1322 c.c.).
Si pongono però vari problemi di valutazione. Ad esempio un patto difficoltoso da valutare sono i SINDACATI DI GESTIONE con cui i soci si obbligano a impartire direttive agli amministratori, per gestire la società quindi in un determinato modo, modo determinato dai soci stessi. Ma è lecito un patto del genere? E’ conforme all’art. 2380 bis? Al principio che dà gestione esclusiva agli amministratori? Questo patto comprime, viola l’autonomia gestoria degli amministratori?
A queste domande la Cassazione ha risposto di NO, perché gli amministratori restano liberi di non seguire le direttive, e poi perché rimane la scappatoia della valutazione della conformità o meno di queste direttive all’interesse sociale.
Passiamo ora all’argomento Conferimenti.
I CONFERIMENTI
Innanzitutto cosa sono? Vediamone la definizione.
CONFERIMENTO è un investimento di un VALORE che forma oggetto di GESTIONE da parte della società. Questo valore è IMPUTATO a capitale NOMINALE.
Diverso invece dagli APPORTI, che indicano invece investimenti di valore che concorrono a formare il patrimonio sociale ma non sono imputati a capitale nominale.
Si distinguono in conferimenti
- In DENARO
- In NATURA
Conferimenti in DENARO: sono disciplinati da poche regole. All’atto dei sottoscrizione delle azioni va versato il 25% della somma complessiva che si intende conferire. La legge stabilisce di versare inizialmente il 25% per GARANZIA DI SERIETA’ dell’iniziativa e per dotare la società di un insieme di risorse iniziali, con cui avviare l’esercizio dell’impresa.
Si verifica quindi l’esistenza di azioni sottoscritte, ma non interamente liberate, delle quali cioè non si è effettuato integralmente il conferimento. Possono circolare queste azioni? SI, possono essere trasferite, ma chi è tenuto a versare poi il rimanente 75%?
Risponde l’art. 2356 c.c., che identifica una doppia responsabilità, sia dell’acquirente che dell’alienante, anche se di diversa natura giuridica. Rispondono il solido per tre anni, ma la responsabilità
- DELL’ACQUIRENTE è originaria, di fonte legale, cioè non è che acquistando tizio subentra nella posizione dell’alienante l’azione, ma il suo diritto, e quindi la sua responsabilità nasce ex novo, e oltretutto non è soggetta alla disciplina pattizia, cioè i soci non possono modificare questa responsabilità.
- DELL’ALIENANTE è invece sussidiaria, cioè non può essere fatta valere se non dopo l’escussione dell’acquirente.
Ma ci poniamo a questo punto un problema, che risolveremo in una lezione più avanti. Che succede se un certificato azionario (che deve necessariamente indicare se le azioni sono interamente liberate, ex art. 2354 n. 4), per tutela dei potenziali acquirenti), relativo ad azioni non interamente liberate non riporta questo aspetto indicato sopra, non indica cioè che non sono state interamente liberate, che non è stato versato il 100% del conferimento?
Tra l’interesse sociale, cioè l’interesse della società a conseguire il pagamento delle somme interamente, e l’interesse dell’acquirente, e il principio di buona fede, quale prevale?
Conferimenti in NATURA: in questo caso va fatta un distinzione tra SPA e SRL, ma bisogna anche capire quali beni siano conferibili in una società di capitali. Le regole sono nell’art. 2342 c.c.
SPA – al terzo comma dell’art. 2342 troviamo il principio per cui le azioni emesse a fronte dei conferimenti in natura devono essere integralmente liberate al momento della sottoscrizione. Questo perché la società deve acquisire da subito l’integrale disponibilità giuridica e materiale del bene conferito. Deve poter disporre e poter usare il valore senza necessità che vi sia una collaborazione costante da parte del conferente. Ad esempio per il conferimento di un bene immobile serve la consegna delle chiavi, serve che ci sia la disponibilità materiale del bene, e la trascrizione del contratto di compravendita, la disponibilità quindi giuridica. Il socio deve fare tutti gli adempimenti, anche pubblicitari, per liberare il bene.
Ci chiediamo ora, ma un diritto personale di godimento, come un affitto, si può conferire? NO, perché servirebbe la collaborazione del socio, così almeno dice la dottrina, ma questa cooperazione in realtà è accessoria, secondaria, quindi si potrebbe dire di SI.
Come abbiamo visto prima l’ultimo comma dell’art. 2342 fissa il divieto di conferire prestazioni d’opera o di servizi, perché in questo caso la collaborazione sarebbe invece essenziale (divieto derivato da una direttiva comunitaria per le spa), e anche perché non è un conferimento di VALORE. Il bene deve essere infatti VALUTABILE, e l’opera o il servizio non è facilmente valutabile, come si può attribuirgli un valore preciso?
SRL – per le società a responsabilità limitata invece la prestazione di servizio è conferibile. Questa possibilità, il poter conferire prestazioni di servizi, è stata introdotta nel 2003, e si è potuto fare anche perché le srl non sono state oggetto di disciplina comunitaria, quindi il legislatore ha potuto derogare al divieto. Ma come supera in questo caso il criterio della valutazione, dell’attribuzione di un valore all’opera o al servizio? L’art. 2464 prevede al sesto comma che il conferimento può anche avvenire con obbligo di prestazione di servizio, il cui valore è garantito da una POLIZZA o da una FIDEJUSSIONE. Ma l’oggetto del conferimento a questo punto quale è? La prestazione o la polizza? Sembra quasi una doppia obbligazione, sembra che il socio sia tenuto a due prestazioni, la polizza E il servizio.
La soluzione è che l’oggetto del conferimento è il VALORE dell’opera, indicato nella polizza, il socio si impegna a mettere a disposizione della società un VALORE pari a quello indicato nella polizza o nella fidejussione.
Le conseguenze sono che:
 L’obbligazione di conferimento si pone solo nei confronti della società, non dei creditori sociali, che non possono esigere la prestazione, o escutere la garanzia, anche se il patrimonio sociale risulta insufficiente. La garanzia NON TUTELA l’interesse dei creditori, ma il conferimento nella società. SOLO LA SOCIETA’ può escutere la garanzia, quando si trova nell’impossibilità di acquisire integralmente il valore promesso dal socio, sotto forma di servizio, o se il socio è inadempiente o impossibilitato a fare la prestazione.
 Anche se la causa dipende dalla società (ad esempio in caso di scioglimento), la garanzia può essere escussa, perché il valore ha concorso alla formazione del capitale, è sempre un CONFERIMENTO. Sembra iniquo ma è giusto così, perché tutela i terzi e i soci che hanno conferito invece denaro.
 L’escussione della garanzia, cioè la richiesta del valore in denaro al fideiussore, alla banca garante, comporta una CONVERSIONE della originaria obbligazione di prestare l’opera in una obbligazione di CONFERIMENTO IN DENARO, quindi pecuniaria. Il garante agirà poi sul socio per rivalersi in via di regresso.
Questo, la CONVERSIONE, è un modello normativo di carattere generale, per le società di capitali, e opera anche al di fuori di questo caso, per altre fattispecie, e in tutte le ipotesi in cui la società non riesce ad acquisire il valore del bene in natura conferito dal socio.
Ad esempio un socio conferisce la proprietà di un immobile, e la società subisce l’EVIZIONE (cioè un terzo fa valere i suoi diritti sulla cosa e ne ottiene lui la proprietà). Diminuisce quindi il valore conferito dal socio, e opera anche qui la conversione dell’obbligo, anche in questo caso. Deve esser quindi versato l’equivalente finanziario del conferimento immobiliare.
Questo vale per le SPA e le SRL, non vale per le società di persone perché le persone hanno come sappiamo la responsabilità illimitata e i terzi sono quindi protetti e tutelati da questo tipo di responsabilità, non dal capitale formato da conferimenti ma dai beni personali dei soci.
Ci chiediamo in conclusione, può essere trasferita la partecipazione del socio d’opera? NO, perché la prestazione ha carattere infungibile. Ma anche SI, secondo alcuni, con però dei correttivi: l’alienante continua a essere obbligato e l’acquirente subentra nella polizza o nella fidejussione.
Lezione 27/03/2009 – Maugeri
L’AZIONE - LA PARTECIPAZIONE SOCIALE – AZIONARIA, di società per azioni.
Tradizionalmente sono tre i significati attribuiti all’AZIONE, ognuno con un suo contenuto normativo:
1. UNITA’ DI MISURA
2. PARTECIPAZIONE SOCIALE
3. TITOLO DI CREDITO
L’azione come UNITA’ DI MISURA
Questo significato attribuito alle azioni è una conseguenza della funzione organizzativa del capitale sociale. Tale funzione indica che il peso amministrativo e patrimoniale di ogni singolo azionista dipende dal numero delle azioni detenuto. L’azione rappresenta quindi l’UNITA’ MINIMA di investimento nella società azionaria, cioè l’azione indica l’ammontare minimo di risorse da investire. Rappresenta anche il CRITERIO DI MISURAZIONE DELLA ENTITA’ relativa dei diritti spettanti ad ogni socio.
Questo significato è ricollegato al valore nominale dell’azione, ed è importante ricordare che PRIMA della riforma l’art. 2346 conteneva il DIVIETO DI EMETTERE AZIONI PER SOMME INFERIORE AL VALORE NOMINALE. Questo divieto però produceva rigidità, ad esempio una società quotata il cui prezzo delle azioni aveva valore inferiore al valore nominale, se avesse voluto finanziarsi emettendo nuove azioni, non avrebbe potuto emetterle a un valore inferiore al valore nominale, visto il divieto che lo impedisce, ma nessuno avrebbe acquistato azioni al valore nominale, visto che era superiore al prezzo di mercato, nessuno avrebbe investito.
La riforma ha quindi tolto il divieto, e oggi abbiamo un nuovo art. 2346. Leggendo il quinto comma vediamo che si passa da un divieto di emissione per ogni singola azione al di sotto del valore nominale ad un divieto di valore dei conferimenti inferiore all’ammontare GLOBALE del capitale sociale, al di sotto del valore del capitale sociale non si possono emettere azioni. Da una dimensione individuale, per la singola azione, si passa a una dimensione collettiva, dell’intero capitale.
Un’altra innovazione della riforma è stata che le Spa possono ora emettere azioni SENZA valore nominale - vedi art. 2328 n.5) – che infatti prevede che l’atto costitutivo debba contenere il NUMERO e l’EVENTUALE valore nominale. Quindi ora la società può oggi più facilmente finanziarsi sul capitale di rischio, può emettere azioni a valore inferiore al valore nominale.
In passato ogni azione aveva valore nominale, e non si poteva scendere, anche se il prezzo di vendita scendeva. Oggi le società possono emettere azioni con prezzo calibrato al prezzo di mercato, o anche più basso, non possono però scendere al di sotto del capitale sociale.
Devono in caso AUMENTARLO. Aumentando il capitale sociale possono emettere altre azioni, anche senza indicarne il valore nominale. E’ da ricordare che i già soci hanno in caso il DIRITTO DI OPZIONE (tra l’altro diritto cedibile) sulle nuove azioni.
E’ importante anche ricordare sempre che la SOCIETA’ è una disciplina di gestione di un’attività, fatta NELL’INTERESSE DEI SOCI. L’interesse dei soci è un criterio fondamentale.
Come abbiamo detto l’azione indica l’unità minima di investimento, ma se possono essere azioni senza l’indicazione del valore nominale, viene meno allora questa funzione dell’azione come unità minima di investimento? Sì, viene meno questa funzione, ma NON VIENE MENO il criterio di misurazione dei diritti, perché anche se il valore nominale non è indicato, è deducibile un VALORE NOMINALE IMPLICITO, che consente sempre di misurare la partecipazione. E si calcola semplicemente dividendo il capitale sociale per il numero di azioni messe in circolazione.
CAPITALE SOCIALE
NUMERO AZIONI
Dal calcolo risulta anche quante azioni spettano a ogni socio rispetto al valore singolo.
La riforma ha anche consentito l’ASSEGNAZIONE NON PROPORZIONALE delle azioni ai singoli soci. C’è quindi la possibilità che al singolo socio sia assegnato un numero di azioni il cui valore non è proporzionale all’entità del conferimento effettuato (vedremo nelle prossime lezioni la logica economica di questa ipotesi).
Se leggiamo l’art. 2346, quarto comma, vediamo che ogni socio ha diritto a una partecipazione proporzionale al conferimento. Non esiste altro criterio per stabilire quante azioni spettano ad ogni socio, solo il criterio proporzionale.
Ma il quarto comma dice anche che lo Statuto può derogare a questo criterio. In realtà un socio può anche conferire un valore inferiore, può conferire meno del valore delle azioni che gli vengono assegnate, ma la differenza deve essere poi coperta dagli altri soci. Se Tizio conferisce 80, gli possono essere assegnate azioni per 100, ma il restante 20 deve essere conferito dagli altri soci.
Ma perché gli altri soci dovrebbero coprire la differenza? Può capitare che lo facciano per far sì che quel socio entri in società, perché il socio è RILEVANTE per la società, ad esempio per una sua prestazione d’opera. Infatti questa tecnica serve a PERSONALIZZARE la SPA, a consentire l’acquisizione di conferimenti ATIPICI, cioè il conferimento di entità il cui valore non può concorrere alla formazione del capitale sociale. Infatti come abbiamo visto l’art. 2342 dice che la prestazione d’opera non può essere conferita, e a questo si ovvia con questo sistema.
Ma allora, poiché la legge consente l’assegnazione non proporzionale, viene meno la funzione organizzativa del capitale sociale ? Quella secondo cui più azioni si hanno più si ha peso nella società).
No, non viene meno perché il peso del socio che conferito un valore inferiore alle azioni dipende sempre dal NUMERO, che ha rilievo sociale, non dall’entità del suo conferimento.
L’azione è considerata la base, viene messa A MONTE, è la base per costruire l’organizzazione sociale, e attiene ai rapporti contrattuali tra i soci. Questo principio ha creato molti problemi applicativi, ad esempio per la tutela dei creditori e l’azione revocatoria.
Se rileggiamo l’art. 2247 c.c. – Contratto di società Con il contratto di società due o più persone conferiscono beni o servizi per l’esercizio in comune di un’attività economica allo scopo di dividerne gli utili.
Dice … conferiscono …., non esiste la società gratuita. Ma visto che può conferire anche un valore inferiore, può anche non conferire niente? Possono essergli assegnate azioni senza che versi nulla, e il valore viene conferito tutto dagli altri soci? La legge lo consente? Questo socio poi parteciperebbe alla vita sociale?
Questa ipotesi è coerente con l’art. 2247 e con il divieto di patto leonino, art. 2265, cioè il divieto di escludere un socio da utili o perdite?
La dottrina è tutt’ora divisa su questi aspetti. Una parte dice di no, e considera un illecito l’assegnazione di azioni a un socio che non abbia conferito nulla, e una parte della dottrina lo considera invece legittimo.
L’art. 2247 a guardarlo attentamente in realtà vuole che IN ASSOLUTO ci siano dei conferimenti, e non ci sono dubbi, ma non dice che debbano provenire da OGNI socio.
Per quanto riguarda l’art. 2265 invece, si configurerebbe per questo socio una mancata partecipazione alle perdite se la perdita viene considerata un confronto tra quanto INVESTITO e quanto GUADAGNATO, e quindi se non c’è investimento sarebbe giusto considerarlo un illecito, far partecipare quel socio alle perdite. Non può infatti partecipare a un risultato tra investito e guadagnato, visto che non ha investito niente.
Ma se invece per partecipazione alle perdite si intende partecipazione AL RISULTATO DEL PERIODO, risultato di esercizio, al quale il socio partecipa, corre il rischio di non conseguire alcuna utilità economica, allora anche se non c’è conferimento da parte sua c’è comunque partecipazione alle perdite, al risultato di ESERCIZIO.
Quello che va evitato è che ci siano SOCI CHE NON HANNO INTERESSE ALLA GESTIONE, che come abbiamo ripetuto è principio fondamentale per la società. Alcuni autori affermano che nell’ipotesi del socio non conferente l’interesse non ci sia, altri che invece l’interesse c’è sempre. Ad esempio una persona che riceve una DONAZIONE di partecipazione sociale, non ha quindi conferito nulla ma si ritrova socio, è difficile valutare se abbia effettivamente interesse a che la gestione vada bene, ma in generale l’interesse c’è sicuramente.
Per riprendere il discorso iniziale, stiamo esaminando l’azione nel suo significato di UNITA’ DI MISURA, e dobbiamo evidenziare tre principi fondamentali:
1) INDIVISIBILITA’ - l’art. 2347 dice che l’azione deve essere individuale affinchè sia una unità di misura, e il suo eventuale frazionamento è di competenza dell’ASSEMBLEA, non del singolo socio. Se un’azione ha valore nominale di 1€, il socio non può dividerla in due azioni da 0,50 centesimi, serve la convocazione dell’assemblea. Quello che invece si può fare è avere delle azioni in COMUNIONE, ma la proprietà anche se comune, è sempre del valore integro dell’azione. Ad esempio degli eredi di partecipazioni azionaria, la ereditano con la successione in comunione, e possono al limite solo vendere, non dividere il valore della singola azione. Oltretutto visto che le azioni circolano sul mercato, e i prodotti del mercato necessitano della fungibilità, se le azioni si potessero dividere non sarebbero più standardizzate, fungibili una con l’altra, e non ci sarebbe mercato.

2) INSCINDIBILITA’ – questo principio comporta che i singoli diritti amministrativi o patrimoniali legati alle azioni non possono essere scissi, cioè separati dalla stessa partecipazione sociale. Questo principio, che indica che i diritti collegati alla partecipazione azionaria non possono essere ceduti, in particolare porta al DIVIETO DELLA VENDITA DEL VOTO, il diritto al voto del socio non può essere scisso dalla partecipazione sociale, non può essere ceduto, così come il diritto agli UTILI. Il DIVIETO vige per garantire il principio di interesse alla gestione, il già citato collegamento tra potere e rischio. Non ci devono essere soggetti non interessati alla gestione, che non hanno investito. Se si consentisse al singolo socio di scindere i diritti collegati al possesso delle azioni, vorrebbe dire inoltre che quel socio potrebbe fissare le condizioni per l’esercizio dei diritti sociali. Ad esempio, se esaminiamo il funzionamento dell’assemblea vediamo che il criterio di chi può votare in assemblea è stabilito dai principi fissati sugli indici di legittimazione, cioè ci sono dei principi che fissano chi è legittimato a votare, e su quelli il presidente in assemblea si regola per raccogliere i voti. Ma se un socio potesse cedere il suo diritto di voto, non ci sarebbe più controllo. Ci sono eccezioni a questa regola? Ad esempio se un’assemblea delibera l’assegnazione dei dividendi, nel tempo necessario che trascorre all’effettivo “distacco della cedola”, il socio può cedere il suo diritto al dividendo, in questo periodo? La risposta è sì, ma perché il socio in questo caso non cede il diritto collegato al possesso azionario, ma cederebbe il suo diritto di credito, sorto in assemblea, è un diritto diverso, non è quello derivante dalla partecipazione sociale, non è collegato alla sua partecipazione sociale, quindi non sarebbe una deroga alla inscindibilità. Anche per esempio nel caso di diritti di godimento, o la cessione dell’usufrutto di azioni. Vediamo l’art. 2352, primo comma, sul pegno, usufrutto e sequestro delle azioni, dice che il diritto voto spetta rispettivamente al creditore pignoratizio e al custode, in caso di sequestro. Sembra una deroga all’inscindibilità, ma in realtà non lo è perché il creditore pignoratizio e il custode è TITOLARE DI UN INTERESSE che investe l’intera partecipazione sociale, è in una posizione analoga a quella del socio, ha un interesse vero alla gestione, in Germania questo soggetto lo chiamano addirittura QUASI-SOCIO, perché ha interesse al valore della partecipazione, nel caso anche che la venda, ha interesse che la partecipazione abbia un valore elevato. Così anche l’usufruttuario, ha interesse ai dividendi, quindi alla REDDITIVITA’. Vediamo anche l’art. 2497, primo comma, in ambito di gruppi, è tutelata infatti la redditività.

L’interesse della partecipazione sociale la possiamo scomporre in due aspetti:
 Interesse al VALORE – per la sua vendita
 Interesse alla REDDITIVITA’ – per i dividendi
Se vediamo infatti l’ultimo comma dell’art. 2352, vediamo che i diritti spettano sia al socio che al creditore, e questo comma è stato inserito con la riforma, che ha rilevato proprio il fatto che hanno entrambi lo stesso interesse, anche verso il diritto amministrativo di impugnazione delle delibere assembleari.

3) AUTONOMIA – questo principio si sostanzia nel fatto che anche allo stesso soggetto appartengono più azioni ogni azione conserva la sua identità giuridica. Il principio di autonomia è una conseguenza del fatto che nella SPA l’AZIONE viene PRIMA DELLA PERSONA del socio. Nella SRL invece viene PRIMA LA PERSONA, rispetto alla QUOTA. Le conseguenze dell’autonomia dell’unità azionaria sono:
- Il socio della Spa può alienare le azioni separatamente una dall’altra. Nella Srl invece la quota è unitaria, se l’atto costitutivo non ne prevede la divisibilità, il socio non può venderne una parte, un pezzo, può cedere solo l’intera quota.
NELLA SRL LE PERSONE SONO PARI ALLE QUOTE
NELLE SPA LE PERSONE SONO IN NUMERO DIVERSO RISPETTO ALLE AZIONI
Infatti possono esserci anche spa di una persona e di tante azioni da questa possedute.
- C’è l’ammissibilità del recesso PARZIALE. In presenza delle cause previste dalla legge o dallo statuto il socio può anche recedere per una parte soltanto delle sue azioni. Per le SRL invece va ribadito che anche qui il recesso riguarda solo l’intera quota, non può recedere solo per una parte.
Il criterio dell’autonomia dice che IL SOCIO SE HA n AZIONI, E’ n VOLTE SOCIO, ecco in cosa si concretizza l’autonomia della unità azionaria. Vediamo ora i limiti a questa autonomia.
Primo limite alla autonomia azionaria – alcune volte la legge attribuisce rilievo, anche per le SPA, al concetto di QUOTA, cioè al numero totale di azioni detenute, e subordina l’esercizio di alcuni diritti al possesso di un tot, di un certo numero, di una certa percentuale di azioni. Per esempio il diritto di impugnazione delle delibere, con la riforma questo diritto è diventato riservato ai soci che hanno un numero QUALIFICATO di azioni (art. 2377, terzo comma). Ecco che quindi si dà rilievo non alla unità azionaria ma al numero complessivo di azioni possedute.
Secondo limite alla autonomia azionaria – si rende necessario un correttivo a questa autonomia, perché se spinta all’eccesso, si potrebbero anche intendere come possibilità di esercitare i diritti legati all’azione SEPARATAMENTE PER OGNI AZIONE. Il cosiddetto VOTO DIVERGENTE. Un socio potrebbe con un’azione votare a favore una delibera, e con un’altra azione votare contro la stessa delibera. La legge ricollega al voto l’esercizio di determinati diritti sociali, e in particolare presuppone che il socio che si oppone non abbia concorso alla formazione della deliberazione assembleare. Se non è d’accordo ha quindi:
- Diritto di impugnazione
- Diritto di recesso
Ma chi ha votato a favore della delibera non può poi impugnarla. Ma se si potesse votare in modo diverso per ogni azione il socio avrebbe sempre la possibilità di votare contro, e di conseguenza il diritto di impugnare la delibera. Questo contrasterebbe con la disciplina di legittimazione alla impugnazione e al recesso.
Ma il voto divergente diventa legittimo quando c’è un interesse meritevole di tutela. Prendiamo ad esempio, una società fiduciaria che si vede intestare delle azioni di soggetti diversi. Il socio è quindi formalmente la società fiduciaria, ma sostanzialmente sono invece i soggetti che hanno ceduto le partecipazioni, i fiducianti. La società fiduciaria non vota quindi come piacerebbe a lei, ma vota come vogliono i fiducianti, che essendo diversi possono divergere come opinione, alcuni possono far votare la fiduciaria contro una delibera, altri possono farla votare a favore. La fiduciaria ha quindi la possibilità di voto divergente, per tutelare gli interessi dei fiducianti, interessi meritevoli di tutela. Il fenomeno fiduciario consente e ammette quindi il voto divergente. O prendiamo un Comune, un ente pubblico, che ha delle partecipazioni azionarie, ha diritto al voto divergente perché ha diverse rappresentanze politiche, e anche le minoranze vanno tutelate.
Passiamo ora a esaminare l’azione come PARTECIPAZIONE SOCIALE.
L’azione come PARTECIPAZIONE SOCIALE
Vediamo innanzitutto l’art. 2348 – Categorie di azioni
“Le azioni devono essere di eguale valore e conferiscono ai loro possessori uguali diritti. Si possono tuttavia creare, con lo statuto o con successive modificazioni di questo, categorie di azioni fornite di diritti diversi anche pr quanto concerne la incidenza delle perdite. In tal caso la società, nei limiti imposti dalla legge, può liberamente determinare il contenuto delle azioni delle varie categorie. Tutte le azioni appartenenti ad una medesima categoria conferiscono uguali diritti. “
Vediamo cosa vuol dire esattamente l’articolo, azioni speciali? Diversità di diritti? Attribuiscono in effetti diritti diversi rispetto a quelli delle altre azioni, e i limiti di cui parla, che ci sono nella creazione di categorie, quali sono questi limiti?
Partiamo dalla DIVERSITA’. Il diritto come sappiamo è una situazione giuridica soggettiva (attiva o passiva) che qui può essere incorporata nel contenuto della partecipazione sociale.
Viene da chiedersi, le azioni interamente liberate e quelle non interamente liberate, costituiscono due diverse categorie di azioni? NO perché hanno eguali diritti.
E guardando alla legge di circolazione dei titoli, le azioni nominative e le azioni al portatore costituiscono due categorie di azioni diverse? NO, anche qui hanno eguali diritti, la differenza non è sul contenuto, ma solo sul SOGGETTO titolare dell’azione.
Lo statuto, visto l’articolo, potrebbe allora prevedere che solo alcune azioni siano colpite da limiti di trasferimento, come il diritto di prelazione degli altri soci, o il diritto di gradimento degli altri soci. Ma anche qui la differenza non influirebbe sui diritti, imporrebbe solo un limite ai trasferimenti, su una posizione passiva, non su un diritto. Però la CATEGORIA ricomprende non solo azioni che attribuiscono diritti diversi, ma anche le azioni soggette a REGOLE ORGANIZZATIVE DIVERSE DA QUELLE PROPRIE DELLE ALTRE AZIONI, quindi SI, si possono considerare categoria a parte quelle azioni su cui pesa, o non pesa, il diritto di prelazione o la necessità del gradimento degli altri soci.
E per le SRL, vi è differenza? Si, perché le categorie servono per agevolare e incentivare gli investimenti azionari, sono fatte per favorire gli investimenti nella società. Nelle SRL non ci sono le categorie, ma ci sono DIRITTI PARTICOLARI. Vedi l’art. 2468, terzo comma, norma centrale per le SRL.
C’è una differenza sostanziale, tra spa e srl per quanto riguarda i diversi diritti attribuiti. Nella srl sono dati al socio, sono legati alla persona, nella spa sono legati all’azione, e circolano con lei.
 DIRITTI PARTICOLARI – LEGATI AL SOCIO
 CATEGORIE DI AZIONI CHE ATTRIBUISCONO DIRITTI PARTICOLARI – LEGATI ALL’AZIONE.

Nella spa l’unico modo per differenziare le posizioni degli azionisti è creare una categoria, che quindi pre-esiste ai soci che poi saranno titolari di quelle azioni
Nella srl si differenzia invece attribuendo il diritto particolare al singolo socio.
Questa differenza rileva anche nella circolazione delle quote o delle azioni. Nella SPA il diritto circola con l’azione, nella srl il diritto particolare accede alla persona, non è trasferito con la cessione della quota. E’ legato alla PERSONA. Non passa automaticamente all’acquirente della quota.
Torniamo ai limiti alla creazione di categorie, citati nell’ultima frase del secondo comma dell’art. 2348. NEI LIMITI IMPOSTI DALLA LEGGE. Prima della riforma c’era la TIPICITA’ delle categorie di azioni, si potevano quindi creare SOLO QUELLE previste dalla legge.
Oggi al contrario si possono creare categorie SALVO I LIMITI, quindi la possibilità di creazione di categorie è più libera, e si possono creare categorie che incentivino gli investimenti con più libertà. Dalla TIPICITA’ si è passati alla ATIPICITA’ CON LIMITI.

Essendo l’atipicità, le categorie quindi si moltiplicano, i soci sono liberi di determinare il contenuto delle partecipazioni sociali, hanno solo un problema di limiti.
I LIMITI sono ricavati sul piano funzionale della causa del contratto sociale, sul rispetto degli elementi del contratto e organizzativo.
LIMITI DI ORDINE FUNZIONALE: non sarebbe ad esempio legittimo creare una categoria di azioni che NON attribuisca diritto all’utile, che è causa societaria, elemento costitutivo del contratto sociale, oppure una categoria che non contempli la partecipazione alle perdite, questo contrasterebbe con l’art. 2347 e con il cosidetto patto leonino art. 2265. Lo statuto infatti può solo graduare la partecipazione a utili o perdite, non può escludere, cioè può prevedere ad esempio che ad azioni di classe A spetti il 30% dell’utile e che alle altre spetti il restante 70% ripartito proporzionalmente, oppure prevedere che le perdite incidano prima sulle azioni di classe A, poi sugli altri.
Guardiamo gli elementi costitutivi del TIPO, della società, che ricordiamo sono:
A) ORGANIZZAZIONE CORPORATIVA
B) FUNZIONE ORGANIZZATIVA DEL CAPITALE SOCIALE
e sottolineiamo il fatto che non si possono creare categorie che incidano su questi elementi.
Ad esempio, per quanto riguarda la organizzazione corporativa, esistono delle sfere di competenza spettanti ai singoli soci, per legge. Non si può creare, quindi, è illegittima una categoria di azioni che non rispetti questa sfera di competenza. Per esempio può crearsi una categoria di azioni che attribuisca un diritto di nomina diretta degli amministratori, NO (vedi CASI E MATERIALI, N. 8). Andrebbe contro la regola organizzativa che dice che spetta all’assemblea, principio proprio delle società per azioni. Può forse crearsi una categoria che nomini una minoranza di amministratori, la maggioranza spetta senz’altro all’assemblea.
Per quanto riguarda la funzione organizzativa del capitale sociale invece, la creazione ad esempio di una categoria di una sola azione colliderebbe con la funzione organizzativa del c.s., perché verrebbe meno la funzione di unità di misura dell’azione, sarebbe una quota non una frazione.
Questo porta a una rettifica dei principio di diritti legati alla categoria di azioni, e ai suoi limiti. I diritti devono essere MISURABILI, cioè devono essere legati al numero delle azioni. Ad esempio il diritto di voto è misurabile? SI, perché dipende dal NUMERO, quindi può essere oggetto di una categoria.
Il diritto all’utile? SI, l’ordinamento permette la creazione di azioni privilegiate rispetto all’utile.
Il diritto di intervento in assemblea, o di ispezione dei libri sociali? NO, perché non sono misurabili, cioè non sono collegati al numero delle azioni.
E’ importante la distinzione tra diritti MISURABILI e quelli NON MISURABILI, perché solo quelli MISURABILI possono essere oggetto di una categoria speciali di azioni.


AZIONI CORRELATE
(Vedi art. 2350, secondo e terzo comma )
Lo statuto può creare categorie di azioni che partecipano ai risultati di UN SETTORE DETERMINATO dell’attività sociale dell’impresa. La società deve quindi però avere un oggetto sociale complesso, con attività diversificate, che ricomprenda più settori.
Non è un ulteriore rapporto giuridico, non è un altro diritto. Se il settore prevede utili, non per questo nasce un diritto di credito per i possessori delle azioni correlate “non possono essere pagati dividendi … (vedi ultimo comma art. 2450).
Le azioni correlate danno solo luogo a una regola di ripartizione dell’utile interna all’organizzazione sociale. La partecipazione all’utile resta soggetta alle stesse regole organizzative che disciplinano la partecipazione all’utile delle altre azioni.
Le regole organizzative delle azioni correlate si concretizzano in:
 L’utile deve essere REALMENTE CONSEGUITO in bilancio. Se il settore va bene e ha un utile, ma il bilancio è in perdita, l’utile di settore non è diviso tra gli azionisti possessori di azioni correlate, ma copre la perdita.
 Serve una DELIBERA DELL’ASSEMBLEA ORDINARIA per la distribuzione dell’utile.
E’ necessario e importante distinguere il possesso di azioni correlate dalle partecipazioni al SINGOLO AFFARE, che invece danno diritto di credito al possessore della partecipazione, se il singolo affare ha dato un risultato.
Quando l’art. 2450 al secondo comma cita “Fuori dai casi….” intende cioè fuori dai casi di PATRIMONI DESTINATI, o strumenti finanziari diversi dalle azioni correlate.
Lezione 17/04/2009 – Maugeri
Abbiamo allora esaminato le Categorie di azioni, che sono sottoposte a regole diverse dalle altre azioni, normali.
Abbiamo anche visto cosa accade nelle SRL, e la differenza sostanziale che c’è con la Spa perché nella SRL è la posizione dei soci che conta, loro hanno DIRITTI PARTICOLARI, a differenza della Spa che invece ha azioni che incorporano i diritti diversi.
Quindi DIRITTO AZIONE per la SPA
DIRITTO PERSONA per la SRL
E ora ci si chiede: è ammissibile la CATEGORIA di quote nella SRL? Cioè la creazione di una categoria di quote a cui appartengono particolari diritti, svincolate dalla persone che le possiede? Così si separerebbe il diritto dalla persona e si incorporerebbe nella quota, nella partecipazione societaria.
Secondo Maugeri si può fare, ma solo per i diritti PATRIMONIALI, non si può fare per i diritti AMMINISTRATIVI, cioè legati alla gestione societaria, perché se si creasse una categoria di quote con dei diritti amministrativi, che circolano poi a terzi, senza il controllo degli altri soci, si creerebbe una contraddizione tipologica, perché è al SOCIO che si attribuisce il diritto amministrativo di gestione, e al contempo con la categoria di consentirebbe di farlo circolare.
L’assemblea speciale
L’ordinamento prevede la CATEGORIA DI AZIONI, come fattispecie, disciplinata all’art. 2376 c.c., che prevede l’assemblea speciale, che riunisce i possessori di una certa categoria di azioni, riunisce anzi i possessori di una categoria di STRUMENTI FINANZIARI, e ogni volta che una spa emette strumenti nuovi si crea un nuova assemblea speciale. Gli strumenti possono essere azioni di categoria speciale, obbligazioni, partecipazioni, altri strumenti.
Ma ci chiediamo a che serve l’assemblea speciale, che interesse protegge l’art. 2376, perché questa è sempre la domanda da farsi davanti a una norma. L’art. 2376 protegge l’interesse degli stesse possessori delle diverse categorie da delibere che “pregiudicano i diritti”, così come recita l’articolo, ma anche l’interesse della stessa società emittente perché se non ci fosse l’assemblea speciale le modifiche alle categorie dovrebbero essere deliberate all’UNANIMITA’, invece l’articolo consente di modificare le condizioni originarie di una categoria a maggioranza, evitando l’unanimità.
Vediamo quale è il modello di tutela per la modifica di strumenti, o categorie di strumenti finanziari. Dobbiamo dividere in due situazioni:
a) ORGANIZZAZIONE STABILE – si ha quando l’emissione dello strumento finanziario comporta il sorgere di una organizzazione duratura a tutela di quegli strumenti finanziari. Questa organizzazione si articola sempre in un organo DELIBERANTE (Assemblea) e un organo ESECUTIVO, con funzioni esecutive (il RAPPRESENTANTE COMUNE). Si ha per:
• AZIONI E STRUMENTI FINANANZIARI QUOTATI (art. 147ter del T.U.F.)
• OBBLIGAZIONI, e nasce automaticamente l’assemblea degli obbligazionisti
• STRUMENTI DI PARTECIPAZIONE A UNO SPECIFICO AFFARE (art. 2447 bis c.c.)
b) ORGANIZZAZIONE OCCASIONALE – prevede che l’assemblea dei possessori dello strumento finanziario si riunisca solo per pronunciarsi su una delibera dell’Assemblea generale, che pregiudica i diritti della categoria. Si ha come situazione RESIDUALE per:
• Azioni speciali NON QUOTATE
• Strumenti finanziari partecipativi NON QUOTATI

Abbiamo visto allora gli interessi tutelati dalle assemblee speciali e i modelli previsti, ma qual è la natura giuridica dell’assemblea speciale? E che succede se l’assemblea generale delibera qualcosa che pregiudica dei diritti e l’assemblea speciale non ha dato l’approvazione a questa modifica?
Ci sono diverse opinioni, e dottrine diverse e a seconda della scelta delle diverse teorie cambiano le conseguenze normative, profondamente diverse. Diverse tesi, diverse conseguenze.
1. Secondo Mignoli l’assemblea speciale è una ASSOCIAZIONE ATIPICA, esterna alla organizzazione sociale. E in questo caso un’assemblea generale che decidesse una modifica senza la delibera della assemblea speciale avrebbe una delibera INEFFICACE. L’inefficacia è la sanzione per gli atti dispositivi dei diritti di TERZI, cioè esterni. E’ la sanzione per chi dispone del diritto di un altro, e viene fatto valere con una azione di accertamento.
2. Altra impostazione è quella di Giuseppe Ferri, che invece caratterizza l’assemblea speciale come un organo della società, quindi interno. In questo caso se l’assemblea speciale è dunque un organo interno la sua delibera diventa un elemento del procedimento di formazione della volontà sociale. Se manca quindi, il procedimento non è conforme alla legge, quindi una decisione solo della assemblea generale diventa IMPUGNABILE (art. 2377 c.c. termine di decadenza di 90 gg.).

Il prof. Maugeri preferisce la seconda ipotesi, per la certezza che dà, perché la prima avrebbe una sospensione della decisione molto lunga, l’azione di accertamento è lunga, quindi frenerebbe l’attività dell’impresa.
Ora chiediamoci ma cosa si intende quando si dice che una delibera può PREGIUDICARE una categoria di azioni ? Esaminiamo cosa significa quando si applica l’art. 2376, cioè quando c’è un pregiudizio.
Abbiamo tre nozioni di pregiudizio.
1) Di MERO FATTO – quando il contenuto dell’azione resta invariato, ma il diritto speciale viene inciso sul piano economico-fattuale. Sul piano formale quindi il diritto in capo all’azione speciale resta uguale, ma è pregiudicato sul piano economico. Es. prendiamo delle azioni privilegiate nella distribuzione degli utili. La società delibera una fusione con una società indebitata, quindi la fusione pregiudica l’utile, in generale, e anche quindi quello delle azioni privilegiate, C’è una lesione economica, non giuridica, il diritto non è toccato, quindi non rileva l’art. 2376 c.c.
2) Di DIRITTO DIRETTO – quando viene modificato il contenuto delle partecipazioni azionarie in senso DETERIORE. Es. E’ previsto una assegnazione dell’utile pari al 10% ai possessori di azioni privilegiate, l’assemblea generale delibera e riduce al 5% il privilegio, peggiora quindi il diritto. Rileva l’art. 2376 c.c.
3) Di DIRITTO INDIRETTO – quando il contenuto della partecipazione resta invariata, il diritto resta intatto ma si modifica il rapporto proporzionale con le altre categorie di azioni. Si pregiudica il cosiddetto DIRITTO AL RANGO. Es. se la società emette altre azioni con un privilegio superiore, chi aveva il diritto al 10% dell’utile si vede emettere altre azioni con una priorità, con una percentuale più alta. Anche qui rileva l’art. 2376 c.c.
Per le obbligazioni la legge (art. 2415 c.c.) è un po’ diversa, l’assemblea degli obbligazionisti ha potere di delibera più ampia, ha più materie su cui deliberare, non delibera solo in caso di pregiudizi eventuali apportati agli obbligazionisti. Esempio al quarto comma al numero 2) dove indica la modifica delle condizioni del prestito.
L’obbligazione è una FRAZIONE di una unitaria operazione di finanziamento collettivo. La causa della emissione è una causa mutui, cioè un finanziamento, ecco perché si parla di prestito, di mutuo, di finanziamento. Quando viene modificato il prestito, le sue modalità, serve la delibera degli obbligazionisti proprio per modificarlo, non per salvarsi da un pregiudizio.
Una certa dottrina divide le delibere sulle modifiche in:
a) ACCESSORIE e quindi possibili
b) STRUTTURALI e quindi illegittime

Quale è a questo punto la competenza dispositiva dell’assemblea? Acquistereste un’obbligazione che può essere modificata? Ci sono dei limiti al potere di cambiamento delle modalità del prestito? L’unico limite al potere dispositivo dell’assemblea degli obbligazionisti si trova su CASI E MATERIALI e si identifica nella IMPOSSIBILITA’ DI NOVAZIONE del prestito, cioè una modificazione causale.
L’obbligazione è un titolo rappresentativo di un prestito, e incorpora il diritto al rimborso del capitale prestato e agli interessi, si avrebbe NOVAZIONE se si sopprimesse il diritto al rimborso stesso o al percepimento degli interessi, che sono la motivazione, la causa prima della obbligazione.
Per fare questo servirebbe un consenso UNANIME, non l’assemblea semplice degli obbligazionisti. A volte succede, che sia necessario modificare il rimborso del debito, è un caso non raro, si chiama di RISTRUTTURAZIONE DEL DEBITO, e succede che il diritto al rimborso o agli interessi NON E’ SOPPRESSO, non è intaccato, è solo SOSPESO o RINVIATO, e si delibera per esempio una dilazione nella restituzione, o una riduzione o sospensione della corresponsione degli interessi.
E così abbiamo terminato di esaminare l’azione come PARTECIPAZIONE SOCIALE, passiamo ora a vedere l’azione come TITOLO DI CREDITO.
L’azione come TITOLO DI CREDITO
Il titolo di credito non è un concetto normativo, è un concetto TIPOLOGICO, economico-sociale. Un esempio di concetto normativo è la persona giuridica, è una realtà definita e creata dalla legge, il titolo invece è una realtà economica, è un DOCUMENTO, che la funzione primaria di mobilizzare la ricchezza, di favorire la circolazione di un DIRITTO DI CREDITO, quindi appunto di ricchezza.
E ha una particolare disciplina, e vediamone i motivi. Ad esempio un credito, per essere ceduto, deve essere NOTIFICATA al debitore ceduto appunto la cessione effettuata. Questo per regolare i conflitti, infatti in caso di cessione a due diversi soggetti prevale quello che per primo notificato al debitore ceduto di aver ricevuto il diritto di credito. O altro esempio l’acquisto del credito, che è a TITOLO DERIVATIVO, e quindi il cessionario, cioè colui che riceve il diritto di credito, rischia di vedersi opporre, di incorrere, nelle eccezioni che potevano essere opposte al cedente. Questi sono OSTACOLI alla cessione del credito che l’ordinamento risolve INCORPORANDO il diritto in un documento cartaceo, il quale a questo punto si vede applicata la DISCIPLINA DELLE COSE MOBILI (artt. 1153 – 1155 c.c.).
Quindi il cosiddetto fenomeno della INCORPORAZIONE del diritto in un documento cartaceo consente di ovviare a tutti i problemi di circolazione del credito, di facilitarne al massimo la circolazione, applicando norme come il POSSESSO IN BUONA FEDE, che prevede come sappiamo che ci consegue un oggetto in buona fede NON E’ SOGGETTO A ECCEZIONI da parte del legittimo proprietario, prevale infatti chi per primo ha conseguito il POSSESSO, e lo ha conseguito in buona fede, oltretutto essendo esonerati dal dover dimostrare di esserne il proprietario. ECCO CHE LO STRUMENTO DELL’INCORPORAZIONE, applicata ai titoli di credito, FACILITA LA CIRCOLAZIONE degli stessi.

I titoli di credito sono soggetti a tre principi fondamentali:
1) LETTERALITA’ – il contenuto del diritto è quello indicato nel titolo, scritto sul titolo, letteralmente, e niente altro.
2) AUTONOMIA – L’art. 1994 c.c. riproduce in realtà il principio indicato nell’art. 1553 c.c., e cioè il POSSESSO VALE TITOLO: come anticipavamo prima, chi consegue in buona fede il possesso del documento incorporante il titolo di credito, e il suo possesso è QUALIFICATO, cioè conseguito nel rispetto delle leggi di circolazione, e con un titolo (es. contratto) ASTRATTAMENTE IDONEO, non è soggetto a rivendicazioni. Per questo si dice che il titolo è AUTONOMO, si stacca dal suo passato. Riepiloghiamo, le condizioni per non essere soggetti a rivendicazioni dopo essere venuti in possesso di un titolo di credito sono:
• Averlo conseguito in BUONA FEDE
• Averlo ottenuto con un TITOLO IDONEO, ad esempio un contratto
• Averlo ottenuto rispettando le previste leggi di circolazione (ad esempio attraverso la consegna reale del documento)
3) ASTRATTEZZA – il debitore, cioè colui che ha emesso il titolo creando un diritto di credito per un terzo, non può opporre ai successivi portatori del titolo eccezioni fondate sul primo rapporto, sul rapporto fondamentale, ma può opporre solo le eccezioni indicate nell’art. art. 1993 c.c. che possono essere:
• Personali –riferite alla persona, quindi solo a certi determinati portatori, eccezioni che nascono da un rapporto personale con QUEL determinato possessore
• Reali – opponibili a tutti, ma tassative, tassativamente elencate.
Il secondo comma dell’art. 1993 prevede anche l’ECCEZIONE di DOLO, cioè il successivo portatore può vedersi opporre le eccezioni precedenti se si prova che c’era l’intenzione di arrecare un danno, e cioè se c’era l’intenzione dolosa di evitare al portatore appunto le eccezioni. Per essere più chiari, quando due soggetti si mettono d’accordo, e il primo, cedente, cede al secondo, cessionario, un titolo di credito proprio per evitare che a lui si oppongano le eccezioni, contando sul principio di astrattezza. Ma se si prova che la cessione è stata fatta per questo, allora si possono opporre le eccezioni, appunto per DOLO.
I concetti importanti relativi ai titoli di credito, da tenere a mente e da tenere soprattutto BEN DISTINTI, sono:
a) La TITOLARITA’ – acquisita mediante l’acquisto della PROPRIETA’ del titolo di credito, con il fenomeno della incorporazione. La titolarità quindi attiene alla proprietà, che si ottiene con un CONTRATTO, con valenza TRASLATIVA.
b) La LEGITTIMAZIONE – che invece è la CONDIZIONE DI ESERCIZIO del diritto cartolare. Si presuppone che il titolo sia stato acquisito nell’osservanza delle regole di circolazione (art. 1992 c.c.). La legittimazione può essere REALE O NOMINALE a seconda del tipo di titolo, e il titolo può essere:
- AL PORTATORE – non reca nominativi di possessori sul documento, e la legittimazione si trasferisce mediante la semplice CONSEGNA, quindi la legittimazione è REALE.
- ALL’ORDINE – il documento contiene il nominativo del possessore, la legittimazione è NOMINALE, e si trasferisce con la GIRATA, che è un ordine scritto sul documento (…per me pagate a….), e che può portare ad avere una serie continua di giratari.
- NOMINATIVO – il documento contiene il nominativo del possessore, e il nominativo è anche indicato sul REGISTRO dell’emittente il titolo. La legittimazione si acquisisce quindi con una doppia intestazione, con una doppia annotazione della girata, sul titolo e sul registro. La legittimazione anche qui è NOMINALE.

Il principio di autonomia, che abbiamo visto prima, indicato all’art. 1994 c.c. Effetti del possesso di buona fede, prevede che chi acquista in buona fede il possesso di un titolo di credito non è soggetto a rivendicazione, e presuppone il rispetto della legge prevista per il trasferimento, quindi la legittimazione, ma richiede anche un trasferimento di titolarità, quindi un titolo astrattamente idoneo, come un contratto.
L’art. 1992 definisce la legittimazione, Adempimento della prestazione (vedi anche art. 2008 c.c.).
Vediamo ora l’art. 2346 c.c., primo comma, “La partecipazione sociale è rappresentata da azioni….” e va detto che l’azione è poi NORMALMENTE rappresentata da un titolo cartaceo, ma ci sono forme alternative.
La partecipazione sociale è quindi incorporata nell’azione, ma lo Statuto può prevedere la NON EMISSIONE di titoli, o anche tecniche alternative, come la cosiddetta DEMATERIALIZZAZIONE (art. 2354 c.c. ultimo comma).
Diciamo allora che la rappresentanza CARTOLARE dell’azione è la REGOLA, e che altre forme costituiscono una ECCEZIONE, possibile per legge.

Va rilevato che la disciplina dei titoli di credito, che abbiamo visto l’anno scorso, diventa più complessa per quanto riguarda le AZIONI, e veniamo ora a domandarci quale sia la natura giuridica del certificato azionario.

Ci domandiamo innanzitutto, ma l’azione è davvero un titolo di credito, lo è pienamente?
Esaminiamo il principio di letteralità, il contenuto. L’ art. 2354 c.c. Titoli azionari elenca le informazioni, gli elementi che devono essere indicati sulle azioni. Ma questo contenuto previsto per legge è sufficientemente esplicito per quanto riguarda i diritti e i doveri collegati al possesso di azioni? Possiamo dire di NO. La norma prescrive infatti di indicare solo il valore nominale, l’ammontare dei versamenti, e diritti e obblighi PARTICOLARI, non indica la posizione degli organi societari, ad esempio, quindi la lettura del titolo azionario non consente di avere un quadro generale, non è rispettato il principio di letteralità. L’azione è un titolo a LETTERALITA’ INCOMPLETA, ma integrabile per relationem, cioè il titolo riporta e rimanda all’ufficio del registro delle imprese, dove è depositato l’atto costitutivo dell’impresa, quindi tutte le regole interne societarie, e si presume, si desume che chi voglia conoscere il contenuto del titolo azionario nella sua globalità, e quindi sulla società, vada a consultare il registro delle imprese.
Esaminiamo ora il principio di astrattezza, relativamente all’azione come titolo di credito. In che misura la società può opporre eccezioni ai possessori di azioni, il cui possesso è stato acquisito in buona fede? Abbiamo visto che l’art. 1993 indica solo tre tipi di eccezioni che si possono opporre ai titoli di credito: reali, personali e di dolo. Ma le azioni prevedono che il rapporto sociale nasca dal fenomeno organizzativo, e NON PUO’ NON AVERE le stesse caratteristiche per TUTTI gli azionisti. Quindi ci troviamo di fronte a due tipi di esigenze:
ESIGENZE DELLA
ORGANIZZAZIONE SOCIALE
con rilevanza COLLETTIVA ESIGENZE DEL TERZO ACQUIRENTE,
POSSESSORE IN BUONA FEDE
con rilevanza INDIVIDUALE

E’ differente proprio la rilevanza dell’interesse coinvolto, per il possessore, come per la cambiale, l’interesse, la rilevanza è individuale, ma nel caso della organizzazione sociale, della società, la rilevanza è senz’altro collettiva.
Come si risolvono quindi i conflitti tra le due esigenze, cioè la necessità per la società di opporre eccezioni ad un terzo acquirente, nell’interesse di tutta la società, e la tutela del terzo acquirente, in buona fede, che vedrebbe minacciato il suo interesse individuale? Si può applicare il principio di buona fede?
Facciamo degli esempi.
La SOVRAEMISSIONE di azioni – vengono emesse delle azioni in più, in numero maggiore a quelle previste, e vengono acquistate, possedute da soggetti terzi, in perfetta buona fede. La società può eccepire? La società ha quindi da una parte la necessità di tenere equilibrato il rapporto con gli altri azionisti, titolari delle azioni legittime, ma dall’altra c’è un soggetto che in buona fede ha acquistato quelle azioni.
Altro esempio, delle AZIONI NON INTERAMENTE LIBERATE, e come sappiamo deve essere indicato sull’azione, che non è stata interamente liberata (art. 2354 al n. 4)). Che succede se queste azioni vengono messe in circolazione, se vengono emessi dei titoli per azioni non interamente che non contengono l’indicazione prevista? Quindi se dal titolo non risulta che non sono interamente liberate, ma il terzo le acquista in buona fede pensando che lo siano, la società può prevalere sul terzo in buona fede e chiedere a lui la liberazione delle azioni? La tutela prevista dalla disciplina cartolare dice che il terzo non dovrebbe risponderne, il possessore in buona fede è protetto da eccezioni precedenti. Quindi però il capitale sociale non sarebbe integralmente versato, liberato. Ecco che i due interessi, individuale e collettivo, si contrappongono. Quando il titolo non ha rilevanza solo individuale, come in questo caso delle azioni, ma ha rilevanza appunto collettiva, perché coinvolge gli altri soggetti della società, gli altri azionisti e la società stessa, che disciplina va applicata? Si può applicare in toto la disciplina cartolare?
Le risposte ci arrivano da diversi orientamenti, che ora cercheremo di riassumere:
 Primo orientamento: l’azione NON E’ UN TITOLO DI CREDITO, e quindi non si applica la disciplina cartolare, prevista per i titoli di credito, quindi la società può applicare la disciplina societaria e opporre al terzo tutte le eccezioni. Non si applica l’art. 1993 c.c. Questa è una risposta antica, di un orientamento che risale a tempi lontani, la disciplina cartolare nasce infatti storicamente con la cambiale.
 Secondo orientamento: l’azione E’ UN TITOLO DI CREDITO e quindi si applica la disciplina cartolare, e l’art. 1993. In questo caso con uno sforzo interpretativo si cerca di ricondurre la sovraemissione e la non liberazione delle azioni all’art. 1993, Eccezioni opponibili. Vediamo come.
La sovraemissione è considerata DIFETTO DI RAPPRESENTANZA, cioè si afferma che gli amministratori non potrebbero farlo, non potrebbero emettere altre azioni.
La mancata liberazione e la mancata indicazione sul titolo azionario è considerata MANCANZA DI CONDIZIONI PER L’ESERCIZIO DELLE AZIONI, perché avrebbero come conseguenza di mettere in mora l’azionista, lo rendono impossibilitato a esercitare i diritti sociali.
Quindi ecco che le due situazioni sono ricondotte a due ECCEZIONI previste nell’art. 1993 c.c.

Il primo orientamento, la tesi che nega all’azione la caratteristica di titolo di credito sarebbe da scartare, ma anche in realtà la seconda lascia perplessi e suscita dubbi, perché in realtà il difetto di rappresentanza non c’è, gli amministratori hanno il potere di emettere azioni, non è una teoria convincente. E anche per quanto riguarda la mancata liberazione, questa non è riconducibile alla mancanza di condizioni per l’esercizio dei diritti sociali, perché il versamento è richiesto anche se il socio non ha intenzione di esercitare i diritti sociali, non sono due cose collegate, quindi anche qui la riconduzione è artificiosa.

Ma allora come si risolvono i conflitti? La dottrina più recente ha elaborato una terza tesi, con una prospettiva intermedia tra le due precedenti e distingue le anomalie secondo la rilevanza:
 ANOMALIE A RILIEVO ORGANIZZATIVO-COLLETTIVO, come la sovraemissione. Qui applica i principi cartolari, e in particolare l’art. 1994 c.c., valutando se gli acquirenti sono o meno in buona fede, arrivando alla conclusione che l’eccezione è opponibile se li trova in malafede e non lo è se risultano effettivamente in buona fede. In questo ultimo caso si interviene tutelando il terzo acquirente delle azioni in più riducendo proporzionalmente il valore nominale delle altre azioni, per lasciare spazio agli azionisti in buona fede che avevano acquistato le azioni in più.
 ANOMALIE A RILEVANZA INDIVIDUALE, cioè per il terzo acquirente, come la mancata liberazione delle azioni. Qui risolve i conflitti invece cercando una soluzione non sul piano cartolare, cioè con la disciplina propria dei titoli di credito, delle cose mobili, quindi il possesso in buona fede, ma con il DIRITTO COMUNE, usando la disciplina della tutela dell’AFFIDAMENTO DEI TERZI. Cioè, una volta messe in circolazione delle azioni, dei titoli, non interamente liberate, che non recano l’indicazione NON INTERAMENTE LIBERATE la società genera un affidamento del terzo che non può veder frustrate le sue aspettative. Questo nuovo orientamento quindi cerca la protezione del terzo, la tutela di anomalie con rilevanza individuale, nella disciplina della tutela dell’affidamento del terzo, quindi la società non può pretendere il pagamento, la liberazione, dal terzo. Però ci si domanda, allora il capitale sociale resta scoperto? Resta non interamente versato? E qui si applica l’art. 2356, che assegna la responsabilità della mancata indicazione a chi ha trasferito le azioni, che quindi dovrà integrare il versamento. In questo è l’alienante, non il terzo acquirente, che resta responsabile.
Quindi diciamo che le azioni hanno natura di TITOLI DI CREDITO. E come circolano?
Abbiamo visto che i titoli di credito se sono al portatore circolano mediante la consegna, se sono nominative con la doppia intestazione.
Con la riforma si assolve una funzione fondamentale nella circolazione e nell’esercizio dei diritti sociali. Vediamo l’art. 2355 c.c. Circolazione delle azioni che riconduce alla GIRATA il trasferimento, anche non con la doppia intestazione, quindi la girata è condizione necessaria e sufficiente per il trasferimento dei diritti sociali.
Quindi si può dire che l’azione è diventata un titolo all’ordine?
La girata è sì una condizione necessaria e sufficiente per il trasferimento dei diritti sociali, ma l’azione non per questo diventa titolo all’ordine perché il quarto comma dell’art. 2355 prevede il TRANSFERT, cioè un mezzo diverso dalla girata, quindi resta un TITOLO NOMINATIVO.
A che serve però allora il libro dei soci? Gli resta una funzione legittimante nel caso di MANCATA EMISSIONE DI CERTIFICATI, perché come abbiamo visto lo Statuto può prevedere la non emissione di titoli, quindi il Libro soci serve come ANAGRAFE DELLA COMPAGINE SOCIALE.

Maugeri Lezione 24/04/09
Allora abbiamo visto la volta scorsa che si può derogare all’emissione del titolo incorporante la partecipazione associativa. Infatti l’art. 2346 c.c. consente di adottare altre tecniche di legittimazione e di circolazione delle partecipazioni, alternative a quella cartolare. Queste tecniche sono modellate sulle tecniche di legittimazione e circolazione proprie delle società quotate.
Questo aspetto delle deroghe è molto importante, perché con questo sistema MUTA il modo in cui il socio si legittima all’esercizio dei diritto sociali.
Abbiamo visto infatti che:
• SE I TITOLI SONO EMESSI il trasferimento, la circolazione, della partecipazione si perfeziona con la GIRATA - ART. 2355 C.C. e il libro soci NON SVOLGE NESSUNA FUNZIONE DI LEGITTIMAZIONE, ha funzione solo anagrafica.
• SE I TITOLI NON SONO EMESSI, o la società non si avvale di forme di legittimazione, è il LIBRO SOCI che ha la funzione di legittimare il socio all’esercizio dei diritto sociali

Infatti se leggiamo l’art. 2355 – Circolazione delle azioni - al terzo comma dice che “il trasferimento delle azioni nominative si opera tramite girata, e il giratario che si dimostra possessore ha diritto di ottenere l’annotazione del trasferimento omissis ed è comunque legittimato all’esercizio dei diritto sociali”.
Quindi benché il titolo azionario sia NOMINATIVO (e quindi richiederebbe la doppia annotazione) LA GIRATA E’ SUFFICIENTE A LEGITTIMARE, non solo a iscrivere il trasferimento nel libro soci. La norma specifica anche che l’aggiornamento del libro soci infatti SEGUE l’esercizio dei diritti sociali, è successivo all’esercizio dei diritti sociali, e obbliga la società all’aggiornamento, ma SOLO SE PREVISTO DA LEGGI SPECIALI, nello specifico nella disciplina delle società quotate.
Come dicevamo questa è proprio una anomalia, il fatto che per un titolo NOMINATIVO non serva la doppia intestazione e sia sufficiente la girata per il trasferimento dei diritti che incorpora. E’ importante ricordare che però questa regola NON TRASFORMA L’AZIONE IN UN TITOLO ALL’ORDINE. Il quarto comma dell’art. 2355 rimanda infatti all’art. 2022 c.c., che disciplina il transfert, cioè la doppia annotazione. Viene lasciata quindi la possibilità della doppia annotazione, quando il trasferimento NON E’ FATTO CON LA GIRATA.

Una tecnica alternativa a quella cartolare è la DEMATERIALIZZAZIONE (art. 2346 c.c., che prevede tecniche diverse) e la disciplina prevede due accezioni del termine de materializzazione:
 In senso DEBOLE – si dice quando il titolo azionario c’è, il documento cartaceo esiste, ma viene immesso in un sistema di GESTIONE ACCENTRATO, chiamato MONTE TITOLI. C’è quindi il pezzo di carta (per questo è debole la de materializzazione) ma tutti i titoli sono depositati nel Monte Titoli e circolano con un sistema di REGISTRAZIONE in contro. Il socio può comunque richiedere e riappropriarsi del titolo cartaceo in qualsiasi momento. I titoli sono però BENI FUNGIBILI (come il grano), il deposito al Monte Titoli è infatti detto irregolare, perché il socio perde la proprietà dei titoli che deposita, di quegli specifici titoli, ha diritto alla restituzione di titoli dello stesso genere, simili, ma non proprio gli stessi.
 In senso FORTE – il titolo azionario non c’è, scompare la cartula, ed è una tecnica caratteristica per le società quotate. Quindi l’unico mezzo per conseguire la legittimazione all’esercizio dei diritti sociali è il SISTEMA DI REGISTRAZIONE/SCRITTURAZIONE in conto, che è disciplinato nel D.Lgs 213 del 1998 – cosiddetto DECRETO EURO.


Il meccanismo di scritturazione in contro funziona così, schematicamente:



Le contrattazioni, cioè lo scambio tra possessori di titoli, i clienti delle banche e degli operatori, sono tutte IMPERSONALI, se A vende e C acquista ad esempio delle azioni di ENEL, non c’è contatto tra A e C. Vengono acquisiti dagli intermediari autorizzati gli ordini di acquisto e di vendita dei due clienti e li fanno corrispondere. Il trasferimento delle azioni avviene movimentando i conti di A e C presso le Banche X e Y.

Al livello poi dei rapporti tra Monte Titoli e il sistema bancario, e va ricordato che MONTE TITOLI HA RAPPORTI SOLO CON IL SISTEMA BANCARIO, non con i singoli clienti, si replica lo stesso meccanismo, Monte Titoli accredita e addebita i conti della Banca X e della Banca Y. La compravendita, e la registrazione in contro, avviene quindi su due livelli. E’ un meccanismo fisico.

Tornando alla mancanza del titolo cartaceo, visto che è possibile la DEMATERIALIZZAZIONE, vediamo ora come l’ordinamento si confronta con i principi dei titoli di credito (astrattezza, autonomia e letteralità). L’ordinamento riprende questi principi e li ADATTA alla mancanza del titolo cartaceo, nserendoli negli artt. 30 e ss. del D.Lgs. 213/1998, i quali quindi ri-esprimono i tre principi, che primariamente sono individuati negli artt. 1992 e ss. del c.c.
La prima regola da evidenziare è che l’esercizio dei diritti sociali, attribuiti ad azioni dematerializzate, e quindi accentrate con il sistema di Monte Titoli, è necessariamente INTERMEDIATO. Vale a dire che per esercitare i diritti sociali il socio ha bisogno dell’intermediario abilitato. Distinguiamo qui tra:
 DIRITTI PATRIMONIALI (il diritto al dividendo), il quale avviene esclusivamente intermediato. Non è infatti che il socio chiede direttamente alla società, di cui ha le azioni ,il pagamento del dividendo. La società quotata accredita la somma presso il conto titoli acceso presso l’intermediario. Non ci sono iniziative dirette dei soci.
 DIRITTI AMMINISTRATIVI (il diritto di voto) invece sono esercitati in modo parzialmente intermediato. All’art. 31, in particolare lettera b), del D.Lgs 213/98 si prevede che l’intermediario rilasci una CERTIFICAZIONE che attesta la TITOLARITA’ delle azioni, necessario all’esercizio dei diritti amministrativi, in particolare del diritto di voto. Ad esempio per partecipare all’assemblea di ENEL il socio deposita questa certificazione rilasciata dal suo intermediario alla sede sociale dell’ENEL.
Attenzione, questo certificato NON HA NATURA DI TITOLO DI CREDITO, non incorpora la posizione del socio, non incorpora il diritto amministrativo, che quindi non può circolare con la circolazione di questa certificazione. Il diritto amministrativo è infatti INSCINDIBILE dalla partecipazione azionaria.
Questa certificazione che attesta la titolarità HA NATURA DI DOCUMENTO DI LEGITTIMAZIONE, cioè serve solo a identificare l’avente diritto, non incorpora il diritto. Infatti al certificato di legittimazione non si applica né il principio di autonomia (art. 1993) né quello di astrattezza (art. 1994). Si potrebbe paragonare al biglietto del cinema, che esonera il possessore dall’onere di dimostrare di essere il legittimato.
Per tornare ora la discorso della opponibilità delle eccezioni, e tornando all’esempio dell’azionista ENEL, ricordiamo che il debitore (ENEL), cioè l’emittente l’azione, può opporre al possessore del certificato tutte le eccezioni.
L’art. 33 del decreto Euro citato prima vediamo che adatta al fenomeno della de materializzazione il principio delle astrattezza. Ricordiamo che tale principio è contenuto nell’art. 1993 c.c. e prevede che il debitore (emittente) possa opporre al possessore del titolo:
a) Eccezioni PERSONALI
b) Eccezioni REALI, cioè comuni a tutti i possessori degli strumenti finanziari della stessa categoria
Se confrontiamo l’art. 33 del decreto 213/98 e l’art. 1993 del c.c. vediamo che differiscono perché nell’art. 33 MANCA IL SECONDO COMMA, invece previsto nell’art. 1993, e che riguarda l’ECCEZIONE DI DOLO, cioè la possibilità per il debitore di opporre in via eccezionale al possessore di un titolo le eccezioni che avrebbe potuto opporre ai possessori precedenti, presupponendo il DOLO, cioè il fatto che il nuovo possessore abbia agito proprio per evitare al possessore precedente le eccezioni. Il dolo si verifica quando l’acquirente ha colluso con il venditore, cedente, del titolo, per evitargli appunto le eccezioni da parte del debitore. Il dolo presuppone un accordo fraudolento, per privare il debitore della facoltà di opporre le eccezioni. Il fatto che il decreto Euro non preveda l’eccezione di dolo è una deroga al principio dell’astrattezza, il quale salva appunto da eccezioni i nuovi possessori, perché nasce in capo a loro una posizione nuova, non si porta appresso eventuali problematiche del possessore precedente.
Nell’art. 33, e quindi nelle transazioni con titoli de materializzati, e quindi tramite Monte Titoli, non c’è l’eccezione di dolo perché manca il CONTATTO DIRETTO tra alienante e acquirente, non si conoscono, non c’è rapporto, quindi non possono concludere accordi tra loro, a danno dell’emittente. E’ una contrattazione IMPERSONALE, non rimane neanche traccia storica di queste contrattazioni, non si sa neanche chi compra e chi vende e quando.

Per rimanere nel discorso delle tecniche di legittimazione dell’esercizio dei diritti sociali vediamo adesso le società a responsabilità limitata, e le quote.
Nella SRL si parte dal presupposto che LA QUOTA NON E’ UN TITOLO DI CREDITO. Può certamente essere rappresentata da un documento, ma non ha funzione di incorporazione della quota. MAI. Il documento ha caso mai la funzione di agevolare la prova dello status di socio, ha una funzione quindi probatoria.
La QUOTA è un BENE MOBILE, una RES, immateriale. Questo è l’orientamento della Cassazione, che segue un ragionamento molto semplice, la classifica bene mobile ex art. 812 c.c., che classifica mobili, all’ultimo comma, in modo residuale tutti quei beni che non sono immobili.
Come circola la quota? E come legittima il titolare all’esercizio dei diritti sociali?
Vediamo l’art. 2470 del c.c., ma attenzione, è stato modificato nel 2009 dalla L. 2 del gennaio 2009, quindi dobbiamo guardare la nuova versione.

Abolizione del libro soci nelle s.r.l.
Con il d.l. n. 185 del 2008 (c.d. decreto anticrisi) convertito con modificazioni dalla legge n. 2 del 2009 (G.U. n. 28 gennaio 2009), tra le diverse misure adottate, sono stati modificati gli artt. 2740 e seguenti del codice civile. Le modifiche prevedono l’abolizione del libro soci nelle s.r.l. e, conseguentemente, la variazione del regime di pubblicità e degli effetti del trasferimento delle partecipazioni sociali, nonché dei vincoli apposti sulle stesse.
Con l’abrogazione del libro soci l’atto di trasferimento delle quote produrrà effetti anche nei confronti della società dal deposito dell’atto presso il registro delle imprese. Da tale data l’acquirente assumerà la qualità di socio con i relativi diritti, mentre dalla data dell’iscrizione nel registro l’atto sarà opponibile nei confronti dei terzi.
Per il coordinamento con le modifiche all’art. 2470 viene inoltre:
eliminato l’obbligo di iscrizione nel libro soci dell’eventuale espropriazione della partecipazione societaria (art. 2471);
precisato che gli obblighi solidali del venditore della partecipazione per i versamenti ancora dovuti decorrono dall’iscrizione nel registro delle imprese anziché nel libro soci (art. 2472);
eliminato il libro soci dall’elenco dei libri sociali obbligatori (2478);
eliminato l’obbligo di depositare nel registro delle imprese unitamente alla copia del bilancio approvato, l’elenco dei soci (art. 2478 bis);
previsto che per l’assemblea, la convocazione sia effettuata mediante lettera raccomandata inviata all’indirizzo risultante dal registro delle imprese (2479 bis);
eliminata la differenza tra trasferimento effettuato dal notaio e dall’intermediario abilitato. Con l’abolizione del libro soci viene, infatti, meno la norma che richiede per l’iscrizione dell’atto nel libro soci la richiesta congiunta dell’alienante e dell’acquirente (comma 1 bis art 36 l.133/08).
Le nuove norme diverranno efficaci il sessantesimo giorno successivo all’entrata in vigore della legge di conversione del decreto (30 marzo 2009). Entro tale termine gli amministratori di s.r.l., in esenzione da imposte e tasse, dovranno depositare un’apposita dichiarazione presso il registro delle imprese per eliminare eventuali difformità tra le risultanze del libro soci e quelle del registro.

Ci si muoveva su due livelli. Nella versione precedente dell’art. 2470 c.c. il trasferimento delle partecipazioni avveniva dal momento dell’iscrizione nel libro soci, così diceva il primo comma. E così il trasferimento aveva effetto di fronte alla società. Il Libro Soci aveva quindi la sua funzione di legittimazione, per le SRL (già non l’aveva più per le SPA).
Il secondo livello prevedeva l’adempimento pubblicitario, cioè il deposito nel Registro delle Imprese dell’atto di acquisto della quota/partecipazione della SRL, autenticato dal Notaio, così diceva il terzo comma.
Ma se il libro soci aveva già la funzione di legittimazione, a che serviva il secondo livello, cioè l’iscrizione nel registro delle imprese?
E’ fondamentale oggi la funzione di consentire il controllo sull’acquirente. Viene predisposto un atto autentico, redatto da un Notaio, che è imposto dall’ordinamento per esercitare una azione di contrasto alal criminalità organizzata, ecco il motivo, per evitare che avvenga il reinvestimento di proventi da attività criminale in attività economiche di una SRL.
Questa preoccupazione all’acquirente, alla persona che entra nella SRL acquistando la quota ha una origina storica, a tutt’oggi coerente, ha valenza TIPOLOGICA, perché nelle SRL la persona ha rilevanza centrale, quindi è coerente un controllo sulla persona.
E questo adempimento inoltre svolge una funzione di SUPPORTO all’art. 2448, primo comma, che qualifica sempre il tipo della SRL, le cui partecipazioni/quote non possono essere oggetto di OFFERT AL PUBBLICO, la SRL ha una compagine sociale CHIUSA. L’art. 2470 inibisce infatti l’offerta al pubblico, ne ribadisce la chiusura coinvolgendo il Notaio.
Al terzo comma l’art. 2470 indica una ulteriore terza funzione. Abbiamo visto che regola:
1) L’ingresso di nuovi soci
2) Impedisce inibisce l’offerta al pubblico
3) E terza funzione risolve il conflitto fra più acquirenti della stessa quota.
Facciamo qualche esempio di regole che dirimono i conflitti tra più soggetti che hanno acquisito il medesimo diritto:
 Locazione di un bene IMMOBILE a più soggetti, prevale il primo possessore, chi prende POSSESSO per primo dell’immobile, o chi ha stipulato per primo il contratto CON DATA CERTA, nel caso non ci sia ancora presa di possesso.
 In un conflitto tra più acquirenti della proprietà di un bene immobile prevale chi TRASCRIVE per primo l’atto, prevale la TRASCRIZIONE.
 Nella cessione, a due soggetti, di un credito prevale chi per primo ha NOTIFICATO la cessione al debitore.
 Per la proprietà di un bene MOBILE prevale chi POSSIEDE il bene, e ha conseguito il possesso in BUONA FEDE.
Quindi a seconda del diritto in questione cambia il criterio di risoluzione dei conflitti.

Il terzo comma dell’art. 2470 indica il criterio per risolvere i conflitti tra più acquirenti della stessa quota/partecipazione di una SRL, e indica due condizioni:
a) Iscrizione nel registro delle imprese dell’atto traslativo;
b) Buona fede dell’acquirente al momento della iscrizione
Questa modalità sembra unire criteri diversi, sembra recepire la buona fede dal criterio usato per i conflitti tra beni mobili e l’iscrizione dai criteri usati per i conflitti per beni immobili.
In realtà possiamo inquadrare il criterio dell’art. 2470 integralmente in quello delle cose mobili perché l’iscrizione dell’atto traslativo ha lo stesso significato del conseguimento del possesso, perché? Perché il possesso di una cosa mobile (art. 1155 c.c.) serve a manifestare all’esterno una relazione di appartenenza esclusiva del bene mobile, una situazione di fatto, che fa presumere la titolarità, e l’iscrizione ha la stessa funzione del possesso, manifesta all’esterno che la quota appartiene in via esclusiva all’acquirente.
L’art. 2470 c.c. importa quindi alla SRL la regola dei beni mobili disciplinata all’art. 1155 c.c.
La legge n. 2 del 2009 ribadisce queste funzioni della trascrizione e aggiunge la funzione di legittimazione all’esercizio dei diritti sociali, abolendo altresì il libro soci. LA LEGGE N. 2/2009 ABOLISCE IL LIBRO SOCI PER LE SRL. Il nuovo art. 2470 ha spostato la funzione di legittimazione dal libro soci all’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto traslativo.
Questa novità sta però portando numerosi problemi, alcuni quasi insormontabili, anche per la circolazione del diritto. Il Libro soci ha comunque una funzione essenziale, tanto è vero che il Consiglio Notarile di Milano dice addirittura che può essere re-istituito dai soci, con le stesse funzioni di prima.


Limiti alla circolazione delle partecipazioni sociali, delle azioni.

Abbiamo tre grandi categorie di limiti:

LIMITI LEGALI
LIMITI STATUTARI
LIMITI CONVENZIONALI O PARASOCIALI

1) LIMITI LEGALI – cioè stabiliti dalla legge. Vediamo ad esempio l’art. 2343, e vediamo che le azioni emesse a fronte di conferimenti in natura devono restare depositate presso la sede della società per sei mesi dalla costituzione. Questo per consentire agli amministratori di procedere al controllo e alla STIMA del valore dei beni dati in conferimento, vista l’esigenza di impedire che siano immesse in circolazione azioni che potrebbero dimostrarsi, dopo l’esito della stima, non interamente liberate, perché il valore dei beni non arriva a coprire il valore delle azioni assegnate al socio. Il “blocco” di sei mesi è stabilito dalla legge quindi perché si vuole evitare che queste azioni vadano nelle mani di un terzo, che vengano cedute dal socio ad un terzo, acquirente di buona fede, al quale non si potrebbe poi opporre la stima inferiore al valore, e quindi non sarebbe obbligato a versare la parte non liberata. Per la regola dell’affidamento del terzo.
2) . LIMITI CONVENZIONALI E PARASOCIALI – come vedremo hanno effetti molto diversi dai limiti statutari. Un caso tipico è il SINDACATO DI BLOCCO, che abbiamo visto nell’esaminare i patti parasociali. Gli accordi, e quindi anche quelli che hanno come contenuto dei limiti, hanno efficacia solo obbligatoria tra i soci del patto stesso. La violazione avrà quindi come effetto solo il RISARCIMENTO DEL DANNO. L’alienante che venduto in deroga al limite stabilito con convenzione, con patto/accordo parasociale dovrà risarcire gli altri soci, avendo venduto in violazione del patto di blocco.
3) LIMITI STATUTARI – cioè stabiliti nello Statuto. Sono limiti con effetti REALI, cioè valgono per tutti i possessori, presenti e futuri, per tutti gli acquirenti del titolo. Qui si evidenzia uno dei problemi sorti con l’abolizione del libro soci, perché se c’è un limite statutario in una SRL, e un socio vende lo stesso la sua quota, gli altri soci potevano reagire negando l’iscrizione nel libro soci del nuovo acquirente, ma essendo stato abolito il libro, si crea un problema, infatti si pensa di reintrodurre un controllo con il libro soci. Gli amministratori comunque devono respingere l’acquirente entrato in violazione al limite statutario, anche in assenza del libro soci, anche se si iscrive al registro delle imprese, perché prevale la norma del limite statutario, che rilevanza REALE, verso tutti i soci presenti e futuri. Il registro delle imprese anzi ha la funzione di far conoscere al nuovo acquirente l’esistenza di questo limite statutario, con il registro il potenziale acquirente può venire a conoscenza del contenuto dello statuto, e quindi degli eventuali limiti contenuti

Possiamo identificare TRE TIPOLOGIE DI LIMITI STATUTARI.
 DIVIETO DI TRASFERIMENTO
 CLAUSOLA DI GRADIMENTO
 CLAUSOLA DI PRELAZIONE
DIVIETO DI TRASFERIMENTO – è stato introdotto anche nelle spa, ed è stata una novità epocale perché di solito e per tradizione l’azione è una RES LIBERA, alienabile da sempre. Oggi l’art. 2355bis consente di inserire, per le azioni nominative, delle condizioni per il trasferimento (es. la prelazione o il gradimento) e può, massimo per 5 anni, vietarne il trasferimento. E’ detta la clausola di LOCK UP: i soci di controllo solitamente si riservano delle quote, sono vincolati a tenerle per un periodo, perché se potessero venderle subito il prezzo crollerebbe e gli investitori non sottoscriverebbero mai delle partecipazioni in una società dove il socio di controllo ha la facoltà di far crollare il prezzo, uscendo subito dopo la costituzione. Con la clausola di lock up è quindi vietato al socio di controllo di cedere le partecipazioni, per 5 anni massimo, per evitare depressioni del prezzo e favorire di contro la sottoscrizione di azioni, perché ricordiamo la SPA è una società tipo logicamente APERTA.
Nelle SRL, essendo una tipologia diversa, una tipologica CHIUSA, il divieto di trasferimento può anche essere a tempo indeterminato (vedi art. 2469 c.c.). Come ribadiamo spesso ci sono sempre degli interessi che una norma deve tutelare in una situazione, e vediamoche in questo caso ci troviamo di fronte a due interessi contrapposti: quello dei soci, interessati a mantenere la compagine societaria inalterata, e l’interesse del singolo socio, che invece vorrebbe vendere, vorrebbe monetizzare la sua partecipazione. Ecco che la disciplina interviene con un correttivo: attribuisce al socio il DIRITTO DI RECESSO, tutelando così l’interesse dei soci, perché non fa vedere la partecipazione del socio a terzi, ma consente al socio di recedere, ricevendo la liquidazione della partecipazione.
Il RECESSO svolge quindi la funzione tecnica di consentire il disinvestimento IN ALTERNATIVA alla alienazione sul mercato, in presenza di un divieto. Può quindi smobilizzare il suo investimento, perché il diritto di recesso comporta come esito FINALE l’obbligo per la società di rimborsare la partecipazione, ma privandosi però così di risorse da investire nell’attività. L’ordinamento per questo motivo vede il recesso con sfavore, perché sacrifica il socio che recede e minaccia l’attività di impresa, tanto è vero che il Legislatore del 1942 aveva previsto, per le spa e per le srl, il diritto di recesso solo in 3 ipotesi, solo quando venivano toccate le basi essenziali del contratto sociale, e quindi in caso di:
1) trasformazione
2) cambio o modifica dell’oggetto sociale
3) trasferimento della sede all’estero
In realtà il Codice di Commercio del 1882 aveva avuto un atteggiamento più liberale, prevedendo anche la fusione. Comunque nel ’42 il recesso era visto come una tutela endo-societaria della minoranza, per proteggerla da abusi della maggioranza. Per esempio, se la maggioranza cambiava l’oggetto sociale, la minoranza era tutelata, perché poteva uscire dalla società con il recesso. Sia la giurisprudenza che la dottrina avevano impedito la statuizione di ampliamenti delle ipotesi di recesso, per tutelare la stabilità dell’impresa, ma nel 2003 con la riforma ci fu invece un ampliamento enorme delle ipotesi di recesso, per SPA e per SRL, perché cambiò proprio il concetto di società, considerata una disciplina del finanziamento e dell’attività NELL’INTERESSE DEI SOCI. Il recesso diventa quindi un meccanismo di monetizzazione, in un’ottica NUOVA di mercato, così come lo è l’alienazione.
Alienazione e recesso però NON SONO FUNGIBILI, non è la stessa cosa vendere la propria quota o essere liquidati dagli altri soci, perché se il socio alienasse, vendesse, avrebbe piena libertà di definire il prezzo di vendita, mentre in caso di recesso la determinazione del rimborso è fissata dalla legge:
ART. 2473 per le SRL
ART. 2437ter per le SPA – al secondo comma indica i metodi per valutare un’azienda:
- consistenza patrimoniale (per società con beni immobili, le società immobiliari)
- metodo reddituale (per società industriali e di servizi, si guarda all’utile futuro)
- multipli di mercato
a seconda del tipo di attività che deve essere valutata quindi si usa un metodo diverso, a volte anche metodi misti. La finalità dell’articolo è arrivare a un VALORE EFFETTIVO della partecipazione sociale.
L’alienazione è quindi una vicenda INTERINDIVUALE, mentre per il recesso è coinvolta la LEGGE. Va detto che quando si parla di partecipazioni di CONTROLLO i valori di stima per la vendita e per il recesso possono discostarsi notevolmente, perché nel caso di alienazione si stima un prezzo tenendo conto del cosiddetto PREMIO DI CONTROLLO, che non viene invece considerato nella valutazione fatta in caso di recesso, il cui calcolo ha criteri diversi, che sono gli stessi per TUTTI I SOCI, senza tener conto delle partecipazioni di controllo. Il calcolo nel recesso è fatto allo stesso modo per qualsiasi partecipazione; il valore di liquidazione delle azioni viene calcolato dividendo il valore complessivo per il numero delle azioni emesse, ecco il meccanismo valutativo, dove non c’è spazio per il premio di controllo.
CLAUSOLA DI GRADIMENTO – questa clausola attribuisce a un organo sociale il potere di esprimere o meno il gradimento sulla persona del potenziale acquirente, e lo fa quindi nell’INTERESSE COLLETTIVO, è la società che esprime il suo parere. Parlando della clausola di gradimento, questo va distinto in:
- MERO GRADIMENTO – quando c’è un margine di VALUTAZIONE per gli amministratori, cioè hanno il potere di valutare e di esprimere un giudizio, dando o meno il gradimento, però MOTIVANDO la decisione (art. 2355 bis, secondo comma).
- NON MERO GRADIMENTO – quando è lo Statuto che identifica i criteri OGGETTIVI per valutare l’ingresso di un nuovo socio, acquirente della partecipazione. Ad esempio se lo statuto indica che i nuovi soci devono essere residenti a Roma, non viene fatta una valutazione, gli amministratori non esprimono un gradimento, ma indicano che il potenziale acquirente, se ad esempio di Milano, oggettivamente non ha i requisiti per acquistare la partecipazione.
Questa distinzione è importante perché se la clausola è di MERO GRADIMENTO, questa è inefficace se lo Statuto non ne prevede un correttivo, che può essere o il RECESSO del socio che vuol vendere o l’obbligo di acquisto da parte degli altri soci. Inoltre la clausola di mero gradimento che obbliga a motivare il non gradimento consente al socio, tramite appunto la motivazione, di ricostruire l’iter di decisione, e caso mai di tutelarsi impugnando la delibera di rigetto che negava il gradimento al suo acquirente.
CLAUSOLA DI PRELAZIONE – questa clausola attribuisce invece agli altri soci, quelli diversi dal socio che vuole vendere, il DIRITTO A ESSERE PREFERITI a terzi nell’acquisto della partecipazione sociale. E’ QUINDI UN INTERESSE INDIVIDUALE, DI OGNI SOCIO, a essere tutelato.
Questa clausola è alla base dell’orientamento della Cassazione (ma parliamo di prima della riforma del 2003) sulle maggioranze.
Per inserire un limite alla circolazione delle partecipazioni prima i giudici chiedevano l’unanimità, sia per introdurre il gradimento che per la prelazione, perché ritenevano che queste clausole comportassero una COMPRESSIONE di un diritto indisponibile dei soci, diritto alla libera circolazione. Si richiedeva quindi CONSENSO UNANIME.
Per la soppressione di un limite, invece la Cassazione ripartiva così le esigenze:
GRADIMENTO – richiesta la maggioranza, perché eliminando la clausola si ri-espandeva la libera circolazione, quindi bastava un consenso della maggioranza.
PRELAZIONE – richiesta l’unanimità, perché era questione di maggiore complessità, visto che togliere il diritto di prelazione PRIVA TUTTI I SOCI della possibilità di essere preferiti nell’acquisto.
Oggi (cioè dopo la riforma del 2003), l’art. 2437 secondo comma, alla lettera b) sancisce che sia l’introduzione che la soppressione delle clausole di prelazione e di gradimento possa avvenire a MAGGIORANZA, essendo stato inserito il CORRETTIVO del RECESSO.
Lezione 08/05/2009 – Maugeri
Proseguiamo il nostro discorso sui modi di finanziamento dell’impresa, e esaminiamo altri strumenti di finanziamento, come le obbligazioni, gli strumenti finanziari partecipativi e i titoli di debito. Vedremo anche successivamente la responsabilità degli amministratori della spa in particolare nella gestione del patrimonio destinato.
Vediamo ora LE OBBLIGAZIONI, IL FINANZIAMENTO OBBLIGAZIONARIO.
E’ da tener presente innanzitutto l’impatto che ha avuto la riforma sulla nozione di obbligazione e sulla competenza all’emissione, come ora vedremo.
LA NOZIONE - L’obbligazione viene tradizionalmente definita come: FRAZIONE STANDARDIZZATA DI UNA UNITARIA OPERAZIONE DI FINANZIAMENTO COLLETTIVO, CARTOLARIZZATA, rappresentata cioè da un TITOLO DI CREDITO, IL CUI RAPPORTO SOTTOSTANTE E’ UNA OPERAZIONE DI PRESTITO, di mutuo.
Questa definizione comporta tipicamente, tradizionalmente, visto che la inquadra in una operazione di prestito, che gli elementi essenziali del titolo siano queste due pretese FISSE:
1. Il diritto al rimborso del capitale mutuato
2. Il diritto alla corresponsione degli interessi periodici
Il creditore obbligazionario ha quindi tipicamente questi diritti, essendo l’operazione un prestito, un mutuo, e non è quindi sottoposto, coinvolto, nel rischio d’impresa, come è invece è l’azionista. Corre dei rischi, l’obbligazionista, ma quelli tipici del CREDITORE, non quelli dell’azionista.
La riforma del 2003 come abbiamo detto in premessa incide sulla nozione, ampliando il concetto tipologico e il concetto normativo di obbligazione. Vediamo il NUOVO art. 2411 c.c.
Art. 2411 c.c. – Diritti degli obbligazionisti – Il diritto degli obbligazionisti alla restituzione del capitale ed agli interessi può essere, in tutto o in parte, subordinato alla soddisfazione dei diritti di altri creditori della società. I tempi e l’entità del pagamento degli interessi possono variare in dipendenza di parametri oggettivi anche relativi all’andamento economico della società. La disciplina della presente sezione si applica inoltre agli strumenti finanziari, comunque denominati, che condizionano i tempi e l’entità del rimborso del capitale all’andamento economico della società.
Ampliamento del concetto tipologico: oggi la fattispecie delle obbligazioni include anche quei titoli in relazione ai quali la remunerazione non è più fissa, ma è ancorata alla produzione di utili dell’impresa (…anche relativi …) e sono dette OBBLIGAZIONI PARTECIPATE. Il rimborso non è più fisso, viene introdotto il rischio d’impresa, anche per l’obbligazionista, anche se eventuale, infatti dice “può essere”. Le figure di azionista e di obbligazionista con la riforma si avvicinano.
Anche la restituzione del capitale mutuato cambia, oggi il concetto è ampliato alla SUBORDINAZIONE DELLA PRETESA CREDITORIA, il primo comma del nuovo art. 2411 indica infatti che l’obbligazionista può essere posto dopo gli altri creditori, può essere subordinato alla soddisfazione degli altri creditori. Questo è quindi l’ampliamento del concetto tipologico di obbligazione, con la riforma.
Ampliamento del concetto normativo: vale a dire l’ampliamento dell’area dei titoli, che anche se non sono obbligazioni sono pur tuttavia soggetti alal disciplina delle obbligazioni. Cioè, guardando il terzo comma dell’art. 2411, si evince che il nucleo di regole, cioè il concetto normativo, si estende anche ad altri titoli, che non sono obbligazioni “si applica inoltre….”. Si parla di strumenti finanziari, in questo comma, mentre negli altri due commi si parla di obbligazioni, quindi di un TIPO di strumenti, al terzo comma si parla GENERICAMENTE di strumenti, anche perché la restituzione non è più fissa, può variare con l’andamento della società e fa avvicinare l’obbligazionista all’azionista. Ecco che il terzo comma fa applicare anche a STRUMENTI che non sono obbligazioni questa disciplina, e NON SONO OBBLIGAZIONI, non lo sono più, perché come abbiamo visto non hanno fissità per il rimborso, quindi CONCETTUALMENTE non sono obbligazioni, ma altri strumenti finanziari.
LA COMPETENZA ALLA EMISSIONE - Abbiamo visto allora come la riforma ha impattato sui concetti, ora vediamo come ha impattato sulla competenza alla emissione.
Prima la competenza alla emissione delle obbligazioni era attribuita alla ASSEMBLEA STRAORDINARIA perché, anche se il finanziamento come operazione sembrerebbe rientrare nella gestione ordinaria, si erano trovate due spiegazioni che portavano a farlo includere tra le competenze della assemblea straordinaria:
1) L’emissione di obbligazioni comporta il sorgere di una NUOVA ORGANIZZAZIONE, cioè nascono nuovi organi (l’assemblea degli obbligazionisti e il rappresentante comune). Quindi può essere considerata una modifica statutaria, perché modifica le regole organizzative, e queste modifiche sono di competenza dell’assemblea straordinaria;
2) Guardando agli effetti che l’emissione comporta sui soci, vediamo che l’emissione di obbligazioni incide sulla loro competenza a disporre delle poste del patrimonio netto. Vale a dire, l’emissione di obbligazioni comporta che intervengano dei LIMITI alla distribuibilità delle poste del patrimonio netto. Già prima della riforma l’emissione era soggetta al limite del CAPITALE VERSATO ED ESISTENTE, oggi questo limite è stato alzato, con la riforma (vedi primo comma nuovo art. 2412 c.c.), ed è pari al DOPPIO del capitale sociale, della riserva legale e della riserva disponibile. Si è mostrato nella riforma un favor verso l’emissione di obbligazioni, si è voluto alzare il limite per aumentare le possibilità di emissione. I soci in ogni caso però sono LIMITATI all’utilizzo delle riserve, per tutta la durata del prestito (primo comma art. 2413 c.c.). Per esempio: se le obbligazioni sono emesse per 100 euro, il capitale e le riserve devono essere almeno di 200. Quindi ecco perché serviva l’assemblea straordinaria.
Con la riforma la competenza cambia, e si sposta sugli AMMINISTRATORI. Art. 2410 c.c. – Emissione.
Questo spostamento di competenza viene fatto alla luce del diverso significato che viene attribuito all’emissione delle obbligazioni. Un significato diverso dalle scelte gestorie degli amministratori, che ha dei VINCOLI, ma conserva un significato particolare, un significato organizzativo . La delibera degli amministratori di emissione di obbligazioni è infatti sottoposta a dei REQUISITI, di forma e di pubblicità, come quelli per l’assemblea straordinaria. (vedi secondo comma art. 2410 e art. 2436 c.c.).
Come infatti accade per le modificazioni dello statuto, di competenza dell’assemblea, l’emissione delle obbligazioni oggi di competenza degli amministratori, deve avere:
a) ATTO PUBBLICO
b) ISCRIZIONE AL REGISTRO DELLE IMPRESE
Da questo si ricava che resta una eco della competenza dell’assemblea straordinaria anche dopo lo spostamento della competenza sugli amministratori.
Va rilevato che però, quando l’emissione realizza una INTERFERENZA con la posizione partecipativa dei soci, con i loro diritti, la competenza TORNA ALL’ASSEMBLEA.
Se infatti gli amministratori creano una nuova classe di creditori, va bene, la delibera possono emetterla loro, ma se creano invece dei finanziatori di una impresa, i quali vanno a incidere sulla GESTIONE, hanno cioè dei diritti sulla gestione della società, allora serve l’assemblea straordinaria. Ad esempio se vengono emesse obbligazioni convertibili in azioni, cioè delle obbligazioni che attribuiscono il diritto di NOVARE la posizione creditoria in posizione societaria, cioè un creditore obbligazionista può diventare socio azionista, (art. 2420 bis), l’emissione di obbligazioni che contengono questo diritto è di competenza dell’assemblea straordinaria, perché si amplia la compagine sociale.


Un terzo aspetto da esaminare è la RATIO, la funzione, la motivazione, del LIMITE, posto alla emissione di obbligazioni – Artt. 2412 e 2413, primo comma –La società non può emettere obbligazioni per somma complessivamente non eccedente il doppio del capitale sociale, della riserva legale e delle riserve disponibili risultanti dall’ultimo bilancio approvato … omissis…
Perché è stato messo questo limite? Ecco le risposte della dottrina
1. Il LIMITE è inteso come GARANZIA REALE AL CREDITO degli obbligazionisti. Questa risposta è di una dottrina più risalente, più antica, una tesi frutto di un momento storico ormai superato, quando al capitale sociale e al patrimonio netto si attribuiva funzione di garanzia in senso tecnico, ma come dicevamo è una funzione del capitale sociale ormai superata, oggi è un vincolo dell’attivo, una voce non distribuibile. Oggi il capitale sociale è una disciplina del finanziamento dell’attività d’impresa.
2. Altra tesi, più recente e valida oggi, è che il LIMITE sia un EQUILIBRIO tra diverse forme di finanziamento dell’impresa azionaria attuate con ricorso al risparmio anonimo, di massa. L’art. 2413 quindi vuole che ci sia equilibrio tra azioni e obbligazioni. Il rischio di impresa, se non ci fosse questo limite, sarebbe spostato sui creditori obbligazionari e non sugli azionisti, sui soci.
Il limite però non è che blocca TUTTE le forme di finanziamento, la società può ricorrere a finanziamenti diversi. Attraverso ad esempio mutui bancari, fatto salvo un corretto rapporto del peso finanziario degli investitori azionisti e obbligazionisti.
L’art. 2412 consente poi, ad esempio nel secondo comma, certe deroghe a questo limite, delle possibilità di superamento del limite. “Il limite di cui al primo comma può essere superato se le obbligazioni emesse in eccedenza sono destinate alla sottoscrizione da parte di investitori professionali soggetti a vigilanza. In caso di successiva circolazione chi le trasferisce risponde della solvenza della società nei confronti degli acquirenti che non siano investitori professionali.”
Il limite quindi si può superare riservando la vendita dei titoli a investitori professionali soggetti a vigilanza, perché questi soggetti hanno ovviamente maggiore consapevolezza del rischio, sanno valutare meglio il rischio, non fanno scelte inconsapevoli come farebbe invece un investitore normale, un singolo.
Vediamo anche il quinto comma dell’art. 2412 – “quando ricorrono particolari ragioni che interessano l’economia nazionale…omissis”
Si parla di quotate, e di mercati regolamentati, di obbligazioni destinate a essere quotate. Queste possono essere anche destinate a piccoli investitori, perché anche se il rischio è molto alto, però essendo destinata la società alla quotazione non è più un investimento inconsapevole, perché la quotazione è corredata da obblighi informativi penetranti, al prospetto informativo.
I TITOLI DI DEBITO
Nelle SRL le obbligazioni diventano invece TITOLI DI DEBITO, la cui disciplina, molto facile, è tutta descritta nell’art. 2483, molto semplice, basta leggere la norma, è facile. Ricordiamoci sempre che quando parliamo di SRL siamo in presenza di una tipologia dove il socio è INTERESSATO ALLA GESTIONE, e di norma siamo di fronte a una società di medie/piccole dimensioni, ad una società tipologicamente CHIUSA, per la quale è VIETATA LA SOLLECITAZIONE AL PUBBLICO RISPARMIO (art. 2468 c.c.).
La società si intende chiusa perché appunto non esiste un rapporto con il mercato, per la SRL, non c’è, non può la società farvi ricorso, al mercato, è proprio questo il suo profilo tipologico.
Esaminiamo i due aspetti dei TITOLI DI DEBITO, l’aspetto CARTOLARE e il versante ORGANIZZATIVO SOCIETARIO.
Aspetto CARTOLARE – tipologicamente è un titolo di credito, è un DOCUMENTO cartolare, che si distingue però dal titolo di credito perché è emesso CREDENDI CAUSA e non DEBENDI CAUSA. La cambiale, che è un titolo di credito, estingue un debito, è DEBENDI CAUSA, mentre il titolo di debito ha sotto una causa di credito, CREA, non estingue, un CREDITO. Ma in che tipologia rientra il titolo di debito? E’ reale o nominale come legittimazione, e quindi come regole di circolazione? E’ a legittimazione reale quindi il passaggio si realizza con la consegna oppure è a legittimazione nominale e quindi il trasferimento si concretizza con l’atto e l’iscrizione? Troveremo poi la risposta a questa domanda. Vediamo ora la GARANZIA DI SOLVENZA, come indicata nel secondo comma dell’art. 2483. Intanto i titoli possono essere sottoscritti solo da investitori professionali, e per la successiva circolazione risponde della solvenza chi li ha trasferiti se il nuovo acquirente non è un investitore professionale oppure un socio della stessa società. Questa norma è la stessa e riflette quella prevista per il limite dell’emissione delle obbligazioni, ma se facciamo il confronto con l’art. 2412, secondo comma, vediamo che c’è una differenza. La garanzia di solvenza per le SRL non opera in favore dei soci della SRL (..ovvero soci della società medesima..), infatti l’investitore professionale può vendere anche ai soci.
Per la spa è diverso, perché mentre i soci della SRL, essendo coinvolti nella gestione, nelle vicende della società, si dà per scontato che siano informati, e quindi nel caso acquistino dei titoli da investitori professionali, questi non rispondono di eventuali insolvenze, perché appunto il socio non ha corso un rischio inconsapevole, il socio SRL è in grado di valutare il rischio, quindi non è garantito nella solvenza. Cosa che invece succederebbe ai soci della spa, che non sono coinvolti nella gestione, quindi se corrono un rischio devono essere garantiti per un eventuale insolvenza. Nella spa infatti verso l’azionista opera la garanzia perché può essere inconsapevole del suo investimento. Nella SRL, come abbiamo visto nella norma, lo status professionale condiziona l’emissione dei titoli di debito, e non c’è, come per la spa, la possibilità di deroga al limite di emissione. E, ripetiamo, se l’investitore professionale cede i suoi titoli ai soci della stessa SRL non c’è garanzia di solvenza.
Vediamo ora i VIZI del titolo di debito, e restiamo sul terreno cartolare.
Una certa disciplina considera la mancanza dello status di investitore professionale come un VIZIO del titolo stesso, quindi comporta la NULLITA’ del titolo, e dà luogo a una eccezione REALE, opponibile cioè a ogni acquirente successivo. Questo vizio così disciplinato dà però incertezza al mercato, perché via via che aumentano i successivi sottoscrittori diventa sempre più difficile sapere se il primo sottoscrittore era un investitore professionale o meno, e quindi non sapendolo, e non essendo certo di essere garantito, ovviamente non acquisto.
Un’altra teoria, il cui terreno è preferibile per il Prof. Maugeri, sposta il VIZIO al rapporto sottostante l’emissione del titolo, non lo considera un vizio del titolo stesso, e quindi l’eccezione diventa PERSONALE, non più reale, ed è quindi opponibile solo al primo prenditore tranne il caso di DOLO. Solo se c’è il dolo, l’intenzione di arrecare danno, allora l’eccezione è opponibile anche ai successivi acquirenti.
Torniamo alla domanda che ci eravamo posti in precedenza. La legittimazione è reale o nominale? Abbiamo visto l’ampiezza della garanzia di solvenza, gli investitori professionali etc., ora troviamo una prima risposta nell’art. 2267 c.c. La Cessione ordinaria pro-solvendo prevede che in caso di cessione il cedente risponda al cessionario nei limiti di quanto ricevuto, presuppone quindi che la garanzia di solvenza operi soltanto in ambito SOGGETTIVO e CIRCOSCRITTO, in capo a chi cede e in favore di chi acquista. E’ quindi applicata SOLO ALLE PARTI della transazione, e nel nostro caso all’investitore professionale che vende e all’investitore NON professionale che invece acquista. Ha senso perché in effetti solo queste due parti, questi due soggetti possono QUANTIFICARE l’importo della cessione, se cedessero a un terzo soggetto questo non potrebbe ricostruire l’importo della garanzia, cioè il valore originario, della prima transazione. Quindi questa garanzia vale solo per i primi due soggetti, ma limita quindi l’ampiezza della garanzia perché esclude tutti i successivi acquirenti del titolo. Serve invece la massima portata della garanzia, per tutti i successivi acquirenti non professionali, per assicurarsi una efficace circolazione del titolo. Ma, come dicevamo, come fanno i successivi acquirenti a ricostruire l’importo.
Si ricorre all’ art. 2012 c.c. (e non al 2267) – Obblighi del girante – Salvo diversa disposizione di legge o clausola contraria risultante dal titolo il girante non è obbligato per l’inadempimento della prestazione da parte dell’emittente. In difetto quindi di diversa disposizione, ma per l’importo totale
L’art. 2483, sull’emissione dei titoli di debito, chiama chi trasferisce a garantire la solvenza dell’emittente, per l’intero importo facciale del titolo di debito. La portata della garanzia di solvenza non è nei limiti dell’importo della cessione (2467) ma per l’importo totale (2012). Quindi questo ci porta alla risposta alla domanda. L’importo garantito è indicato sul titolo, e l’emittente deve rispondere, quindi il titolo deve essere necessariamente NOMINALE, e ALL’ORDINE. La risposta è quindi che la legittimazione è NOMINALE, e la ricaviamo dalla garanzia di solvenza, perché chi non è investitore professionale e non è socio (per le srl) deve poter INDIVIDUARE IL CEDENTE, che è secondo la norma il TITOLARE DELLA GARANZIA. Ricavando quindi la necessità di applicazione dell’art. 2012 e la necessità che operi la garanzia di insolvenza, arriviamo alla necessità di INDIVIDUARE IL GARANTE, quindi al fatto che il titolo sia NOMINALE.

Versante ORGANIZZATIVO SOCIETARIO dei titoli di debito nelle SRL. L’art. 2483 lascia ampia autonomia privata, con alcuni limiti, che andiamo a esaminare:
1) Impossibilità a munire il titolo di diritti amministrativi, a emettere cioè dei titoli di debito simili agli strumenti finanziari partecipativi della spa. La SRL non può emettere titoli di debito partecipativi perché nella SRL il socio è sempre tenuto distinto dal creditore.
2) Il titolo non può essere emesso in forma convertibile perché comporterebbe l’elusione del divieto di collocare quote presso il pubblico risparmio (art. 2468 primo comma). Sarebbe a dire, una SRL emette dei titoli di debito solo a investitori professionali, i quali potrebbero a loro volta collocarli sul mercato (e anche vederli a risparmiatori, i quali avrebbero però la garanzia di solvenza) , se non ci fosse il divieto, collocherebbero quindi quote della srl sul mercato.
3) Ci deve essere una clausola nell’atto costitutivo che autorizza gli amministratori a emettere i titoli di debito, che mette un limite LEGALE al potere di rappresentanza degli amministratori. E’ un limite legale, cioè che ha fonte nella LEGGE, perché è la legge che prevede che ci sia nello statuto questa clausola. E consente che sia opponibile a qualsiasi terzo. Ad esempio se gli amministratori deliberano l’emissione di obbligazioni convertibili , che invece è di competenza dell’assemblea straordinaria, questo vizio è opponibile a qualsiasi terzo. Si parla di limite LEGALE e non di un limite CONVENZIONALE, il limite convenzionale ha fonte nell’atto costitutivo e basta, invece è legale perché PER LEGGE la clausola deve stare nell’atto. Il limite CONVENZIONALE è opponibile ai terzi solo se si prova che il terzo ha agito in danno della società, cioè la già citata eccezione di dolo. Salvo a questi il limite convenzionale è in opponibile.
4) E un limite QUANTITATIVO all’emissione c’è? Vedi art. 2483. Va ricordato che i titoli di debito sono SOLO per gli investitori professionali, per i soggetti qualificati, quindi non può esserci un limite quantitativo.

GLI STRUMENTI FINANZIARI PARTECIPATIVI
Li abbiamo già citati prima, dicendo che non si possono emettere per le SRL, per le SPA invece si possono emettere degli strumenti finanziari che sono tra le azioni e le obbligazioni. La fattispecie è costruita da norme sparse, e ci si chiede se si può considerare una unica autonoma fattispecie per questi strumenti oppure se sono delle variazioni di fattispecie tipologiche già esistenti. Sono un terzo genus? O c’è una pluralità di fattispecie?
Innanzitutto teniamo a mente tre norme di riferimento:
 art. 2411 terzo comma
 art. 2346 ultimo comma
 art. 2351 ultimo comma
il primo articolo lo abbiamo già visto, gli altri due viene da chiedersi quando si riferiscono a strumenti finanziari, pensano e prevedono strumenti diversi o agli stessi con diverso contenuto?
Vediamo di esaminare questi strumenti. Allora, hanno una COMPONENTE PARTECIPATIVA, cioè attribuiscono diritti patrimoniali (es. il diritto all’utile), ed è essenziale che li abbiano, ma anche amministrativi, cioè quei diritti tipici propri dei soci (es. il diritto di voto). Non comportano quindi una semplice partecipazione al rischio d’impresa, ma si può dire che configura una nuova fattispecie? Vediamo innanzitutto come si differenziano dalle azioni.
Intanto il valore dell’apporto a fronte dell’emissione dello strumento finanziario partecipativo NON CONCORRE alla formazione del capitale sociale. Il regime di utilizzazione dell’apporto è SOTTRATTO alla disciplina del capitale sociale. Poi l’emissione degli strumenti finanziari partecipativi è di competenza degli AMMINISTRATORI, infatti, non dell’assemblea dei soci, nel silenzio dello statuto. Il rimborso degli strumenti finanziari partecipativi è un ATTO DI GESTIONE, è una restituzione, e il valore come abbiamo detto non concorre al capitale sociale, se concorresse servirebbe una delibera di RIDUZIONE del capitale per restituire agli investitori acquirenti degli strumenti.
Se leggiamo l’art. 2346 evinciamo come detto che:
 i diritti patrimoniali sono essenziali, se no non avrebbe una funzione finanziaria lo strumento, non sarebbero strumenti finanziari. La loro emissione è una operazione FINANZIARIA, è una creazione di nuova ricchezza.
 i diritti amministrativi sono una caratteristica RESIDUALE, infatti la norma dice “anche”, servono solo, in caso, per una migliore gestione, eventuale.
L’articolo parla poi di APPORTO, non di conferimento, vediamo la distinzione:
 APPORTO il valore va nel patrimonio netto non nel capitale sociale, NON FORMA CAPITALE SOCIALE
 CONFERIMENTO il valore è legato al CAPITALE SOCIALE
Il possessore di strumenti finanziari partecipativi si distingue quindi dall’azionista (l’art. 2346 tra l’altro VIETA il diritto di VOTO), ma se vediamo l’art. 2351 parla di DIRITTO DI VOTO su ARGOMENTI SPECIFICI.
Come si conciliano i due articoli? Sembrano configgere. Gli investitori non sono dei soci, ma lo statuto può attribuirgli il diritto di voto, ma un diritto di voto esercitato in modo DIVERSO dall’assemblea generale dei soci, cioè solo nell’ASSEMBLEA SPECIALE DEI POSSESSORI DEGLI STRUMENTI FINANZIARI PARTECIPATIVI, con la conseguenza che in realtà i possessori non concorrono alla formazione della volontà sociale, ma si dice che hanno diritto di voto nel senso che hanno DIRITTO DI VETO all’adozione delle delibere dei soci, su certi argomenti.
Ad esempio, se la volontà dei soci in una assemblea generale emana una delibera assembleare su un argomento che tocca i possessori degli strumenti finanziari partecipativi, serve che l’organo esterno, l’assemblea speciale dei possessori degli strumenti finanziari partecipativi, con diritto su quell’argomento, dia voto positivo con una delibera dell’assemblea speciale.
In questo modo ci avviciniamo al terzo comma dell’art. 2411 c.c. Cioè agli strumenti finanziari.
Se guardiamo l’art. 2351 ,ultimo comma, vediamo che i possessori degli strumenti finanziari possono esser dotati del diritto di nominare un componente INDIPENDENTE del Consiglio di Amministrazione, o del Consiglio di sorveglianza, o del Collegio sindacale. Ma indipendente da chi, da cosa? Abbiamo varie risposte.
a) Indipendente, non espresso, non nominato, dal GRUPPO DI CONTROLLO della società. Il componente promana da soggetti DIVERSI da chi controlla la società. Ma è una risposta poco logica perché già la norma definisce che è nominato dai possessori degli strumenti finanziari partecipativi, quindi da soggetti diversi.
b) Il predicato dell’INDIPENDENZA infatti ha un significato diverso, esige che il soggetto nominato componente NON PARTECIPI direttamente alla gestione dell’impresa. Può essere soltanto investito di funzioni di controllo, non può essere amministratore delegato, non può avere deleghe gestorie e non può prendere decisioni operative. Questo perché è nominato dai possessori degli strumenti finanziari partecipativi, e questi NON SONO SOCI; la Spa è gestita nell’interesse dei soci, non nell’interesse dei possessori degli strumenti finanziari. Il componente nominato quindi può vigilare sull’operato ma non può partecipare.
Per concludere e rispondere alla domanda se questi strumenti configurano fattispecie proprie, autonome, possiamo rispondere che sono ipotesi ARRICCHITE, NON FATTISPECIE AUTONOME, e la norma infatti dice “comunque denominati”. Sono strumenti finanziari che si arricchiscono di una ulteriore componente, PARTECIPATIVA, dell’attribuzione di diritti patrimoniali e ANCHE amministrativi.
Identifichiamo tre categorie di soggetti, e al centro abbiamo i possessori di SFP:

SOCI POSSESSORI DI STRUMENTI FINANZIARIA PARTECIPATIVI
Arricchiti di diritti tipici dei soci CREDITORI SOCIALI


La disciplina delle obbligazioni, fattispecie propria, si aggiungono gli artt. 2346 e 2351, e non si crea una fattispecie nuova, autonoma, ma la posizione creditoria di un soggetto può arricchirsi di altri diritti, facendo diventare la posizione più complessa, la fattispecie più complessa, ma non nuova.
Identifichiamo tre categorie di posizioni, di possessori di:
• OBBLIGAZIONI
• STRUMENTI FINANZIARI PARTECIPATIVI
• STRUMENTI FINANZIARI COMUNQUE DENOMINATI.
Lezione 22/05/2009 – Maugeri
Per rispondere alla domanda quali parti bisogna studiare del bilancio, sul manuale, sicuramente non va fatta la parte sui criteri di valutazione, che non vi verranno chiesti, ma sicuramente i principi generali e le modalità, cioè chi e con che procedura si preparar il bilancio, questo va studiato. Per esempio bisogna sapere chi lo predispone e chi lo approva, non vi serve sapere COME si prepara.
La parte sull’OPA va fatta, soprattutto i presupposti, ma ricordate che il manuale del 2007 non riporta la riforma del 2008, che ha recepito una direttiva CE sulle OPA.
Per concludere la parte sul finanziamento dell’impresa, ricordiamo che la SPA è una disciplina del finanziamento, e che si parla di forme di finanziamento dell’impresa in forma societaria, e affrontiamo in dettaglio ora gli : STRUMENTI FINANZIARI PARTECIPATIVI PER LO SPECIFICO AFFARE. Questi strumenti danno vita ai cosiddetti PATRIMONI DESTINATI.
Art. 2447 bis s.s. del codice civile – patrimoni destinati ad uno specifico affare – La società può:
a) Costituire uno o più patrimoni ciascuno dei quali destinato in via esclusiva a uno specifico affare.
b) Convenire che nel contratto relativo al finanziamento di uno specifico affare al rimborso totale o parziale del finanziamento medesimo siano i destinati i proventi dell’affare stesso, o parte di essi.
Innanzitutto distinguiamo i patrimoni destinati in:
PATRIMONI OPERATIVI – considerati alla lettera a) dell’articolo. Nascono per effetto della segregazione di un insieme di BENI e di diritti destinati a uno specifico affare. La segregazione è REALE, i diritti sui beni da destinare all’affare sono segregati, non possono essere utilizzati.
PATRIMONI FINANZIARI – considerati alla lettera b) dell’articolo. Nascono nel momento in cui si segrega un flusso di ricavi derivanti dal finanziamento di uno specifico affare. La segregazione delle somme, i flussi, sono dedicati al RIMBORSO, ci sono diritti su ricavi.
L’elemento comune ad a) e b) risiede nell’effetto di SEGREGAZIONE, che caratterizza un complesso di diritti. Questo insieme di diritti (su beni o su ricavi) è SEPARATO dal restante patrimonio della società.
Le differenze invece sono:
nel caso a) la segregazione ha luogo EX ANTE, in via preventiva
nel caso b) la segregazione si attua EX POST, in via successiva
In a) la segregazione ha una funzione di GARANZIA, serve cioè a garantire l’adempimento dei debiti di volta in volta contratti per la gestione dello specifico affare.
In b) la segregazione ha una funzione SOLUTORIA, serve cioè ad adempiere al debito di finanziamento dello specifico affare.
La disciplina degli Strumenti Finanziari Partecipativi per uno Specifico Affare, funziona praticamente in deroga al famoso art. 2740, ai sensi del quale ognuno per il proprio debito risponde con tutti i suoi beni, perché il codice prevede per questi strumenti di poter ISOLARE una parte dei beni. Ma la dottrina afferma che non c’è una deroga, perché solo un soggetto può derogare, e la società, essendo un insieme di regole per la gestione di attività d’impresa, non è un soggetto che deroga. Ci si allontana, come già più volte ricordato, dall’idea di soggetto per la società, e ci avvicina invece al concetto di ATTIVITA’.
Per i patrimoni OPERATIVI, vediamo ora i tre aspetti relativi alla:
- Costituzione, istituzione
- Gestione
- Cessazione
La COSTITUZIONE, l’istituzione del patrimonio operativo si basa sul concetto di SPECIFICO AFFARE, anzi lo presuppone. Vediamo cosa è l’AFFARE: è un’attività, l’affare è ricompreso nel concetto di attività. E’, deve essere, una FASE, una parte dell’attività descritta nello statuto come oggetto sociale. L’affare per cui si emette lo strumento finanziario deve essere una porzione dell’attività contenuta nell’oggetto sociale ad es. la distribuzione di un prodotto, una fase del processo produttivo.
Inoltre deve essere SPECIFICO, cioè caratterizzato sul piano territoriale e merceologico. La delibera che istituisce il patrimonio destinato deve indicare quindi l’affare specifico, per i seguenti motivi:
- All’art. 2447 ter, lettera c), vengono indicate le condizioni per istituire il patrimonio, e chiede che sia predisposto un piano di CONGRUITA’. Gli amministratori sono tenuti a fare un piano di congruità per la realizzazione dell’affare, e per farlo serve che l’affare sia specifico, ben definito, per consentire appunto agli amministratori di valutarne la congruità.
- Deve essere specifico anche perché, come indicato all’art. 2447 quinquies ultimo comma, ogni atto di gestione del patrimonio destinato deve indicare lo specifico affare, altrimenti la società sarà tenuta a rispondere ai debiti nascenti dall’atto con il suo intero patrimonio. La delibera deve quindi individuare l’affare specifico, che deve essere riportato sugli atti affinchè questi possano essere individuati per garantire la SEPARAZIONE dagli altri atti, fatti con il patrimonio generale della società e per i quali la società risponde con tutti i suoi beni. Gli atti invece messi in essere con il patrimonio destinato, che indicano lo specifico affare, saranno garantiti per i debiti dal patrimonio destinato, segregato.
La specificità dell’affare è quindi funzionale a identificare la segregazione.
Abbiamo TRE TIPI DI SEGREGAZIONE:
1) Segregazione CONTABILE, meramente contabile. Ad esempio quella relativa alle azioni correlate, art. 2350 c.c., che incorporano dei diritti patrimoniali correlati ad uno specifico settore. Nel bilancio vengono quindi contabilmente separati i costi e i ricavi riguardanti quel particolare settore. Gli azionisti, possessori di azioni correlate, però, sono comunque soci, e soggetti pertanto alle regole organizzative le quali prevedono che i soci non hanno diritto a percepire l’utile se l’esercizio non si è chiuso in generale con un UTILE, e per gli azionisti di azioni correlate non importa se lo specifico settore, a cui sono legate le azioni, abbia chiuso in utile.
2) Segregazione REALE. La segregazione reale, per i patrimoni destinati, consiste nel TOGLIERE, in deroga quasi come abbiamo detto all’art. 2740 (che infatti recita “salvi i casi previsti dalla legge” e questo è uno di quelli), nel sottrarre quei beni, destinati allo specifico affare, dalle pretese dei creditori generali. La legge prevede quindi che si possano sottrarre dei beni ai creditori generali. La segregazione reale consiste nel distinguere e creare diverse CLASSI DI CREDITORI:
- Creditori PARTICOLARI – che esercitano le loro pretese sul patrimonio destinato allo specifico affare, o almeno tendenzialmente
- Creditori GENERALI – che esercitano le loro pretese sul patrimonio generale della società.
Come si sa sulla distribuzione del patrimonio c’è sempre il conflitto tra creditori e soci, con i patrimoni destinati si crea un altro conflitto, tra creditori particolari e creditori generali.
La delibera che istituisce il patrimonio destinato crea una nuova classe di creditori, quindi, e un nuovo conflitto, ma non è efficace subito, lo diventa, ai sensi dell’art. 2447 quater, soltanto decorsi 60 giorni dalla ISCRIZIONE nel registro delle imprese, durante i quali nessun creditore generale abbia fatto opposizione. Gli viene lasciata questa possibilità proprio perchè una parte del patrimonio viene poi DESTINATO, e tolto alla loro disponibilità.
3) Segregazione SOGGETTIVA. Questo tipo di segregazione si attua quando i beni segregati vengono conferiti in una società di NUOVA costituzione. Con la costituzione di un Gruppo, quindi, di società, la gestione dei beni segregati passa a ORGANI DIVERSI (CdA), interni alla società nuova, la società conferita ria che riceve i beni. Nella segregazione reale invece il patrimonio destinato, e i beni che lo compongono, è gestito dalla stessa società che lo ha istituito, dagli stessi amministratori che hanno istituito il patrimonio destinato.
Il patrimonio destinato E’ PRIVO DI AUTONOMIA GIURIDICA, non ha propri organi, e la conseguenza è che si rischia che il consiglio di amministrazione della società che lo gestisce possa spostare risorse dal patrimonio generale al patrimonio destinato, per sottrarle ai creditori generali, per esempio.
Ecco che emerge il tema della RESPONSABILITA’ DEGLI AMMINISTRATORI.
In questo caso specifico la responsabilità si specifica nel RISPETTO DEL VINCOLO di destinazione del patrimonio, e cioè la specificità dell’affare. Questo vincolo è fonte di responsabilità per gli amministratori.
Questa quindi è la responsabilità degli amministratori nella gestione del patrimonio destinato.
Ma che LIMITI ci sono nella costituzione e nella gestione di un patrimonio destinato?
 Art. 2447 bis, secondo comma – i beni destinati non possono eccedere il 10% del patrimonio netto della società (composto dal capitale sociale più le riserve, e rappresenta la differenza tra attività e passività, contabilmente, sul bilancio) desunto da valori CONTABILI, non da valori effettivi (come per esempio il valore dell’avviamento, non considerato in bilancio). Questo limite, basato su valori contabili, penalizza la costituzione di patrimoni destinati, ma è un LIMITE PRATICO, per la tutela dei creditori sociali, impedisce infatti una eccessiva disgregazione della garanzia, rappresentata dal patrimonio generale della società.
 Per definizione la società deve dedicare PROPRI beni allo specifico affare. Vale a dire che lo specifico affare non può essere finanziato esclusivamente con apporti di terzi (emissione di Strum Fin part per specifico affare art. 2447 octies), la società deve partecipare allo specifico affare, al quale possono poi partecipare anche terzi. Sempre per il giudizio di congruità.
Ma che NATURA GIURIDICA hanno gli strumenti finanziari partecipativi a uno specifico affare?
Possono essere rappresentati da AZIONI? Possono cioè essere una parte del capitale sociale e può il rapporto giuridico sottostante essere quindi un rapporto SOCIALE? La risposta è NO.
Vediamo le motivazioni della risposta negativa. Iniziamo con un argomento letterale, a sfavore delle azioni come strumenti finanziari partecipativi a uno specifico affare.
Sarebbero in questo caso delle azioni CORRELATE, ma se vediamo l’art. 2350 al secondo comma cita “fuori dai casi”, quindi l’articolo è volto proprio a distinguere le azioni correlate dagli strumenti partecipativi a uno specifico affare. Anche perché la conseguenza sarebbe che i possessori degli strumenti rischierebbero nello stesso modo degli azionisti, correrebbero il cosiddetto rischio d’impresa. Ad esempio in caso di perdita d’esercizio, sul patrimonio generale, questa impatterebbe e colpirebbe i diritti anche dei possessori dello specifico affare, se i loro strumenti fossero considerate azioni, e sarebbe smentito lo stesso vincolo di destinazione. Correrebbero un doppio rischio, sul patrimonio destinato e sul patrimonio generale.
Non possono neanche essere considerati TITOLI DI DEBITO (art. 2346). E la differenza la ricaviamo dal contenuto degli strumenti fin part a specifico affare, perche vediamo che questi possono attribuire unicamente poteri di controllo sull’andamento dello specifico affare.
Art. 2447 ter dice che la delibera che costituisce un patrimonio destinato deve contenere, tra le altre cose: lettera d) gli eventuali apporti di terzi, le modalità di controllo sulla gestione e di partecipazione ai risultati dell’affare.
Non può contenere diritti amministrativi più pregnanti, propri della disciplina dell’art 2346 c.c. come, ad esempio, il diritto di voto, o di nomina del componente indipendente del CdA, questi sono esclusi per i possessori degli strumenti partecipativi allo specifico affare, che possono solo incidere sulle modalità di CONTROLLO della gestione dell’affare. C’è una notevole differenza di contenuto quindi.
L’opinione preferibile per definire la natura giuridica di questi strumenti è che il rapporto giuridico a cui ci si può accostare di più è la
ASSOCIAZIONE IN PARTECIPAZIONE
Un soggetto, che esercita attività di impresa, (una società) detto ASSOCIANDO, utilizza nell’esercizio appunto della sua attività, l’apporto di UN TERZO, detto ASSOCIATO, che in virtù di questo rapporto ha diritto a partecipare all’attività e ha poteri di controllo.
Ecco che il rapporto tra l’associando e l’associato è quello che assomiglia di più come contenuto agli strumenti finanziari partecipativi al singolo affare.
La CESSAZIONE degli strumenti – art. 2447 novies – può avvenire per diversi motivi:
- L’affare è stato realizzato
- La realizzazione dell’affare è diventata impossibile
A questo punto gli amministratori devono depositare un rendiconto della gestione dello specifico affare, e qui entrano in gioco i creditori dello specifico affare, che entro 90 gg. dal deposito possono chiedere che il patrimonio sia LIQUIDATO IN MODO SPEPARATO, rispettando quindi il vincolo di destinazione.
A questo punto gli amministratori monetizzano i beni destinati, con il ricavo soddisfano i creditori, e fanno confluire l’eventuale residuo nel patrimonio generale. Solo il residuo, quindi, dopo aver liquidato il patrimonio destinato, viene fatto confluire nel patrimonio generale.
L’alternativa è che alla cessazione i beni, se i creditori particolari non fanno richiesta di liquidazione separata, confluiscano nel patrimonio generale. Ma così però gli amministratori ne possono disporre? No.

L’art. 2447 novies, cioè la legge, come abbiamo visto rimette la scelta ai creditori particolari dello specifico affare e se rimangono inerti per 90 gg, come abbiamo visto i beni vengono fatti confluire nel patrimonio generale, con il rischio che gli amministratori ne dispongano. Ma qui interviene sempre la legge che all’art. 2447 novies terzo comma recita “sono comunque salvi i diritti dei creditori”. Quindi, come si vede dal disegno, anche se i beni confluiscono restano comunque vincolati per le loro pretese creditorie. Questo vincolo che segue i beni i avvicina al modello delle obbligazioni propter rem, che ricordiamo in diritto privato rappresentano un vincolo , che segue la cosa, il bene, nei suoi trasferimenti di proprietà.
In ogni caso sarebbe meglio che i creditori chiedessero che venga liquidato separatamente, hanno tutto l’interesse a chiederlo perché potrebbe accadere che gli amministratori, potendone disporre, anche se fatti salvi i diritti dei creditori, potrebbero vendere ad un terzo di buona fede che come abbiamo visto la legge tutela e fa salvo il suo diritto. I creditori speciali quindi hanno sì una protezione, ma indebolita.
Una particolare forma di cessazione è rappresentata dal FALLIMENTO della società. Ricapitolando abbiamo visto che la legge consente di staccare il patrimonio, di dividerlo, quindi ci sarà:
 Chi finanzia l’attività generale della società
 Chi finanzia lo specifico affare
Ma allora si può parlare di insolvenza del SOLO patrimonio destinato. E può fallire il patrimonio destinato?
Prima sembrava possibile, e ricordiamo che i patrimoni destinati sono stati introdotti dalla riforma Vietti del2003. La riforma del fallimento dice che il patrimonio NON E’ AUTONOMAMENTE FALLIBILE, la sua incapienza non comporta fallimento ma solo l’IMPOSSIBILITA’ DI REALIZZARE L’AFFARE, e di conseguenza comporta la cessazione del patrimonio destinato (disciplinata dall’art. 2447 novies).
Detto questo, non è però vero il contrario. Cioè se è il patrimonio generale a essere insolvente, e la società fallisce, questo impatta sulla gestione del patrimonio destinato. La sua gestione passa al CURATORE, che mantiene il vincolo di destinazione, gestisce il patrimonio, e lo liquida, nel miglior interesse dei creditori particolari. Il curatore valorizza il patrimonio nell’interesse di TUTTI i creditori, gestisce separatamente il patrimonio destinato ma lo fa nell’interesse di TUTTI i creditori (art. 155 L. Fallimentare).
Art. 155. (1)
Patrimoni destinati ad uno specifico affare.
Se è dichiarato il fallimento della società, l'amministrazione del patrimonio destinato previsto dall'articolo 2447-bis, primo comma, lettera a), del codice civile è attribuita al curatore che vi provvede con gestione separata.
Il curatore provvede a norma dell'articolo 107 alla cessione a terzi del patrimonio, al fine di conservarne la funzione produttiva. Se la cessione non è possibile, il curatore provvede alla liquidazione del patrimonio secondo le regole della liquidazione della società in quanto compatibili.
Il corrispettivo della cessione al netto dei debiti del patrimonio o il residuo attivo della liquidazione sono acquisiti dal curatore nell'attivo fallimentare, detratto quanto spettante ai terzi che vi abbiano effettuato apporti, ai sensi dell'articolo 2447-ter, primo comma, lettera d), del codice civile.
Il terzo comma dell’art. 155 specifica che resta fermo il vincolo AL NETTO DEI DEBITI del patrimonio, quindi il curatore vende il complesso di beni del patrimonio destinato e fa confluire il residuo nel patrimonio generale, DOPO AVER soddisfatto i creditori particolari.
Art. 156. (1)
Patrimonio destinato incapiente; violazione delle regole di separatezza.
Se a seguito del fallimento della società o nel corso della gestione il curatore rileva che il patrimonio destinato è incapiente provvede, previa autorizzazione del giudice delegato, alla sua liquidazione secondo le regole della liquidazione della società in quanto compatibili.
I creditori particolari del patrimonio destinato possono presentare domanda di insinuazione al passivo del fallimento della società nei casi di responsabilità sussidiaria o illimitata previsti dall'articolo 2447-quinquies, terzo e quarto comma, del codice civile.
Se risultano violate le regole di separatezza fra uno o più patrimoni destinati costituiti dalla società e il patrimonio della società medesima, il curatore può agire in responsabilità contro gli amministratori e i componenti degli organi di controllo della società ai sensi dell'articolo 146.

L’art. 156 al terzo comma identifica la regola di responsabilità, e arriviamo ad affrontare la RESPONSABILITA’ GESTORIA DEGLI AMMINISTRATORI.
Esaminiamo la natura di questa responsabilità, e guardiamo il rapporto che si instaura tra
Consiglio di Amministrazione E Assemblea
AMMINISTRATORI SOCI
La posizione giuridica degli amministratori ha avuto una grande evoluzione, considerate che:
- Nel Codice del commercio del 1882 gli amministratori erano MERI MANDATARI, quindi erano sottoposti alle direttive, alle istruzioni dei soci, che erano MANDANTI. Se le istruzioni erano impartite, gli amministratori erano tenuti a rispettarle, la loro posizione era subordinata, e la loro investitura arrivava dai soci.
- Nel Codice civile del 1942 la posizione degli amministratori si rafforza. L’organo amministrativo viene investito in via ORIGINARIA della competenza a gestire. Il potere di gestione degli amministratori trova dal 1942 la sua fonte nella legge, non più nel mandato dei soci. I soci non possono più conformare il potere gestorio degli amministratori, e non possono più impartire direttive vincolanti per la gestione. La posizione degli amministratori si distanzia così dal ruolo di mandatario, il rapporto non è un MANDATO.
Allora in che consiste, che natura ha questo mandato? Vediamo le diverse impostazioni.
Una certa dottrina (Ferrara, Calamai) costruisce una tesi che configura gli amministratori come FUNZIONARI PRIVATI TITOLARI DI UN UFFICIO, prendendo spunto da concetti di diritto amministrativo. Il rapporto secondo questa tesi nasce dunque da manifestazioni di volontà convergenti ma non destinate a fondersi, che restano distinte. Non un contratto ma un ufficio. Con due atti unilaterali, la delibera di nomina dell’assemblea e l’accettazione dell’amministratore, nasce il rapporto, avviene l’investitura organica, di un ufficio. La società, secondo questa tesi, è vista quindi come un soggetto che investe, ed è vista quindi come persona giuridica.
Una seconda impostazione (Minervini) è invece quella NEGOZIALE. Tra soci e amministratori c’è un contratto TIPICO, quindi individuato dalla legge, nominato, un CONTRATTO DI AMMINISTRAZIONE. Qui la società è vista come un contratto, non come una persona giuridica.
Una terza teoria, più accettabile oggi perché vede la società come DISCIPLINA, considera gli amministratori di una società per azioni come dei GESTORI PROFESSIONALI SPECIALIZZATI DEL RISPARMIO DI VALORI INVESTITI DA ALTRI, cioè i soci. A questa teoria fa capo un determinato criterio di responsabilità.

Va ricordato che il codice del 1942, anche se cambia impostazione, non abbandona l’idea dei so come PROPRIETARI ultimi del patrimonio sociale, e individua l’assemblea come organo sovraordinato. Tanto che l’art. 2364 vecchio, prima della riforma, riconosceva all’assemblea ordinaria dei soci competenza a deliberare sulle materie di GESTIONE riservate dallo Statuto appunto alla competenza assembleare, oppure poteva deliberare per quelle materie sottoposte a esame assembleare dallo stesso amministratore. Vale a dire che nel ’42 i soci potevano indicare nello statuto delle materie gestorie che sarebbero state sottoposte alla loro competenza e quindi gestite in assemblea, così come erano a loro sottoposte alcune questioni su richiesta stessa degli amministratori.
I soci tramite lo Statuto potevano incidere sul criterio di competenza, gli amministratori erano quindi autonomi, ma si lasciavano ancora degli spazi ai soci per definire dei limiti alla gestione, potevano influire e scegliere le materie gestorie su cui deliberare. Una certa dottrina (Campobasso) riteneva addirittura che l’assemblea potesse con lo statuto assegnarsi TUTTE le competenze gestorie, salvo quelle non previste dalla legge.
In questo stato di cose si verificava sempre che l’amministratore sottoponesse ai soci ogni scelta gestoria, che volesse la delibera preventiva per ogni atto gestorio, per non avere poi la responsabilità nei confronti della società.
Con la riforma si rafforza la posizione gestoria degli amministratori, e nasce il NUOVO ART. 2364, e un nuovo comma per l’art. 2380 bis.
Art. 2380 bis – Amministrazione della società – La gestione dell’impresa spetta esclusivamente agli amministratori, i quali compiono le azioni necessarie per l’attuazione dell’oggetto sociale.
Dopo la riforma quindi spetta IN VIA ESCLUSIVA agli amministratori la gestione dell’impresa.
L’art. 2364, che disciplina l’assemblea ordinari,a al numero 5) dice delibera su ALTRI oggetti attribuiti dalla legge alla competenza dell’assemblea, ferma in ogni caso la responsabilità degli amministratori. Con la riforma scompare la possibilità che lo statuto riservi materie gestorie ai soci, al limite solo singoli atti, e oltretutto la competenza resta comunque degli amministratori. Sono singole autorizzazioni che non fanno trasferire la responsabilità, perché come si sa la competenza, che rimane agli amministratori, genera la responsabilità.
Prima, la competenza era dei soci, e gli amministratori non potevano agire senza una delibera dei soci, e nel caso ci fosse stata la delibera agivano, ma non avevano responsabilità, che restava, insieme alla competenza, ai soci. Infatti prima della riforma si parlava di competenza, oggi si parla di AUTORIZZAZIONE A ATTO GESTORIO, che però non obbliga a compierlo.
Allora per ricapitolare, l’art. 2364:
- vecchio – parlava di COMPETENZA, e la delibera dei soci obbligava gli amministratori ad eseguire, senza che loro esercitassero discrezionalità, o prendessero decisioni.
- Nuovo – parla di AUTORIZZAZIONE A ATTO GESTORIO, termine tecnico, e indica che la competenza gestoria è sempre degli amministratori, quindi sono liberi di valutare SE compiere o meno l’atto autorizzato.
Ma se resta ferma la responsabilità degli amministratori, allora a che serve una autorizzazione? Serve perché fornisce un criterio per valutare la diligenza, consente, come vedremo più avanti, di valutare la diligenza con cui operano gli amministratori.
Mentre il codice civile aveva recepito i principi venuti fuori nella giurisprudenza, la riforma invece SVUOTA i precedenti giurisprudenziali. E l’art. 2364 ne è una chiara dimostrazione. Anche in materia di invalidità la riforma si è allontanata dagli orientamenti giurisprudenziali.
Nel’’eventualità di predisporre una delega di poteri gestori, viene da chiedersi quali sono questi poteri, ma non ci sono norme dicano COSA in dettaglio deve fare il CdA.
C’è l’art. 2381, terzo e quinto comma, che parla delle funzioni, della delega di funzioni. La DELEGA, innanzitutto, è un attribuzione di poteri. Il Consiglio di amministrazione può quindi dare deleghe:
 INDIVIDUALI – amministratore delegato
 COLLEGIALI – a un comitato detto esecutivo
E queste deleghe possono essere:
 TIPICHE – previste dallo statuto o autorizzate dai soci alla nomina degli amministratori (art. 2381 secondo comma)
 ATIPICHE – interne, quando, senza una autorizzazione dei soci il consiglio procede a ripartire le mansioni esecutive tra i singoli componenti.
Vediamo ora la rilevanza giuridica tra i due tipi di delega. La distinzione tra tipiche e atipiche prima della riforma, quindi nel codice del 1942, rilevava sul piano della responsabilità degli amministratori, perché la delega consiste nel distribuire tra:
- amministratori DELEGATI, che hanno il potere di decidere il compimento degli atti, SE farli o meno, e ne RISPONDONO, sono responsabili per l’atto compiuto
- e amministratori DELEGANTI, che hanno il compito di vigilare sull’operato dei delegati. Quindi VIGILANO e hanno responsabilità per omessa vigilanza.
La delega quindi, distingue in due tipi di responsabilità, modifica il titolo della responsabilità, che è diretta solo per le deleghe tipiche, cioè autorizzate dai soci.
La riforma del 2003 equipara poi le deleghe tipiche a quelle atipiche per quanto riguarda il profilo della responsabilità, ma se vediamo l’art. 2392 recita “ Essi sono solidalmente responsabili verso la società dei danni ….. A MENO CHE si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo o di funzioni IN CONCRETO attribuite ad uno o più amministratori”.
Dicendo A MENO CHE vuol dire che non sono sempre solidalmente responsabili, e quando dice IN CONCRETO intende anche con delega ATIPICA, che quindi va a incidere sul profilo della responsabilità, la modifica del titolo di responsabilità opera comunque, allora la differenza tra deleghe tipiche e atipiche dopo la riforma dove sta?
La distinzione tra deleghe tipiche e atipiche oggi rileva sotto due profili:
- ART. 2389 terzo comma – i compensi degli amministratori sono fissati dai soci MA se gli amministratori sono investiti di particolari cariche, tramite delle deleghe TIPICHE (autorizzate dai soci), il CdA può stabilirne i compensi. I soci sanno che dando deleghe agli Amministratori ( qundi delegati) questo comporta che il CdA, e non loro, possa stabilirne i compensi. E questo succede solo con le deleghe TIPICHE, non per quelle atipiche.
Art. 2381 (leggere bene tutto) –vediamo che in presenza di una delega TIPICA il CdA valuta L’ADEGUATEZZA, e in particolare al terzo e quinto comma vediamo le competenze complementari.
- 5° comma l’organo delegato cura l’adeguatezza dell’assetto organizzativo e contabile – informa il consiglio di amministrazione.
- 3° comma il CdA vigila sull’adeguatezza.
Dall’articolo si evince una ripartizione VERTICALE delle competenze tra CdA e amministratori delegati.
L’art. 2380 bis definisce che la GESTIONE DELL’IMPRESA, quindi l’organizzazione dell’attività di impresa, è esclusiva degli amministratori. i punti fondamentali della gestione dell’impresa sono:
a) Programmazione
b) Valutazione
c) Organizzazione
d) Controllo
e) Flussi informativi
Se c’è una delega si apporta un riparto verticale, e la cura dei piani, della pianificazione e della responsabilità spetta agli amministratori, la fase della valutazione spetta al Cda.
La delega tipica dà vita a un riparto VERTICALE:
CDA
VALUTA E VIGILA


AMMINISTRATORE DELEGATO
CURA LA GESTIONE

Dall’art. 2381, da questa norma si ricava che in assenza di deleghe tipiche NON C’E’ il riparto verticale, e il Cda ha quindi non solo un ruolo valutativo, ma si occupa tutto della intera gestione
La delega ATIPICA invece anche se c’è non crea il riparto, rimane al Cda sia la cura che la vigilanza. Le deleghe interne infatti incidono solo sulla distribuzione dei poteri necessari al conseguimento dell’oggetto sociale, divide tra gli amministratori la gestione esecutiva, quotidiana, e dà vita a un RIPARTO ORIZZONTALE:
_______ ___________ _________ _________ _______
AMM AMM AMM AMM AMM

La delega atipica produce comunque una modifica al titolo di responsabilità, perché la responsabilità esclusiva degli atti assegnati al singolo amministratore spetta a lui, che ha avuto la delega interna per quegli atti, per quella porzione di poteri. Gli altri invece VIGILANO sugli atti assegnati al singolo amministratore, e rispondono, in caso di illecito, con la responsabilità da mancata vigilanza.

Lezione 26/05/2009 – Maugeri
Nelle lezioni precedenti abbiamo affrontato tra l’altro il concetto di AZIONE, che è un titolo di credito CAUSALE, non astratto, e le tecniche di LEGITTIMAZIONE. Oggi proseguiamo il discorso sugli amministratori, e riscontriamo la posizione ormai consolidata del modello tradizionale di amministrazione della società, cioè il Consiglio di Amministrazione. Negli ultimi anni è poi cambiata la posizione nella società, sono sorti i modelli DUALISTICO E MONISTICO, quest’ultimo pressoché sconosciuto. Alcune società hanno provato a cambiare modello, ad esempio la Ducati, che poi è tornata però al modello tradizionale.
Vediamo allora il POTERE DI RAPPRESENTANZA DEGLI AMMINISTRATORI NEL MODELLO TRADIZIONALE.


E’ importante distinguere, non confondere il:
 POTERE DI GESTIONE – che è il potere di decidere il compimento degli atti
 POTERE DI RAPPRESENTANZA – che è il potere di spendere il nome di un soggetto diverso

Se vediamo il MANDATO, vediamo che l’obbligo di curare gli interessi, cioè di gestire, la gestione degli interessi di un soggetto diverso può AGGIUNGERSI al mandato semplice di rappresentanza. Prima del ’42 si pensava che i due poteri fossero fusi, fossero uno solo, oggi invece sono ben distinti, sai nel diritto privato che nel diritto societario.
Può esserci quindi il potere di gestione senza la rappresentanza e il potere di rappresentanza senza il potere di gestione. Il potere di rappresentanza può esser anche attribuito a un lavoratore subordinato, per esempio.
Nelle società per azioni al distinzione non è sempre stata così netta, nel 1942 la disciplina della rappresentanza degli amministratori era articolata con un rinvio alla rappresentanza degli amministratori delle società in nome collettivo, dove gli amministratori compiono tutti gli atti salvo le limitazioni contenute nell’atto costitutivo.
Questo comporta due riflessioni:
1) Il potere di rappresentanza SEGUE il potere di gestione. In una società di persone il potere di spendere il nome della società spetta a chi gestisce. Nel silenzio del contratto sociale il potere di gestione spetta ai soci DISGIUNTAMENTE. Ogni socio può gestire e spendere il nome. Non c’è organo, non c’è ufficio, rappresentanza e gestione sono connessi.
2) C’è un limite al potere di gestione e conseguentemente al potere di rappresentanza: l’oggetto sociale è questo limite. E’ un limite al potere di gestione e dunque anche al potere di rappresentanza perché sono connessi (art. 2298 c.c.).
Da ricordare che è a carico del terzo accertare se il singolo atto posto in essere dall’amministratore sia inerente all’oggetto sociale, il cosiddetto GIUDIZIO DI INERENZA. Il giudizio di inerenza si fa quanto si deve stabilire se l’atto è funzionale o meno al raggiungimento dell’oggetto sociale. Per prima cosa bisogna andare a vedere l’oggetto sociale nello statuto, per operare questo giudizio di inerenza, ma bisogna tenere presente che un atto anche se non è espressamente menzionato nell’oggetto sociale potrebbe essere comunque inerente, o viceversa potrebbe non esserlo. L’onere di giudicare l’inerenza è quindi di difficile esplicazione, perché essendo di fronte a una attività di impresa significa essere di fronte a una serie enorme di atti coordinati per un fine. Ciò che rileva è la VALUTAZIONE IN CONCRETO della funzionalità dell’atto all’attività d’impresa, la sua strumentalità al raggiungimento del fine sociale. Quindi questo causa al terzo un una grande incertezza. Ad esempio la prestazione di una garanzia, è difficile stabilire se è un atto funzionale all’oggetto sociale o meno. Quindi l’oggetto sociale come limite al potere di rappresentanza e di gestione è pensato per società di piccole dimensioni, con un’attività d’impresa non complessa. Questa regola, se esportata nelle spa, non è agevole da applicare, in quanto come dicevamo ci sono migliaia di atti, migliaia di rapporti con i terzi.
Quindi si profila la necessità di una riforma, perché il richiamo all’art. 2298 non si era rivelato adeguato alle società complesse e di grandi dimensioni. Anche perché il terzo, di fronte all’incertezza, non compie l’atto, e c’è il rischio che si blocchi l’attività.
Per definire la riforma ci si è trovati di fronte a due impostazioni:
 Impostazione INGLESE – considera la società come se avesse una capacità giuridica LIMITATA all’oggetto sociale. Quindi il modello inglese considera incapace la società di compiere atti al di fuori dell’oggetto sociale. Questa impostazione guarda alla società come un SOGGETTO giuridico.
 Impostazione di tipo TEDESCO – considera la società una DISCIPLINA DI UN’ATTIVITA’, e il potere di rappresentanza non è limitabile all’oggetto sociale, deve essere generale, anche per la tutela dei terzi.
Il potere di rappresentanza degli amministratori delle spa ha avuto una evoluzione nel nostro ordinamento: prima è stata presa per buona la teoria inglese, del limite, poi infine è stata abbracciata invece la tesi tedesca. E si è arrivati a questa conclusione SGANCIANDO il potere di rappresentanza dal potere di gestione, con la conseguenza che i limiti al potere di gestione non sono applicabili al potere di rappresentanza.
L’occasione per il nostro ordinamento di determinare la disciplina del potere di rappresentanza passando al modello tedesco è stata il recepimento della iI direttiva comunitaria in materia societaria, del 1969. Va ricordato che la normativa comunitaria fino agli anni ’90 è stata molto influenzata dalla dottrina e dalla legislazione tedesca, negli anni successivi l’influenza è stata più da parte americana.
I punti di attacco della direttiva alla disciplina partono dall’art. 2384, che viene modificato, prima rimandava all’art. 2298, e distingue tra LIMITI LEGALI E CONVENZIONALI del potere di rappresentanza.
- Il vecchio art. 2384 prevedeva che gli amministratori compissero tutti gli atti, salvo le limitazioni previste dalla legge o quelle convenzionali previste dall’atto costitutivo e dallo statuto. Prevedeva poi che queste limitazioni anche se pubblicate, non fossero opponibili ai terzi, salvo che la società non provasse che i lterzo aveva agito intenzionalmente.
Il nuovo recepimento della diretti introduce il limite INSORMONTABILE per il terzo di eccepire al limite convenzionale, che impedisce che i soci delle spa possano limitare convenzionalmente il potere di rappresentanza degli amministratori.
Per esempio: un socio della snc limita le spese degli amministratori fino a 10.000 euro. Se un socio di una spa fa la stessa cosa e pubblica questo limite, pubblica questa modifica statutaria, il limite non può essere opposto a terzi, salvo il dolo, l’accordo fraudolento, del terzo.
Sono quindi INOPPONIBILI AI TERZI LE LIMITAZIONI CONVENZIONALI.
- Altro punto di attacco della direttiva è il nuovo art. 2384 bis, introdotto con il recepimento della direttiva. Prima c’era il principio per cui gli atti estranei all’oggetto sociale non sarebbero stati opponibili al terzo di buona fede. L’estraneità all’oggetto sociale non era opponibile ai terzi. L’art. 2298 fa gravare sul terzo l’onere di accertare l’inerenza, nella spa al terzo di buona fede non è opponibile l’estraneità dell’atto. Si agevola quindi la posizione del terzo.
L’oggetto sociale come limite al potere di rappresentanza ha ancora quindi una sua funzione.
Ripetiamo l’iter storico:
 Codice civile del 1942
 Direttiva comunitaria del 1969
 Riforma del 2003 – opera una definitiva cesura tra potere di rappresentanza e di gestione e confina l’oggetto sociale definitivamente al piano dei rapporti interni, vale a dire che l’oggetto sociale è ormai solo essenzialmente un limite del potere di gestione, non più un limite autonomo al potere di rappresentanza. Conserva significato di limite al potere di gestione.
L’art. 2384 bis con la riforma scompare, e compare invece l’art. 2380 bis, che dice che gli amministratori compiono le azioni necessarie al compimento dell’oggetto sociale. L’oggetto sociale come LIMITE con la riforma passa dal potere di rappresentanza al potere di gestione.
Prima quindi gli amministratori potevano compiere tutti gli atti inerenti all’oggetto sociale salvo i limiti DI LEGGE O DI STATUTO, con il nuovo art. 2384 oggi il potere di rappresentanza degli amministratori, attribuito dalla delibera di nomina è GENERALE, e NON LIMITABILE.
Con la riforma l’oggetto sociale limita solo il potere di gestione, il potere di rappresentanza è diventato GENERALE e non limitabile convenzionalmente, cioè con lo statuto, valgono solo le ECCEZIONI DI DOLO, ma è un caso pressoché impossibile.
L’oggetto sociale perde il suo ruolo di limite autonomo e degrada a limite convenzionale al potere di rappresentanza. Per convenzionale si intende previsto dallo STATUTO, e l’estraneità all’oggetto sociale è opponibile al terzo solo per DOLO, cioè solo si pone in atto un’azione intenzionalmente a danno della società, bisogna provare che il terzo ha agito a danno della società. L’estraneità all’oggetto sociale di un atto è praticamente indimostrabile, non provabile, il contenuto degli atti inerenti all’oggetto sociale è amplissimo.
Attenzione a non confondere la malafede con il DOLO, il quale PRESUPPONE la malafede, ma la malafede come concetto unico è solo la CONSAPEVOLEZZA, la conoscibilità del fatto che un atto possa danneggiare, evitabile e individuabile con un minimo di diligenza . Il DOLO invece è l’INTENZIONE, è la VOLONTA’ di fare danno, e la messa in pratica di un accordo a questo fine. La malafede è più facilmente dimostrabile del dolo. Ma ribadiamo il passaggio.
Dopo la prima direttiva in materia societaria l’art. 2384 bis definisce l’oggetto sociale come LIMITE AUTONOMO agli atti, e l’estraneità degli atti all’oggetto sociale è opponibile al terzo.
Con la riforma questo articolo scompare, l’oggetto sociale diventa un LIMITE STATUTARIO, opponibile al terzo solo provando che c’è il DOLO, cioè l’intenzione di danneggiare (nuovo art. 2384 secondo comma).

I limiti CONVENZIONALI quindi diventano opponibili solo se il terzo ha agito intenzionalmente in danno alla società. La distinzione tra limiti convenzionali (riportati nello statuto, e opponibili solo provando il dolo) e limiti legali al potere di rappresentanza (previsti dalla legge e opponibili quindi a qualsiasi terzo, indipendentemente dallo stato soggettivo) resta ferma.
Ma quali sono questi limiti legali? E come si concretizzano? Si concretizzano quando LA LEGGE VIETA IL COMPIMENTO DI UN ATTO. E se questo atto viene compiuto, il terzo non può eccepire la sua buona fede, perché in questo caso, e anche come legge generale, si sa che la legge non ammette ignoranza.
Vediamo qualche esempio di limite legale.
1) L’art. 2360 c.c. contiene il divieto di sottoscrizione reciproca tra società. Questo è un limite al potere di rappresentanza degli amministratori, i quali, se firmato un accordo del genere, il negozio è nullo.
2) Un altro limite legale si ritrova nell’art. 2361, secondo comma, dove la legge subordina un certo atto (l’assunzione di partecipazioni in società di persone, dove la responsabilità è illimitata) alla deliberazione assembleare o consiliare. Un amministratore delegato quindi non può farlo, non può sottoscrivere l’assunzione di queste partecipazioni senza l’autorizzazione dell’assemblea. La mancanza di delibera quindi, essendo prevista per legge, è opponibile a ogni terzo che abbia sottoscritto con l’amministratore l’atto di assunzione di partecipazioni. Per essere più chiari, se Tizio ha una quota in una snc, e l’Amministratore di Alfa Spa la acquista, senza che ci sia stata una delibera assembleare in tal senso, la società può opporre a T, il terzo, il fatto che l’atto non sia valido, anche se T era in buona fede perché come abbiamo detto la legge non ammette ignoranza.

Dalla disciplina del potere di rappresentanza degli amministratori della spa scaturisce la DISCIPLINA DEGLI INTERESSI, DEL CONFLITTO DI INTERESSI, e i limiti posti al potere degli amministratori è fatto sulla base proprio del conflitto di interessi. Vediamo come.
Cominciamo con un esempio. Se un amministratore delegato proprietario di un immobile vende questo immobile alla società, c’è conflitto di interessi.
La disciplina privatistica (artt. 1394 – 1395 c.c.) sul conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato viene applicata anche alle spa, per il conflitto di interessi tra amministratori e società, sugli atti compiuti dagli amministratori.
Come possiamo definire il CONFLITTO DI INTERESSI ? Il conflitto si configura quando la realizzazione dell’interesse del rappresentante (amministratore) LEDE l’interesse del rappresentato (società). Quando c’è incompatibilità. E questa incompatibilità, tra l’interesse degli amministratori e quello della società, si desume dall’art. 2475 ter, primo comma.
Art. 2475 ter- Conflitto di interessi – I contratti conclusi dagli amministratori che hanno la rappresentanza della società in conflitto di interessi, per conto proprio o di terzi, con la medesima possono essere annullati su domanda della società, se il conflitto era conosciuto o riconoscibile dal terzo.

L’articolo quindi, in tema di rappresentanza (nelle SRL9, consente che la società possa chiedere l’annullamento dell’atto nel caso in cui il conflitto fosse stato conosciuto.
Oggi il potere di rappresentanza è sì GENERALE, come abbiamo visto, ma ha limiti statutari e legali, in più è sottoposto alla disciplina del conflitto di interessi tra amministratori e società.
C’è una notevole differenza tra la disciplina dei limiti statutari e la disciplina dei conflitti d’interesse, sono due fattispecie diverse:
 ART. 2384, secondo comma regola le IPOTESI DI ECCESSO del potere di rappresentanza. Ad esempio se l’amministratore A non rispetta il limite statutario o legale, compie un atto in CARENZA di potere, non ha il potere per fare quell’atto.
 ART. 1394 regola invece L’ABUSO DI POTERE di rappresentanza, l’amministratore ha il potere per compiere degli atti, ma ne abusa, usa quel potere per un iteresse diverso da quello del suo rappresentato, cioè la società.
Chiudiamo il discorso sulla rappresentanza citando residui limiti al potere, che ribadiamo E’ GENERALE. In una spa può verificarsi una distinzione tra.
• ORGANO CHE DECIDE
• ORGANO CHE SPENDE IL NOME
Può capitare quindi che oltre all’organo che decide, il consiglio di amministrazione, ci sia un organo, un amministratore delegato, che spende il nome della società nei rapporti con i terzi, compiendo degli atti.
Cosa accade allora se compie gli atti senza la delibera del consiglio di amministrazione? Si considera questo un limite LEGALE (e nel caso quindi opponibile a qualsiasi terzo e in ogni caso) o un limite STATUTARIO (opponibile solo se si dimostra il DOLO).
Ci sono varie teorie. Spada per esempio ritiene che sia un limite LEGALE, perché il modello di amministrazione pluripersonale, corporativo, sarebbe per definizione collegiale, e quindi la dissociazione tra collegio CDA e potere di rappresentanza dei singoli amministratori, indicati nello statuto e/o nella delibera di nomina, è CO-ESSENZIALE all’organizzazione corporativa, cioè alla struttura LEGALE della società. Quindi essendo legato alla STRUTTURA LEGALE, questa teoria rende anche il limite LEGALE e di conseguenza opponibile a qualsiasi terzo.
Un’altra teoria considera invece questo limite come STATUTARIO. Questa teoria concorda con l’idea del modello collegiale ma dice che il conferimento del potere di rappresentanza è sempre frutto di una scelta dello statuto. Nel silenzio dello statuto o delle delibere, infatti, il potere di rappresentanza è inteso PER TUTTI, e TUTTI quindi dovrebbero partecipare agli atti. La dissociazione è frutto di una scelta statutaria e nel silenzio non ci sarebbe questa scelta, perché tutti quelli che possono gestire possono, nel silenzio, avere anche rappresentare. Questa seconda tesi è quella preferibile.


Entriamo ora nel dettaglio della RESPONSABILITA DEGLI AMMINISTRATORI. E in particolare affrontiamo ora i CRITERI DI VALUTAZIONE DELLA RESPONSABILITA’.
Una prima distinzione è quella relativa al soggetto legittimato a far valere la responsabilità, la cosiddetta LEGITTIMAZIONE ATTIVA. Possiamo distinguere la responsabilità:
1. VERSO LA SOCIETA’ – artt. 2392, 2393, 2393 bis (azione sociale)
2. VERSO I CREDITORI SOCIALI – artt. 2394, 2394 bis
3. VERSO I SINGOLI SOCI – art. 2395 (azione individuale)
4. VERSO I SINGOLI TERZI – art. 2395

RESPONSABILITA’ VERSO LA SOCIETA’
Il criterio di valutazione, per valutare la responsabilità verso la società, scaturisce dall’art. 2392 “gli amministratori devono adempiere ai doveri con la DILIGENZA richiesta dalla natura dell’incarico “. La DILIGENZA è quindi il criterio per valutare la responsabilità, e da questa discendono gli OBBLIGHI, che possiamo dividere in:
 OBBLIGHI GENERALI – individuati con la clausola generale che impone di gestire l’impresa con diligenza e lealtà, senza incorrere in conflitti di interesse. Duty of care and duty of loyalty. Il contenuto di questa categoria di obblighi non è specifico ma generale.
 OBBLIGHI SPECIFICI – qui invece la legge identifica con precisione il comportamento che deve essere tenuto dagli amministratori. Ad esempio l’art. 2446 c.c. obbliga gli amministratori a convocare l’assemblea quando la riduzione del capitale sociale per perdite va oltre 1/3 (un terzo) del capitale. Altro esempio è l’art. 2361, secondo comma, anche questo contiene un obbligo specifico.
La distinzione rileva anche sulla valutazione che deve fare il giudice sulla responsabilità degli amministratori. Anche qui è l’art. 2392 che indica il criterio di valutazione per il giudice della diligenza con cui gli amministratori devono operare “natura dell’incarico e delle loro specifiche competenze”.
Va ricordato che questo articolo è stato profondamente innovato dalla riforma del diritto societario. Prima c’era un richiamo alla diligenza del mandatario, come criterio di valutazione, oggi questo rinvio vale solo per le società di persone. Per valutare la responsabilità nelle società di persone si fa riferimento alle norme sul mandato.
Art. 2260 c.c. Della società semplice – Diritti e obblighi degli amministratori – i diritti e gli obblighi degli amministratori sono regolati dalle norme sul mandato”
Il primo comma dell’art. 2392 quindi, profondamente innovato dalla riforma, afferma un nuovo precetto, e distacca le società di capitali dalle società di persone, distaccandosi quindi dalle norme sulla diligenza applicata al mandato.
Vediamo più in dettaglio la differenza del tipo di diligenza.
 DILIGENZA DEL MANDATARIO – ART. 1710 – del buon padre di famiglia, concetto astratto, che si rivela inadeguato, anacronistico, per le spa, perché le società per azioni sono caratterizzate dal rischio, dall’incertezza del mercato, in ordine al merito delle decisioni. Gli amministratori nella gestione devono rischiare, proprio nell’interesse dei soci, per far crescere la società. Il buon padre di famiglia per definizione non può adottare una gestione rischiosa, la diligenza del buon padre di famiglia prevede una gestione conservativa, il padre non fa correre rischi. Adottare questo tipo di diligenza per la spa avrebbe allontanato il rischio, e quindi avrebbe allontanato l’interesse dei soci, avrebbe paralizzato la gestione della società, che invece deve essere dinamica.
 DILIGENZA secondo la natura dell’incarico e delle specifiche competenze – ART. 2392 nuovo – questo tipo di diligenza favorisce l’assunzione del rischio. Quando l’articolo parla di NATURA dell’incarico intende un criterio OGGETTIVO, il giudice infatti nell’affrontare la responsabilità di un amministratore, e valutare se un amministratore è stato o meno diligente, deve valutare la natura del suo incarico dal punto di vista oggettivo, l’attività della società e la sua COMPLESSITA’. Quando parla poi di SPECIFICHE COMPETENZE intende allora un criterio SOGGETTIVO di valutazione, per la responsabilità da attribuire agli amministratori nel compimento degli atti. E questo criterio impone al giudice di tener conto delle competenze per le quali i soci hanno nominato quello specifico amministratore. Per esempio: se il CdA valuta il rischio di un progetto, per esempio un ponte, e coinvolge diversi soggetti, un ingegnere, un architetto, un avvocato, e poi sbaglia nella valutazione, il giudice deve distinguere le diverse posizioni dei soggetti, e le specifiche competenze di ognuno nella valutazione del progetto. Il giudice deve tener conto del livello di PROFESSIONALITA’ dei singoli amministratori.

Dopo i criteri di valutazione, vediamo ora I CRITERI DI RIPARTIZIONE DELLA RESPONSABILITA’ DEGLI AMMINISTRATORI.
Art. 2392 - …omississ … “Gli amministratori sono solidamente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri, a meno che si tratti di attribuzioni proprie del comitato esecutivo…”
Gli amministratori quindi rispondono SOLIDALMENTE verso la società, salvo attività attribuite in concreto ad alcuni di loro. La solidarietà è intesa in due modi, a seconda che si guardi dal punto di vista privatistico o dal punto di vista societario.
LA SOLIDARIETA’ nel diritto privato comune attiene al piano delle OBBLIGAZIONI, di fronte alla pretesa creditoria i co-obbligati sono responsabili PER INTERO verso i creditori. Caso mai poi internamente si ripartisce, o si agisce in regresso sugli altri.
LA SOLIDARIETA’ nell’ambito della responsabilità degli amministratori attiene al piano del CONCORSO NELL’ILLECITO GESTORIO. Il singolo amministratore può sottrarsi alla solidarietà, cioè sottrarsi alla responsabilità solidale, provando di non aver concorso alla decisone, all’atto posto in essere. Rispondono sì tutti per intero, ma ognuno per quanto ha gestito.
L’articolo 2392 infatti al terzo comma prevede che la responsabilità NON SI ESTENDA a quello che abbia dichiarato il proprio dissenso. La responsabilità qui NON E’ OGGETTIVA, o per fatto altrui, è PER FATTO PROPRIO.
E qui viene fuori il discorso sulla DELEGA DEI POTERI GESTORI. Se il consiglio di amministrazione ha delegato uno o più componenti si modifica il titolo, il profilo della responsabilità, salvo che IN CONCRETO non sia stata fatta una delega.
La responsabilità diventa allora PER OMESSA VIGILANZA. Ma entro quali termini. Risponde l’art. 2392 secondo comma.
Prima della riforma la legge, per la questione della delega dei poteri gestori, poneva a carico degli amministratori deleganti un obbligo di vigilare sul generale andamento della gestione. Ma questo testo ha dato grandi problemi. Sulla base di questo testo è stata imputata agli amministratori deleganti una responsabilità oggettiva, quindi veniva imputato sistematicamente ogni illecito. Ad esempio: ci si trova di fronte ad una insolvenza della società, causata da un amministratore delegato, il quale non ha dato debite informazioni al consiglio di amministrazione delegante. Il cda quindi in sede di attribuzione di responsabilità si difende dicendo che non è stato informato, ma il Tribunale a questo punto, prima della riforma, sulla base del testo che prevede l’obbligo di vigilare sul generale andamento gli oppone proprio il fatto di non aver vigilato. Anzi la ritiene una confessione (dichiarare qualcosa che ti porta svantaggio). Il tribunale attribuisce al Cda una violazione del dovere di vigilanza. L’esito dell’orientamento giurisprudenziale, fino alla riforma, è stato quindi creare questa responsabilità oggettiva, che prescinde da colpa propria, come ad esempio quella dei genitori con i figli.
La riforma reagisce a questo stato di cose, e riporta la responsabilità dei deleganti a una RESPONSABILITA’ PER FATTO PROPRIO, non per mancata vigilanza. E gli amministratori “in ogni caso, (anche in presenza di una delega,) fermo quanto disposto dal comma terzo dell’art. 2381, sono solidalmente responsabili se essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli non hanno fatto quanto potevano per impedirne il compimento o eliminarne o attenuarne le conseguenze dannose”.
La differenza sostanziale è proprio in questo rimando al terzo comma dell’art. 2381, quindi anche in presenza di una delega “Sulla base delle informazioni ricevute valuta l’adeguatezza dell’assetto organizzativo…..” e il generale andamento. L’art. 2381 prevede infatti che gli organi delegati, gli amministratori informino il consiglio di amministrazione nei termini stabiliti dallo statuto e in ogni caso ogni sei mesi.
La responsabilità dei DELEGANTI dopo la riforma quindi cambia molto. In presenza di una delega (TIPICA) il nuovo sistema prevede che gli amministratori delegati informino il CDA sul generale andamento, il CdA quindi dovrà valutare l’andamento sulla base di questa relazione informativa prevista dall’art. 2381. Il nuovo sistema circoscrive la responsabilità del CDA, e limita il dovere di vigilanza, prima generale, alla relazione, limita il dovere di vigilare alle informazioni ricevute, quindi il CDA non risponde più dell’illecito gestorio in generale, risponde solo se le informazioni erano lacunose o manifestamente erronee. E per manifestamente si intende che chiunque se ne sarebbe potuto rendere conto. La responsabilità dopo la riforma per il CDA è quindi CIRCOSCRITTA.
Come dicevamo questa limitazione opera solo in presenza di una delega TIPICA, con una delibera dei soci ( e infatti l’art. 2381 regola solo quell e, l’art. 2392 parla di “funzioni in concreto attribuite”). In presenza di una delega ATIPICA, interna, la responsabilità si trasforma e si trasforma nuovamente in culpa in vigilando. Ma è in questo caso proprio un diverso modo di valutare. Comunque solo in presenza di delega TIPICA la vigilanza è circoscritta alle informazioni fornite dai delegati al consiglio di amministrazione.
Se la delega è ATIPICA la vigilanza è invece GENERALE, torna ad essere responsabilità per omessa vigilanza sull’operato IN GENERALE, come era prima della riforma, il dovere di vigilare si RIESPANDE, quindi il delegante ha il DOVERE di informarsi sull’operato in generale, non può fermarsi alle informazioni che il delegato gli fornisce.
La responsabilità verso la società è una RESPONSABILITA’ CONTRATTUALE, nasce cioè dalla violazione del rapporto di amministrazione, del contratto di gestione. Vediamo la distinzione tra contrattuale e extracontrattuale, per quanto riguarda in particolare l’onere della prova.
RESPONSABILITA’:
• CONTRATTUALE – l’onere della prova grava su chi AGISCE in giudizio. Inoltre è diverso il termine di prescrizione.
• EXTRACONTRATTUALE – è necessario provare l’illecito e anche il dolo o la colpa.

RESPONSABILITA’ degli amministratori della Spa VERSO I CREDITORI SOCIALI – art. 2394 c.c.
Non essendoci un rapporto diretto, un contratto, tra gli amministratori e i creditori sociali (che il contratto lo hanno con la società, non con i singoli amministratori), potrebbe sembrare configurarsi una responsabilità extracontrattuale, per esempio una responsabilità da NEMINEM LEAEDERE. Ma la responsabilità contrattuale in realtà non si configura solo per violazioni di obblighi contrattuali, negoziali, ma anche per obblighi pre-esistenti. Quindi la responsabilità degli amministratori della spa verso i creditori sociali si può considerare CONTRATTUALE perché gli amministratori hanno degli obblighi di conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, anche nell’interesse dei creditori sociali, quindi con le ricadute della loro attività vanno a intaccare un obbligo contrattuale verso i creditori, e nasce la responsabilità contrattuale dalla violazione di obblighi di legge pre-esistenti.
Ad esempio: se gli amministratori falsificano il bilancio, e mostrano utili inesistenti, si configura una violazione della responsabilità contrattuale. I creditori certo a questo punto agendo in giudizio devono provare la violazione, e gli amministratori poi devono in caso provare l’assenza di colpa.
L’azione di responsabilità dei creditori sociali verso gli amministratori è un’azione AUTONOMA, cioè che si attiva indipendente da quella società, o è un’azione SURROGATORIA?
E’ un loro diritto agire verso gli amministratori oppure si surrogano alla società?
AZIONE SURROGATORIA - Prevista dall'articolo 2900 del codice civile, è un mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale, che consiste nel potere del creditore (surrogante) di sostituirsi al debitore (surrogato) nell'esercizio di diritti che quest’ultimo vanta verso terzi e che trascura di far valere.
Non è quindi una azione giudiziaria del creditore verso il terzo, ma un potere sostitutivo (fondato su una “legittimazione sostitutiva": GIAMPICCOLO). La surrogatoria ha i seguenti presupposti: credito del surrogante, inerzia del debitore nell'esercizio dei propri diritti verso i terzi, pericolo d'insolvenza del debitore stesso. La surrogatoria può avere per oggetto i diritti di credito ed i diritti potestativi del debitore, di contenuto patrimoniale e non strettamente personali. Essendo un mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale, la surrogatoria mira a mantenere, nel patrimonio del debitore, beni sufficienti per l'adempimento: a tal fine il creditore può agire verso i terzi oggetto di pretesa da parte del debitore inerte per acquisire al patrimonio di costui risultati economicamente utili (mira cioè ad ottenere un risultato che può essere acquisitivo, rafforzativo, accertativi, preventivo, cautelare).
Non c’è in realtà una risposta secca, definitiva, a questa domanda.
Se la considerassimo SURROGATORIA (far valere il diritto di un altro soggetto), e se i creditori quindi facessero agli amministratori la stessa azione che farebbe la società, le conseguenze sarebbero:
a) Il risarcimento del danno va a beneficio della società. Il risarcimento ipotesi di 100.000 euro ottenuto dall’amministratore andrebbe nel patrimonio della società. E questa è ovviamente una differenza rilevantissima.
b) Per quanto riguarda le eccezioni opponibili degli amministratori convenuti, questi possono eccepire ai creditori le stessi eccezioni che avrebbero potuto eccepire alla società.
Sarebbe meglio considerarla una azione AUTONOMA, questa è la tesi preferibile, perché:
a) Il risarcimento andrebbe ai creditori
b) Si configurerebbero diversi obblighi, ci sarebbe diverse funzioni della responsabilità, che sono:
Verso la società – ci sarebbe il presupposto che gli amministratori non abbiano gestito l’impresa in modo lucrativo, non abbiano curato l’interesse dei soci.
Verso i creditori – ci sarebbe il presupposto che gli amministratori non abbiano gestito l’impresa in modo conservativo, non abbiamo curato l’integrità del patrimonio, nell’interesse dei creditori.
c) L’art. 2394 bis – disciplina le azioni di responsabilità previste nelle procedure concorsuali. Se l’azione fosse surrogatoria l’articolo si sarebbe limitato all’azione sociale, invece distingue le azioni, e dice che il curatore distingue tra azione SOCIALE E DEI CREDITORI SOCIALI.
Sono azioni distinte, quindi, diverse, autonome, anche perché hanno un diverso termine di decorrenza per la prescrizione, vedi art. 2393, quarto comma (l’azione può essere esercitata entro 5 anni) e art. 2949 c.c. Essendo diversi può succedere che in un dato momento una azione sia prescritta e l’altra invece no, visto che hanno termini di decorrenza di versi. Le azioni sono decisamente diverse, e da considerarsi autonome.
• Per la responsabilità verso la società – il termine di decorrenza coincide con la data di cessazione della carica di amministratore.
• Per la responsabilità verso i creditori – per il termine di decorrenza vale il principio generale, parte dal momento in cui il diritto può essere fatto valere. In questo caso specifico quindi il momento in cui il patrimonio è divenuto insufficiente, a danno dei creditori, in conseguenza dell’illecito degli amministratori.