venerdì 5 settembre 2008

Filosofia Teoretica

Filosofia 30 ottobre

La filosofia è una vera e propria scienza perché nello svolgerla è richiesto metodo, rigore, ricerca della verità. Il filosofo è differente dallo scienziato il quale indaga solo le cause di un determinato fenomeno, ma non la causa prima. Il filosofo non prescinde dalle conoscenze scientifiche poiché staccarsi da queste significherebbe allontanarsi dalla realtà e creare quindi solo un sistema mentale che non ha alcuna base reale. Aristotele definisce la filosofia come “la scienza dei primi principi e delle prime cause”. Questo perché la filosofia non si limita ad un determinato fenomeno circoscritto, ma aspira a comprendere la realtà nella sua profondità, fornendo una soluzione al senso della vita. Tutte le correnti filosofiche cercano di dare una risposta al quesito primo, cercano di dare un senso alla vita, assegnando alla vita un valore. Max Scheler dichiara che “il problema dell’essere è il problema primario della filosofia, mentre il senso della vita è il problema della religione”. Lo stesso Scheler aggiunge che “nel momento in cui ci poniamo queste domande al tempo stesso affrontiamo il significato dell’essere e della vita”. Chiedersi sulla vita sembrerebbe essere un mera speculazione filosofica, eppure è un’azione che tutti si accingono a compiere durante la propria vita. Monod dice che “tutto è un caso”. Ma ciò è in disaccordo con la frase precedente. Se l’uomo fosse un caso avrebbe motivo di riflettere su se stesso.

È possibile quindi accorgersi che la filosofia è lontanissima dall’astrazione.

Se dico di conoscere la verità ho un sistema morale.

Se dichiaro di non conoscerla ho un sistema morale (?) soggettivistico, relativistico, individualistico.

La filosofia è un’attività prettamente umana. Fichte cita: “La filosofia che uno ha dipende da che uomo è”.

L’uomo è completamente immerso nella dimensione del limite; il suo rapporto col tempo è condizionato dalla nascita e dalla fine. D’altronde Blaise Pascal fa notare che “l’essere umano è una realtà fragilissima”; basta una microscopica disfunzione per distruggere l’intero sistema. Bisogna però mettere in evidenza che sebbene l’uomo sia fisicamente e cronologicamente finito, ciononostante riesce a pensare all’infinito. L’uomo, in quanto tale, ha al suo interno, come scolpite nell’anima, le domande esistenziali. Riflette su Dio, riflette sull’universo, riflette sull’anima, ma infondo riflette sulla stessa cosa. Non è spiegabile come un essere finito rifletta sull’infinito. Questo perché l’uomo non è solo un insieme di cellule, ma contiene qualcosa di più, l’anima.

Il problema della conoscenza è una riflessione filosofica sorta già in età classica. Il giuramento di Ippocrate (scritto a Cos nel V° sec a.C.) non era un mero testo medico, ma anche filosofico. Per l’umanità è stato del tutto normale e direi quasi istintivo porsi queste domande (anche ovviamente prima di Cristo); questo significa che la riflessione sulla conoscenza non è legata alla religione.

Da Kant in poi inizia un’aggressione alla metafisica che si prolungherà per tutto il Novecento. Ad egli si sono affiancati pensatori che dicevano che non si può fare filosofia con le categorie della metafisica. La filosofia del Novecento ha ritenuto che si dovesse fare filosofia senza interessarsi di metafisica. Ma dal momento in cui la filosofia tenta di rispondere alle “cause incausate”, interessarsi di filosofi significa indirettamente anche interessarsi di metafisica. Chi oggi contesta la metafisica rende la filosofia una disciplina specialistica, partendo dal presupposto che non può dare spiegazioni a tutto. Il demiurgo (chi plasma) non è una causa ultima, ma non spiega tutto.

In realtà ciò che ci circonda è di una complessità incredibile. Poniamo come esempio una macchina da lavoro. La osservo e immagino che non sia nata dal nulla, attraverso varie casualità, ma che sia stata progettata e realizzata da qualcuno. Figurarsi un animale; figurarsi l’uomo.

Riflessione sulla lettura Lapo Elkann

Purtroppo ciò che viene detto sui manager è tipico anche di altre professioni. Se spoglio un professionista delle sue competenze e della sua eticità, ciò che rimane uguale per tutti è la caratteristica “uomo”. Bisogna evitare di correre il rischio che raggiungere la realizzazione lavorativa faccia uscire dal significato della vita. La soddisfazione dell’essere umano non deriva dalla fruizione di un mio desiderio. Chi realizza se stesso non vuol dire che sia felice. C’è perciò l’ambivalenza della persona umana. Sembrerebbe che egli non sia un buon manager, a causa di ciò che fa, eppure in ambiente lavorativo è un ottima guida.

Filosofia 3 novembre

Riassumendo i punti della passata lezione si è giunti a diverse conclusioni:

- la società prima accusa ma poi assolve e giustifica

- c’è una diffusa deresponsabilizzazione

- è necessario ricercare il senso della vita (tema della religiosità, e non solo)

- fragilità dell’uomo postmoderno

- fiducia nel maghi e fattucchiere ( e nella superstizione, nella scienza, nel positivismo)

In apparenza ne fanno ricorso persone poco preparate, ma guardando bene invece notiamo che sono forti manager di grandi industrie. La scienza non riesce quindi ad allontanare gli uomini dalla superstizione. Avere estrema fiducia nella scienza ed allontanarsi sa Dio, svuotando il cielo di Dio, riempie al contrario l’uomo di idoli, e per questo l’uomo si abbandona alla superstizione. Eppure nasce nell’uomo ed è sempre nata inconsciamente la necessità di credere a qualcosa.

Il concetto di dipendenza è strettamente legato a quello di Libertà. O nessun uomo è libero (e quindi non ha senso parlare di dipendenza) o è possibile essere libero (e quindi c’è dipendenza). Se l’uomo non fosse libero nel sarebbe nemmeno responsabile. L’accezione di libertà dell’uomo può essere vista in due momenti:

- la potestà, o libero arbitrio (che è un livello che non soddisfa mai l’uomo) e può portare l’uomo a gesti definiti cattivi

- la libertà che coincide con la verità (che tende verso il bene)

L’uomo non è libero in quanto ha potere di scegliere. Se crediamo che la libertà sia solo una potestà, si finisce per diventare schiavi del facile, del piacere, dell’ozio. La libertà si realizza quando l’uomo agisce per il suo bene e quello degli altri. Non c’è libertà senza verità.

Altro concetto importante è quello della giustizia. Per giudicare è necessario avere dei criteri, cioè ammettere che esistono cose oggettive (verità). Si nota una forte contraddizione della società, che prima accusa e poi giustifica, che non consente errori, ma solo per quanto riguarda l’efficienza professionale.

Questa società oltremodo esigente ha inoltre rimosso il concetto di peccato. L’errore è uno sbaglio ma non per forza morale.

Anche quella che si definisce informazione tende ad una superficialità vergognosa, evitando sempre di porre domande. Cancellato il concetto di peccato, la società ha tolto di mezzo anche il perdono. Molta gente oggi ha problemi perché non ha più una ricchezza di valori alla base. Sono caduti i punti di riferimento. Viviamo oggi un’unica pars destruens di valori alla quale non segue mai una construens. I mass media di oggi hanno smontato ogni valore della società eliminando anche il Limite.

Ormai non esiste più il senso del limite. Si vive piuttosto in un periodo di ubriacatura di libertà. Bisogna tornare a dare il giusto peso alle cose, riappropriandosi dei criteri e dei metri di giudizio.

È ben visibile una razionalità parziale, ovvero un’applicazione parziale nell’uso della ragione. Ogni giorno è vissuto non nell’insieme dei giorni che compongono l’arco della vita, ma è visto solo singolarmente.

Ad hoc è l’esempio di due uomini che spaccano delle rocce. A entrambi viene chiesto cosa fanno. Il primo risponde che sta rompendo dei massi, ma il secondo risponde che sta costruendo una cattedrale. Entrambi compiono una stessa cosa, ma fatta con spirito del tutto diverso e con progetti di vita antitetici.

Filosofia Nov 13

Recuperiamo la sintesi sull’articolo di Lapo Elkan. Leggendo questo articolo sono emersi una serie di fatti che richiamano direttamente a dei concetti tipici dell’indagine del filosofo. Abbiamo

scoperto che leggendo un articolo ci si imbatte nel problema della libertà, della verità, del bene e del male morale, della giustizia, della responsabilità. In quell’articolo ci sono altri elementi come quello di razionalità parziale, di cui si discuteva nel passaggio in cui il dottor Celli diceva che: “Quanto la razionalità è applicata solo in alcuni settori della vita magari anche in maniera impropria spesso ci si trova spiazzati”. Questo richiama al fatto che questa società tende ad essere frammentaria, un po’ schizofrenica, per cui, ad esempio, nell’ambito dell’esercizio della professione c’è una forte avvertenza del problema deontologico, cioè del rispetto di un insieme di principi e di regole che infondono quella professione. Così quando entrerete nel mondo del lavoro scoprirete che c’è questa preoccupazione, anche un po’ maniacale, sul rispetto di certe regole nell’ambito dell’esercizio della professione. Una preoccupazione che però i inserisce in un quadro generale della nostra società nel quale non vi è altrettanta attenzione al problema della morale, quindi questo crea una situazione che come dice Celli è schizofrenica, di razionalità parziale. Sul lavoro devo rispettare certe regole, devo rispettare certi principi, ma nello stesso tempo poi non è così vero che esista una morale condivisa, che esista un bene o male in senso oggettivo. Questo crea un problema all’uomo, perché l’uomo chiederebbe di confrontarsi con un sistema morale coerente, e invece l’idea che esista una moralità professionale, e che poi fuori dalla professione tutto in un certo senso è lecito. Questa idea, che è fortemente presente nella nostra società e che è di radice essenzialmente protestante, chiaramente rappresenta un problema.

L’altro argomento interessante è quello del progetto. Ci eravamo fatti una domanda: hai un progetto per la tua vita? Secondo Celli il problema di questi comportamenti devianti è che spesso oggi l’essere umano non ha un progetto di vita, cioè ha delle idee che vuole perseguire, ma non ha una visione di insieme della propria esistenza, cioè non ha cercato di affrontare seriamente il problema del “perché vivo”, e quindi non conosce anche lo scopo e il senso di perché questa mattina vado in ufficio piuttosto che andare a lezione all’università. Lampante è l’esempio dei due lavoratori che rompono le pietre. È diverso sapere che quel gesto fa parte di un progetto molto più grande piuttosto che compiere lo stesso gesto ogni giorno di continuo, come ci capita tutti i giorni di venire in ufficio o all’università, ma non avere un perché. C’è stato un grande psicologo, Victor Frankl, che è stato il padre di una particolare branca della psicologia, la logoterapia. Frankl era ebreo ed è stato deportato nei campi di concentramento nazisti. (ha scritto: “Uno psicologo nei lager”)

Questo psicologo durante il nazionalsocialismo venne arrestato e deportato in un campo di concentramento. Lì ebbe modo di constatare una verità, che tra l’altro era supportata anche da Nietzsche. Disse cioè che molte persone non ce la facevano a sopravvivere, perché o venivano uccise o morivano di inedia, di stenti, perché le condizioni di vita erano molto difficili. Ma Frankl aveva notato che le persone che avevano più possibilità di sopravvivenza erano le persone che avevano un perché. Le persone che riuscivano ad affrontare la tragedia di una condizione come questa avendo un senso alla propria vita, quindi un senso anche per il proprio soffrire. Purtroppo le persone che non avevano questa forte motivazione a un senso della propria vita erano più facilmente esposti a una fine tragica. Ovviamente questo non vuol dire che chi ha un perché può vincere ogni sfida, ma vuol dire, come dice anche Nietzsche, che chi ha un grande perché può sopportare qualsiasi condizione dell’esistenza. Anche il problema del soffrire, che è un problema antico come l’uomo, il problema della sofferenza, del perché esiste il male nel mondo, è una questione che l’uomo può affrontare e che deve affrontare inevitabilmente ma che gli pone un questione non tanto di come affrontarlo, ma perché affrontarlo, cioè qual è la ragione per cui vale la pena vivere, anche se la vita è fatta di sofferenza.

Oltre a questa considerazione richiamiamo il passaggio dell’intervista in cui si dice: “Nei giovani vedo la voglia di una nuova ricerca di senso. I giovani chiedono che la scuola e l’università tornino a fornire punti di riferimento, prospettive di futuro, insegnare a costruire passioni.” Abbiamo parlato del significato delle passioni. Le passioni sono importanti quando sono orientate verso il bene. Le passioni costituiscono un problema per l’uomo quando tendono a dominarlo, e quindi a travolgere la sua razionalità, la sua capacità di esercitare una responsabilità consapevole, però nello stesso tempo nell’intervista non viene dato fortunatamente un giudizio totalmente negativo alle passioni, perché sarebbe un errore. A volte capita che diciamo che ci si è lasciati vincere dalle passioni: questo è vero e può capitare. Però in realtà le passioni ben orientare sono ciò che riempiono la vita anche di quelle energie e di quella voglia di fare. Quindi la passione non è un fatto negativo. Anche dal punto di viste delle sfide professionali questa manager dice che i giovani chiedono all’istruzione i essere aiutati a riempire la loro vita di passioni verso qualcosa di buono. La grande risorsa che i giovane ha rispetto a chi non è più giovane è proprio prendere le cose sul serio perché ci si appassiona. Purtroppo col passare degli anni a volte subentra il disincanto, subentra un certo cinismo. Ci si dice che ormai si è capito come va la vita. Ma questo è molto sbagliato.

Questi sono i temi che abbiamo richiamato leggendo e commentando questa intervista.

Torniamo adesso al discorso della metafisica. Adesso c’è un’aggressione che il pensiero occidentale ha scatenato nei confronti della metafisica nel ‘900, soprattutto nella seconda parte del secolo. La ricerca metafisica, cioè il fare filosofia in una prospettiva metafisica, comporta da parte del filosofo, da parte dell’uomo, il tentativo di confrontarsi con l’assoluto. La metafisica si caratterizza per questo atteggiamento estremamente rigoroso e impegnativo. Parte dalla considerazione che la realtà che noi possiamo osservare e dalla quale dobbiamo partire per fare filosofia è una realtà che non si spiega da sola. Le cose che ci circondano, le persone che incontriamo tutti i giorni e quelle che amiamo, e perfino noi stessi, esistiamo, siamo davanti alla nostra ragione, possiamo essere oggetto di riflessione e di analisi, ma non siamo in grado di spiegarci da soli, né possiamo spiegare tutto quello che vediamo se non ricorrendo a qualcosa di altro, di ulteriore. Come facciamo a distinguere ciò che è assoluto da ciò che è relativo? Il criterio molto banale è caratterizzato da questa capacità di spiegarsi, di giustificare se stesso. Ciò che non è in grado di giustificare la propria esistenza, di motivarla, è una realtà in qualche modo relativa. La volta scorsa abbiamo fatto l’esempio di macchinari molto complessi e i siamo resi conto che questa complessità rinvia a qualcosa o qualcuno che l’ha realizzata e prodotta. Quindi l’apparecchiatura che noi osserviamo, per quanto bella e affascinante non è sufficiente per spiegare se stessa. Lo stesso accade anche osservando l’essere umano. Anche l’uomo è una realtà complessa e meravigliosa anche da un punto meramente biologico-materiale. Lo studio di un essere umano rende manifesta la difficoltà estrema e inimitabile che caratterizza l’uomo. Tuttavia questa complessità non si spiega in se stessa, cioè l’uomo non si è fatto da solo. Ognuno di noi non s’è fatto da se. Questo atto rimette in gioco davanti alla nostra intelligenza il problema dell’assoluto, cioè il problema di capire donde vengano le cose che vedo. Sull’assoluto però, cioè su quella realtà diversa da tutte queste che abbiamo visto, diversa perché dovrebbe avere la caratteristica che non ha bisogno di ricorrere a qualcos’altro per spiegare la sua esistenza. Questo è l’assoluto. Come l’uomo può indagarlo? Cosa l’uomo può dire sull’assoluto oltre a ciò che abbiamo detto, cioè che ha la caratteristica di spiegarsi da sé. Su questo punto i filosofi hanno dato risposte molto differenti fra loro. Possiamo distinguere per comodità due grandi filoni di pensiero che possiamo chiamare “metafisica dell’immanenza” e “metafisica della trascendenza”. Vediamo in che senso si può configurare questa distinzione: secondo i pensatori che si muovono all’interno della metafisica dell’immanenza, l’assoluto è il mondo dell’esperienza. Immanenza perché questi pensatori hanno ritenuto di individuare l’assoluto all’interno del mondo stesso dell’esperienza. Quindi in qualche modo secondo questi pensatori la realtà che ci circonda può comunque spiegare se stessa. È dentro la realtà che noi troviamo una spiegazione della realtà stessa. Detto in altre parole, il principio di realtà, quello che i greci chiamavano Arch, è dentro nel mondo, fa parte del mondo. Qualche esempio di queste metafisiche dell’immanenza: Hegel, che con tutta la sua monumentale architettura di stampo idealistico individua l’assoluto all’interno della realtà, all’interno del mondo; il filone del pensiero marxista, cioè Marx e i suoi epigoni si confronta con il problema dell’assoluto e dà una risposta che individua l’assoluto all’interno della realtà. Potremmo quindi ulteriormente distinguere all’interno delle metafisiche dell’immanenza delle metafisiche di stampo idealistico, per esempio Hegel, e delle metafisiche di stampo materialistico, e quindi Marx e tutti gli autori che al marxismo si rifanno o che in qualche modo a questo filone ricolleghiamo, come per esempio Feuerbach. La caratteristica comune a tutti questi pensatori è che l’assoluto è riconosciuto all’interno della realtà. La realtà trova la sua spiegazione al suo interno. A questa categoria si contrappone quell’ambito, quel gruppo di pensatori che abbiamo ricollegato alla metafisica della trascendenza. Trascendenza perché secondo questo gruppo di autori l’assoluto è differente, è altro dal mondo dell’esperienza. Quindi per esempio Aristotele è certamente un pensatore da ricollegare all’interno di questo ambito. La spiegazione della realtà non è dentro nella realtà, nell’esperienza che noi vediamo, va ricercata altrove. Ecco perché trans-scendenza. Platone va inserito all’interno di questo ambito. Aristotele, Platone, Tommaso d’Aquino sono pensatori della trascendenza perché ritengono che l’assoluto non si ritrovi all’interno dell’esperienza ma sia altro, diverso rispetto all’esperienza. Quando si fa una catalogazione si cerca di creare due ambiti di riferimento e le classificazioni sono contestabili. Anche tra i pensatori che abbiamo citato esistono delle sfumature che tendono a portarli tra i due ambiti. Quello che ci importa rilevare è l’esistenza del problema metafisico come problema della filosofia, cioè tutti i filosofi, anche quelli che negano la metafisica, devono confrontarsi con questo problema. Anche quelli che hanno portato alle estreme conseguenze questa riflessione (Marx, padre del materialismo storico, Hegel) hanno bisogno di un assoluto, di una metafisica, nel senso anche che sottolineava Celli nell’articolo, cioè che l’uomo ha bisogno di punti di riferimento. Questa esigenza, che è un’esigenza antropologica, cioè non è frutto di una sovrastruttura ma è inscritta nell’uomo, può trovare una risposta o all’interno di un pensiero metafisico articolato di tipo classico, per cui l’assoluto è al di fuori della realtà, è oltre la realtà, è oltre l’esperienza, anche se quest’assoluto si rivela attraverso l’esperienza, anche perché io non ho una percezione diretta e immediata di questo assoluto. Invece il pensiero filosofico che in fondo ha lavorato per negare la metafisica poi è stato costretto volente o nolente a costruire degli assoluti alternativi. Ecco perché le esperienze politiche generate del pensiero marxista sono delle esperienze che hanno generato degli assoluti immanenti: il partito, il bene di classe, il popolo, la classe prevalente. L’uomo affida comunque la sua vita ad una prospettiva assoluta, anche se è un assoluto immanente, come è nella prospettiva del pensiero materialista. La metafisica è stata contestata radicalmente, ci sono stati pensatori del novecento che hanno tentato di costruire una filosofia senza metafisica. Una delle obiezioni principali all’esistenza della metafisica e al fatto che il filosofo si debba occupare di metafisica è che l’essere umano nella sua intelligenza non è in grado di costruire una metafisica perché non è in grado di uscire dal mondo dell’esperienza. Cioè noi possiamo conoscere ciò che ci circonda, quello che vediamo e che tocchiamo, quello che sperimentiamo attraverso i nostri sensi e quindi se la nostra ragione ha queste caratteristiche se ne dovrebbe dedurre secondo questi autori che la metafisica ci è preclusa, non è alla portata della nostra ragione. Pensatori di questo tipo potrebbero essere definiti come agnostici, cioè come autori che dicono che esiste una realtà, che questa realtà è una realtà sperimentale e sperimentabile, che noi non sappiamo se oltre a questa realtà c’è qualcos’altro, quindi se questa realtà è il tutto oppure soltanto una parte di qualcosa di più complesso e più articolato, ma siccome ignoriamo la risposta a questa domanda, e la ignoreremo sempre (cioè non è che la ignoriamo adesso perché siamo in un particolare momento storico, ma in quanto uomini non sapremo mai dare una risposta precisa a questa alternativa, cioè la realtà dell’esperienza è tutto oppure la realtà dell’esperienza è solo una parte di qualche cosa di più ampio e di più complicato) allora siccome le cose stanno così è come se sospendessimo il giudizio e ci limitiamo a dire che non sappiamo. Perché non è dimostrabile se oltre alla realtà esperienziale c’è dell’altro. Questi pensatori li abbiamo definiti degli agnostici. Talvolta sono definiti anche degli immanentisti ma non è corretto perché l’immanentista, come abbiamo visto prima, è uno che colloca l’assoluto all’interno della realtà. L’agnostico è su una posizione più dubitativa, più sospesa. Predica anche il fatto che all’uomo questa condizione sta bene, cioè l’uomo prende atto che non può saperlo e non se ne dà cura e quindi anche il filosofare non deve perder tempo con queste cose. In realtà il problema è che all’uomo questa conclusione non lo soddisfa. La ragione umana non è soddisfatta di dire “pazienza, non lo sappiamo, vabbè, tanto la mia vita non cambia”. In realtà non è così. Questo è uno dei punti deboli di questo tentativo agnostico di mettere in un angolo il problema metafisico. Non solo, ma questo atteggiamento scardina alla radice stessa il fare filosofia, cioè se si rinuncia ad affrontare questo problema in un certo qual modo si rinuncia a fare filosofia stessa. Ciò lo vediamo attuato in questa società postmoderna nella quale la filosofia in senso classico è stata fortemente ridimensionata e tendenzialmente è in atto un procedimento di sostituzione della filosofia con le scienze positive. C’è la tendenza a ritenere che la conoscenza della realtà debba essere affidata esclusivamente alle scienze sperimentali, empiriche, galileiane. Quando si fa una critica al positivismo, non si intende disconoscere il fatto che le scienze sperimentali permettano di conoscere la realtà, perché questo sarebbe un errore, anche perché le scienze sperimentali ci permettono di conoscere meglio la realtà, anzi ci permettono di fare meglio anche filosofia, perché se io devo come filosofo devo interrogarmi sulla dignità dell’essere umano in diverse fasi della sua esistenza, per fare questa riflessione, ha bisogno del contributo delle scienze sperimentali, perché il filosofo in quanto tale, per poter disquisire sul valore della persona umana nella fase embrionale, ha bisogno di possedere nozioni scientifiche sul quell’identità. Quindi non c’è contrapposizione tra scienze sperimentali e il fare filosofia, però il problema è che nella cultura postmoderna si afferma l’idea che le scienze positive possono sostituire completamente la riflessione filosofica. Questa pretesa è erronea. In questo modo la filosofia in senso classico, cioè come riflessione sul problema metafisico, viene eliminata, e se proprio sopravvive, la filosofia si riduce a filosofia come branca, cioè come filosofia della conoscenza, come epistemologia, come filosofia del linguaggio, cioè come riflessione particolare che perde di vista i problemi classici della filosofia, cioè il problema dell’assoluto, del senso dell’esistenza, dell’essere, ovvero ontologico. Qual è il prezzo alto che l’uomo paga a questo errore non il filosofo soltanto ma l’umanità nel suo complesso? È che essa ci restituisce un’immagine dell’uomo e della realtà che è parziale, incompleta, perché se io chiedo a un genetista di spiegarmi l’essere umano dal punto di vista della genetica, il genetista mi fornirà una serie di risposte estremamente interessanti che io in quanto non genetista non sono in grado di fornire e che anche non sono in grado di capire se non in maniera molto modesta. Però il genetista ci darà un quadro piuttosto preciso della conoscenza dell’uomo oggi alla luce della genetica, allo stato attuale della ricerca (la scienza è non è perfetta ma in continua evoluzione; è una realtà, come dice Karl Popper, falsificabile, cioè che viene sottoposta a continue verifiche e controlli e spesso smentisce se stessa). Il problema è che se io, sulla scorta si ciò che mi dice il genetista, penso che l’essere umano sia esclusivamente il suo patrimonio genetico, sto dando una risposta sbagliata a una domanda giusta e legittima, cioè chi è l’uomo. L’uomo è anche il suo patrimonio genetico, è anche tutti i meccanismi che geneticamente si possono descrivere e spiegare, ma è molte altre cose che le scienze potranno aiutarmi a integrare (la dimensione psicologica, la dimensione relazionale ecce tutte le cose che il genetista non vede o che non lo preoccupano direttamente e che non è compito del suo studio) ma l’uomo è anche tutta una serie di altri comportamenti, di altri desideri, di altri problemi, di altre aspirazioni, di altre passioni. L’uomo si manifesta con una ricchezza che il genetista da solo non è in grado di abbracciare. Ho preso l’esempio del genetista ma allo stesso modo posso prendere il contributo di tutte le altre scienze positive o anche delle scienze sociali, che mi forniscono delle informazioni importanti e utili, necessarie perfino per fare filosofia, per compiere scelte morali. Ma nello stesso tempo non bastano a rappresentare la complessità dell’umano. Bisogna stare molto attenti a questa pretesa delle scienze positive e sperimentali di sostituirsi alla riflessione filosofica, mentre noi non sosteniamo certamente che la riflessione filosofica possa sostituire le scienze positive, ma è importante tenere presente che queste realtà si integrano, si completano, nel rispetto delle proprie competenze e nel rispetto nell’esistenza di un’oggettività che non è patrimonio esclusivo delle scienze sperimentali. Esse sono quelle scienze che si sono fortemente affermate perché hanno dalla loro spesso la dimostrabilità matematica dei risultati che raggiungono. Quindi a una affermazione fa da riscontro una verifica di tipo scientifico (un esperimento, una formula). In filosofia tutto questo non si può fare. Non c’è una formula matematica dell’esistenza di Dio, anche se un matematico, qualche anno fa, ha anche tentato questa strada. Ma esistono tuttavia degli strumenti che permettono di verificare se una affermazione filosofica è vera o falsa. La scienza ha un metodo rigoroso, ma anche la filosofia è una scienza dotata di metodo rigoroso.

Se la domanda che mi pongo ha una forte connotazione di tipo scientifico nel senso stretto, cioè per esempio voglio capire come funziona il cervello umano. A una domanda di questo genere non soltanto la filosofia non può dare delle spiegazioni, ma non è una domanda a cui il filosofo possa dare un contributo importante, anche perché tutte le domande che hanno come oggetto il “come” sono domande squisitamente scientifiche, quindi se le porrà lo scienziato. Il problema spesso è la domanda più che la risposta. Va benissimo che mi venga spiegato come funzionino i geni rispetto a questa malattia, o come sia possibile che l’uomo è geneticamente uomo e la scimmia geneticamente scimmia. la differenza tra l’uomo è la scimmia è marcata geneticamente, tanto è vero che se un uomo e una donna avranno un figlio avranno sempre un essere umano e non avranno un animale di un’altra specie. Però il concetto è che quella descrizione dell’uomo che mi fa il genetista o lo psichiatra è una descrizione legittima ma parziale. L’importante è che il genetista dica: “io ti sto spiegando perché hai questo problema o perché sei geneticamente sano, ma non ho detto tutto di te, cioè non ho risposto alla domanda chi è l’uomo.” Quindi la patologia descritta è che le varie scienze positive credano di poter spiegare l’uomo tutto intero. Allora anche quell’ambito della nostra umanità che noi definiamo come sentimenti, le virtù, le domande che hanno a che fare con questo corso, non si possono spiegare solo con la genetica, la biologia, la psichiatria, la psicanalisi. L’errore spesso delle scienze positive è di voler spiegare tutte le nostre azioni. Questo processo non avviene in modo esplicito, ma spesso avviene implicitamente. La stampa, i giornali che noi leggiamo spesso se ne escono con affermazioni: “Scoperto il gene del tradimento”. Questa pretesa è indubbiamente erronea, perché cerca di ricondurre l’uomo a un determinismo di tipo biologico. Non è che la filosofia risolva tutti i problemi, assolutamente no, però c’è una differenza qualitativa, la scienza è per sua natura limitata, perché ha come obiettivo conoscere cose che hanno un limite. Analizziamo la medicina: essa si impegna per conoscere l’anatomia dell’uomo, le sue patologie e i suoi meccanismi di funzionamento. Ammesso che raggiungerà il massimo della conoscenza dell’uomo, riuscendo ad allungare la vita, a curare le malattie oggi incurabili, ad alleviare le sofferenze, come noi ci auguriamo, ma non potrà mai raggiungere a spiegarci le cause della vita. La filosofia non ha l’ambizione di spigare come guarire l’uomo, ha un’altra ambizione, cioè di cercare di rispondere alle domande esistenziali, e questo lo può fare. Può aiutare l’uomo a rispondere alle domande che ha dentro. Quindi in questo senso la scienza paradossalmente è più limitata, mentre noi abbiamo l’idea che la filosofia siano quattro chiacchiere abbastanza fumose e la scienza mi faccia star bene. Alla fine uno pensa “ah, guarda, prendo la pastiglia che mi fa star bene” mentre il filosofo mi dice due frasi, ma alla fine per me non è cambiato niente. Il problema è che nella filosofia all’inizio sono più le domande delle risposte, ci si trova quasi in crisi, ma dopo le risposte arrivano. Abbiamo visto come la pretesa da parte delle scienze positive di spiegare la realtà tutta intera sia purtroppo per le scienze positive stesse una pretesa assolutamente indebita e immotivata. Le scienze positive sono scienze che per loro natura hanno come obiettivo rispondere a tutte le domande che hanno il “come” e quindi di fronte a questo fatto l’uomo trae dalle scienze positive delle risposte molto importanti in grado di migliorarne la vita e di migliorare la conoscenza della realtà. Tuttavia il problema del “come” non è un problema che esaurisca il senso della realtà, e soprattutto non dà risposte a quei perché che costituiscono invece la materia caratteristica dell’indagine filosofica. Abbiamo anche visto che per altro il tentativo di espellere la metafisica dalla riflessione filosofica ha come effetto involontario, come una sorta di eterogenesi dei fini, il fatto che chi tenta di buttare fuori la metafisica dalla porta è costretto a vederla rientrare dalla finestra. Qual è l’effetto negativo di questo approccio patologico? Che un conto è riconoscere l’esistenza di una metafisica e interrogarsi seriamente sul suo contenuto e caratteristiche, un conto invece è ragionare negando la metafisica ma invece implicitamente accettando un assoluto che non si è esplicitamente riconosciuto. Questa metafisica inconsapevole rischia di essere spesso acritica e incontrollata. Lo scientismo, cioè la pretesa della scienza di spiegare tutto, di fatto respinge l’idea che esista una metafisica, ma inconsapevolmente eleva la scienza stessa ad assoluto. Questo modo di procedere è certamente erroneo e foriero di parecchie conseguenze negative per l’uomo e per le scelte stesse che la società intende adottare. Abbiamo visto un esempio eclatante fra i tantissimi di questo atteggiamento logico durante il dibattito che in Italia si è svolto intorno al problema della cosiddetta fecondazione artificiale extra corporea. In quel caso abbiamo visto e continuiamo a vedere cometa pretesa di spiegare e interpretare questo problema in un’ottica meramente scientista, non scientifica (perché l’approccio scientifico è importantissimo in questa materia), scientista nel senso che vorrebbe mettere in un angolo il problema morale, il problema filosofico, il problema antropologico, e risolvere la questione soltanto in un’ottica scientista produca mostri (come dice Goya), non è soltanto il sonno della ragione a generare mostri, ma anche questa pretesa del razionalismo, che non è la ragione, come la polmonite non sono i polmoni, così il razionalimo non è una ragione, ma ne costituisce una malattia, che pretende di riscrivere la realtà e interpretarla in modo assolutamente ideologico, sotto le mentite spoglie della oggettività della scienza. L’aspetto pericoloso che si annida dentro il rifiuto della metafisica è l’utilizzo di categorie che non sono dei veri assoluti ma che vengono invece usati come se fossero degli assoluti. L’affermazione, tanto per restare nell’esempio che è stato fatto, “la scienza e il progresso non possono essere fermati”, che è uno slogan che abbiamo sentito e sentiremo e continueremo sentire e usare a piene mani, è una affermazione ideologica, cioè è un’affermazione che contiene un giudizio di valore, non è una affermazione neutra, come invece sembra. Se io dico “il progresso non deve essere fermato”, sembra che io stia collocandomi su una posizione scientifica. Sono uno scienziato, lasciatemi lavorare, se ma lasciate lavorare vedrete che starete tutti meglio. In realtà questa affermazione è apparentemente asettica, cioè non sembrano messe dentro questioni di fede e ideologiche, in realtà invece è una affermazione ideologica perché dice “lo scienziato in quanto tale è un soggetto che si colloca al di fuori del bene e del male. Quindi prende una posizione ben precisa, che si può anche perseguire, e si può anche dire che lo scienziato in quanto tale non è sottoposto a problemi e remore e questioni di carattere morale e giuridico, ma nel farlo bisogna saperlo e bisogna anche saper giustificare razionalmente questa affermazione e bisogna anche fare i conti con le conseguenze che questa scelta comporta. Quando si dice quindi che lo scientismo è un pericolo per l’uomo non si fa una affermazione faziosa, ma si fa una constatazione. Stando sempre ben attenti a non buttare via insieme con l’acqua sporca il bambino, quindi contestare lo scientismo e il razionalismo non significa contestare la scienza o la ragione, realtà di cui invece abbiamo bisogno anche per fare filosofia, perché la filosofia si fa non con i kili, ma con la ragione. Questa constatazione, cioè il fatto che la metafisica inconsapevole purtroppo è un errore in cui incorrono tutti quelli che vogliono negare la metafisica, ci mette di fronte al fatto che ogni singolo uomo, non solo il filosofo o il politico o l’intellettuale, ma proprio ognuno di noi non può fare a meno della propria metafisica. Non può farne a meno perché la metafisica ha a che fare con la soluzione del problema della mia vita. Non con la soluzione del problema della vita come problema fuori di me, e quindi come tutti i problemi fuori di me posso anche ignorarlo, ma dentro di me. Il problema del senso della vita è un problema mio, con il quale devo fare i conti. Allora se questo è il problema dell’uomo, ecco perché tutti gli uomini hanno in modo esplicito o implicito sposato una certa metafisica. Anche chi apparentemente vive senza darsi nessuna preoccupazione della metafisica ha già una metafisica implicita. Per usare le parole usate da Paolo di Tarso, “quorum deus ventre est”, anche colui che ha eletto in qualche modo a suo punto di riferimento i bisogni della sua pancia, anche costui implicitamente ha sposato una certa metafisica, cioè ha deciso che il senso della sua vita si riconduca a quello e ne avrà tutte le conseguenze che derivano da quella scelta. Quali sono però obiettivamente le buone ragioni dell’atteggiamento agnostico? Abbiamo visto che l’atteggiamento rigorosamente agnostico, cioè quell’atteggiamento in base al quale si dice “io sulla metafisica non posso dir niente, anzi non me ne occupo perché la ragione umana non è in grado di occuparsi e conoscere ciò che c’è oltre l’esperienza, questa posizione è una posizione che noi cercheremo di contrastare, di dimostrare erronea, ma che certamente parte da alcuni argomenti intelligenti. Per esempio l’agnosticismo ha come argomento la constatazione che i sistemi metafisici elaborati nella storia del pensiero filosofico sono spesso in contraddizione fra loro, cioè il pensiero metafisico nella storia della filosofia non ha prodotto sempre delle considerazioni, dei ragionamenti coerenti fra loro, ma anzi spesso le metafisiche sono contrapposte e contraddittorie, si mangiano a vicenda. Questo è vero. Ma l’errore commesso dall’agnosticismo sta nel pensare che la metafisica possa spiegarci tutta la realtà. Ciò è impossibile, altrimenti l’uomo, qualora sapesse tutto, non sarebbe più uomo ma Dio.

I pensieri ideologici, come quello di Hegel, sono stati addirittura portati verso interpretazioni totalitarie, e purtroppo la differenza tra livello ideologico e realtà, viene fatta pagare alla realtà (come dimostrano i sistemi totalitari nazista e comunisti).

Questi sistemi ideologici hanno portato l’uomo ad uno scetticismo totale, tanto da avere tante realtà quante sono le rappresentazioni di essa compiute dall’uomo.

DOVER ESSERE

ESSERE

METAFISICA

EMPIRISMO

NON RUBARE

RUBARE

Uno schema che analizzi un qualsiasi valore dell’uomo darebbe come risultato una situazione come la seguente (in questo caso abbiamo preso come valore “l’Onestà”)

L’uomo dovrebbe comportarsi rettamente e non rubare, seguendo i precetti morali che ritrova nella metafisica. Attraverso l’esperienza terrena si accorge però che la il precetto dell’onestà non è da tutti rispettato, vedendo anzi uomini che rubano e infrangono il precetto dell’onestà.

È erroneo pensare che la verità sia il prodotto della discussione, di un dibattito, al termine del quale una maggioranza ha trovato un punto di accordo. Se fosse realmente così, la verità non esisterebbe ma sarebbe solo un prodotto di una discussione (questo non è un computer perché è composto da elementi caratteristici di tutti i computer, ma sarebbe tale solo se una maggioranza di persone si esprimesse dicendo che lo è). Se fosse così, la verità emergerebbe solo durante la discussione invece non è così (questo computer è sempre un computer, non solo quando se ne parla). La verità quindi preesiste alla discussione. Possiamo piuttosto dire che esiste il dubbio, ma questa è tutt’altra situazione. La verità non sottostà ai nostri capricci; l’uomo non genera la realtà.

Filosofia teoretica Nov 23

Il tema di oggi è il problema del rapporto fra uomo e Dio e soprattutto il tema della conoscibilità razionale dell’esistenza di Dio. Kant, nella Logica, si pone quattro domande, quattro domande che riassumono i contenuti della riflessione filosofica:

1. Che cosa posso conoscere? (domanda metafisica e gnoseologica)

2. Che cosa debbo fare? (domanda morale)

3. Che cosa posso sperare? (domanda religiosa)

4. Chi è l’uomo? (domanda antropologica)

La domanda di carattere antropologico è l’ultima. L’antropologia filosofia cerca di rispondere alla quarta domanda: “Chi è l’uomo?”. Tutte le volte in cui ci poniamo queste domande stiamo riflettendo sull’uomo e viceversa tutte le volte che riflettiamo sull’uomo dobbiamo rispondere a queste domande. Quindi fare filosofia è sempre fare antropologia. Sul discorso sull’identità dell’uomo il tema sull’esistenza di Dio, nel rapporto tra Dio e la causa ultima è particolarmente importante. Bisogna fare qualche precisione di carattere terminologico. Non è raro sentirsi obiettare che questo è un problema relativo alla dimensione della fede, delle convinzioni personale. Molti dicono che fare filosofia non ha a che fare con Dio. Oggi sembrerebbe più opportuno fare filosofia senza riflettere su Dio. Ma ci rendiamo conto che quando parliamo dell’uomo un discorso su Dio non è una ingerenza del tema della fede, ma un passaggio necessario. Chiariamo il rapporto tra filosofia e religione. La filosofia è la scienza che si interroga sulla identità dell’uomo, sulla possibilità di conoscere la realtà, sulla domanda morale. Da questo punto di vista anche la religione condivide una serie di domande con la filosofia. Cerca di dare risposte a stesse domande che potremmo catalogare sotto un unico argomento: “il problema della vita”. Alcuni dicono che la mentre la filosofia risponde a queste domande con la ragione, la religione invece fa appello alla fede. Cosa significa accettare una certa convinzione in base alla fede? La fede può essere definita come “accettare qualcosa per vero che non vedo ma che è stato attestato da un altro”. Credere per fede significa credere che un accadimento è vero non perché visto ma perché altri hanno detto che ciò è accaduto. La filosofia si occupa del problema della vita usando la ragione. Affermazione incontrovertibile. La religione usa invece lo strumento della fede. Questa affermazione è vera solo in parte. L’esperienza religiosa non è esclusivamente un fatto di fede ma, essendo una esperienza umana che coinvolge la volontà del soggetto umano, è una esperienza che mette in gioco non solo la fede ma anche la ragione. Per compiere l’atto di fede utilizziamo la ragione. La fede è una esperienza vagliata dalla ragione. La fede non avviene in assenza di ragione. La ragione è sempre chiamata in causa perché l’uomo non può credere senza ragionare. La fede stessa è sottoposta al vaglio della ragione. La ragionevolezza di un atto di fede è comunque inevitabile nell’esperienza religiosa di un essere umano. Inoltre lo stesso atto di fede (credere una cosa non verificata personalmente). Il cristiano che vive nel 2007 crede in una serie di fatti che non ha potuto vedere di persona. Nella nostra esperienza umana quotidiana la ragione è obbligata a farci compiere una serie rilevante di atti di fede. Entrando in questo edificio abbiamo compiuto un atto di fede: abbiamo dato per certo che questo edificio non ci crollerà sulla testa. Questo è un atto razionale, ma ciò non toglie che nessuno di noi ha potuto verificare direttamente la tenuta statica di questo edificio. Molti atti di fede sono accettati dalla ragione durante la giornata. Questo serve non per mettere sullo stesso piano la fede nell’edificio o in Cristo, ma serve per riflettere che l’esperienza dell’uomo non è una esperienza nella quale la riflessione razionale e la fede sono due cose contrapposte. Queste due realtà si compenetrano. Fede e ragione non si contrappongono ma si intrecciano. Ben sapendo che la fede contiene la dimensione del mistero, nel quale la ragione non può addentrarsi , la ragione è comunque chiamata a dirci se questo mistero è accettabile o no. La ragione ci conduce alla soglia del mistero, perché ci dice che fino alla soglia la ragione può arrivare. Ricapitolando, filosofia e religione sono diverse, ma si occupano entrambe del tema della vita. La religione mette in campo il tema della fede. La filosofia e la religione hanno dei punti in comune. Ciò è possibile osservando cosa accade all’uomo. Ognuno di noi segue la propria ragione finché essa fa bene il proprio lavoro, fin quando è ragionevole.

Introduciamo il tema della rivelazione. L’esperienza storica dell’umanità ci dice che l’uomo è un essere religioso. Tutte le culture esprimono delle sensibilità religiose. Questa sensibilità nasce non dall’irrazionale, ma da una domanda razionale. L’uomo si trova circondato da una realtà visibile ma nello stesso tempo la sua ragione si volge verso una dimensione chiamata Dio. L’uomo cerca di raggiungere con la propria intelligenza una realtà che è sovraumana. C’è una tensione che parte dall’uomo verso la realtà creduta e esistente (Dio). L’iniziativa parte dall’uomo: l’uomo va alla ricerca di Dio. Questa è l’esperienza delle religioni di tutti i tempi. Questo ora descritto è il fenomeno religioso. Quando si parla invece della rivelazione ci si riferisce a un fatto unico nella storia. La rivelazione rappresenta un Dio che decide di prendere l’iniziativa attraverso l’incarnazione. Il fatto cristiano è sintetizzabile con questo meccanismo rovesciato. La filosofia invece cerca di compiere il processo che va dal basso verso l’alto: la ragione cerca di raggiungere Dio. Nella rivelazione è Dio che scende verso l’uomo e dice all’uomo alcune cose di sé che l’uomo, da solo, non potrebbe comprendere. Tant’è vero che alcune di queste cose non sono comprensibili dalla ragione. Questo non fa meraviglia perché l’uomo non può comprendere tutto il mistero di Dio. Se l’uomo ne fosse in grado sarebbe a sua volta Dio. La rivelazione diventa decisiva quando ci imbattiamo in una verità che supera le capacità della mia ragione. Bisogna sempre essere consapevoli che la nostra ragione può comprendere alcuni attributi di Dio, senza l’ausilio della rivelazione. L’uomo può conoscere l’esistenza di Dio. Nella storia della filosofia ci sono alcuni autori che descrivono la dialettica tra filosofia e religione. Agostino d’Ippona è un pensatore che nella prima fase della sua vita non è cristiano. Poi si converte. All’inizio è uno scettico manicheista. Dallo scetticismo passa al neoplatonismo e infine al cristianesimo. L’Agostino scettico dice che la filosofia l’aveva aiutato a trovare la risposta che più gli interessava: “Con la riflessione filosofica sono arrivato alla conclusione che lo scopo dell’esistenza è Dio. Dio è il sommo bene. Siccome l’uomo cerca il bene e la felicità, cerca di raggiungere Dio. “Il male – dice Agostino filosofo – è l’assenza di Dio”. La vita dell’uomo in cui non c’è Dio è una vita di sofferenza e disordine. Agostino dice che lo studio della filosofia gli ha permesso di conoscere queste cose razionalmente valide. Il punto problematico è che l’adesione intellettuale a queste verità non risolve tutti i problemi della mia vita. Il problema più drammatico nella vita di Agostino era che la filosofia aveva sì indicato la meta del suo percorso, ma la stessa filosofia non era stata capace di dirgli come arrivare a questa meta. Non è che l’uomo senza fede è un uomo senza ragione. Assolutamente no! Quando si dice che dobbiamo dialogare perché l’uomo, con la ragione, ha questa opportunità. La ragione non è cieca, ma può raggiungere un certo grado di conoscenza circa la realtà sensibile e ultrasensibile. L’Agostino non credente riconosce queste realtà. Quello che gli mancava era il come arrivare a questo scopo e dove trovare le forze per arrivare a Dio. La filosofia indica la meta ma non la strada da percorrere né i mezzi per affrontare il cammino. Se si entra nella dimensione della fede Cristo stesso si propone come via, verità e vita. Questo è il salto che si può compiere nella prospettiva della fede. Tommaso d’Aquino pensa e realizza la sua struttura filosofica verificando la ragionevolezza di una serie di cose credute in base alla fede. Le cinque vie di Tommaso nascono esattamente da questo principio. L’uomo deve sempre verificare se le cose ricevute per fede. Questo è il senso delle cinque vie.

Ci sono delle verità che possiamo chiamare umane che possono essere conoscibili dalla ragione umana senza bisogno della ragione (esistenza di Dio, una certa conoscibilità di Dio, il mondo, la ragione). La ragione umana può comprendere un ordine morale (non uccidere, non rubare ecc.). Ci sono anche delle verità sovrumane (la Trinità di Dio) che con la sola ragione non può essere compresa. La realtà è data dalla ragione e dalla fede. La rivelazione sembrerebbe essere utile soltanto per capire queste cose. La rivelazione è un aiuto prezioso anche per conoscere le verità che l’uomo può raggiungere con la semplice ragione. La rivelazione non ha solo lo scopo di farci vedere le realtà sovrumane, ma aiuta ogni uomo a anche a conoscere le verità umane. Una prima ragione per cui la rivelazione è utile per le realtà umane è che l’uomo filosofo è un essere limitato. Nella categoria del limite c’è anche la categoria del condizionamento. Siamo esseri sottoposti al condizionamento della nostra natura umana. Nella rivelazione c’è la grazia, che è fondamentale anche per la ragione dell’uomo: lo aiuta ad affrontare i limiti derivati dalla natura umana. La corruzione dell’uomo dovuta al peccato originale incide anche sulla ragione umana. La rivelazione è utile anche perché la riflessione filosofica dura da secoli mentre la vita di ognuno di noi purtroppo è molto più breve. Non possiamo illuderci di comprendere tutto in pochi anni. Anche perché ognuno di noi fa filosofia non tanto per l’umanità ma per se stesso. Inoltre, la categoria del peccato originale esiste: l’uomo non nasce buono ma nella sua natura è impressa anche una inclinazione a comportarsi male. L’atto del riconoscere la ragione è profondamente condizionato dalle proprie pulsioni e passioni. L’uomo si rende conto che la verità è molto impegnativa per le sue sole forze, e quindi gli è più conveniente negarla (come accade nella nostra società).

Porsi una domanda è importante: ci sono filosofi che ritengono inutile porsi la domanda di Dio. Credono che sia un compito da teologi. Alcuni dicono: “Su Dio meglio tacere. Non si dica né che esiste né che non esiste”. Ci sono pensatori del passato che affermano l’irrilevanza della questione “Dio” per l’uomo. Questa posizione è una posizione di neutralità o implica una scelta? Questa posizione esprime una scelta perché ha delle ricadute dal punto di vista esistenziale. Se dico che Dio esiste avrò un’antropologia che riceve delle conseguenze da questa affermazione; idem se dico che il Dio non esiste. Se dico che il problema di Dio non mi interessa non mi colloco in una posizione neutra, ma assumo una posizione che produce conseguenze proprio sul mio filosofare. Se vivo come se Dio non esistesse, prendo una posizione che ha conseguenze sulla vita quotidiana. C’è anche l’assunzione implicita di un idolo. Affermare che non interessa se Dio esiste o meno in realtà nasconde un meccanismo di sostituzione di Dio con un idolo. L’eliminazione di un assoluto comporta sempre la sua sostituzione con un altro assoluto. Questo idolo saranno l’insieme di valori e contenuti che la persona decide di eleggere a punto di riferimento della propria vita: potrà non indicarli ma implicitamente ognuno di noi si sceglie un “padrone per cui lavorare” (se Dio non c’è è il Piacere, il Successo, il Denaro, l’Amicizia, etc. etc.). L’indifferentismo verso Dio può essere predicato ma non lo si può praticare. Fede e ragione adoperano insieme a meno che ci sia Razionalismo o Fideismo. Essi sono due atteggiamenti ideologici. Il razionalismo dice che non esiste nulla al di fuori di quello che è misurabile con il metodo scientifico: riduce la realtà a dimensione tecnico-scientifica. L’affetto, l’amore sono categorie fondamentali che non sono misurabili. Le realtà dell’umano non sono tutte misurabili. Il fideismo ritiene che l’uomo ha con la fede la capacità di credere e che in alcun modo questa credenza possa essere sottoposta all’analisi della ragione. Il fideismo si sbarazza della ragione. L’interazione tra fede e ragione è una qualità normalissima quotidiana. Il credente una delle fonti per poter credere. Una di queste fonti sono i vangeli. Se ci si mette in una prospettiva fideistica ci crede perché c’è scritto. Ma il cammino della fede non rifiuta ma chiede il supporto della ragione. Dopodiché c’è un momento in cui l’elemento della fede non può più farsi sorreggere completamente dalla ragione. Credere nella resurrezione di Cristo è l’espressione di un atto di fede. L’indagine di storicità su Giulio Cesare è la stessa che viene fatta per Cristo. Tutto questo non è un atto di fede ma è uso della ragione. Il fenomeno religioso è sistematicamente il prodotto di un bisogno dell’uomo. Questo è avvenuto e avviene ancora oggi. Nella storia dell’umanità c’è un Unicum, la rivelazione cristiana. La rivelazione si presenta in modo differente rispetto alle altre religioni, perché è un atto col quale Dio viene a cercare l’uomo. Il fatto “resurrezione” è anch’esso un Unicum nella storia. La ragione umana, rispetto a questo fatto narrato può fare molto: deve indagare storicamente. Il lavoro della ragione non è di obbligarti a credere, ma metterti davanti a una serie di elementi per capire se le prove e testimonianze siano attendibili o meno. È la stessa posizione del giudice in un processo penale. Esistono prove e testimonianze ma non c’è la confessione del colpevole. Il giudice non deve fare un atto fideistico ma un ragionamento.

Filosofia teoretica Nov 27

L’esistenza di Dio caratterizza sempre la filosofia e la vita umana. I temi che sono oggetto della riflessione filosofica in relazione alla “questione Dio” sono tre:

1. Esistenza di Dio

2. La natura di Dio

3. Il nostro modo di conoscere Dio

La parola Dio è una parola dalla etimologia incerta. È probabile che deriva dal sanscrito, lingua nella quale la radice “div” significa splendore. Da questa parola deriva “devas”, luminoso, e da qui Dio. È interessante questa similitudine col concetto di splendore perché questo ci introduce a una prima domanda del filosofo: “L’esistenza di Dio è immediatamente evidente?”. Certamente no. Se lo fosse non avremmo nell’esperienza umana la realtà di uomini che obiettano circa l’esistenza di Dio. Noi conosciamo l’essenza di Dio non in modo diretto ma in modo mediato: col ragionamento. Quando si dice che l’esistenza di Dio è razionalmente dimostrabile non significa che sia immediatamente evidente. La volta scorsa avevamo riflettuto sulle caratteristiche dell’uomo come essere religioso. Abbiamo anche detto che l’uomo è necessariamente religioso: l’uomo ha bisogno di assoluto e quando lo nega in senso metafisico, lo sta sostituendo con un altro che ne prende il posto. Questa riflessione non può essere liquidata come questione non rilevante (agnosticismo) perché affermare che Dio esista o meno derivano importanti conseguenze per la vita dell’uomo. In un orizzonte in cui Dio esiste il fine della vita dell’uomo è amare Dio. Questo rapporto con Dio genera anche l’amore verso gli altri uomini, e implica l’esistenza di una natura oggettiva dell’uomo: una essenza con determinate caratteristiche impostate da Dio. Il problema di Dio comporta il problema del rapporto con l’infinito: l’uomo sperimenta dentro di sé una serie di desideri differenti, sia concreti ma anche metafisici. L’uomo vive con una lacerante come una lacerazione inaccettabile il fatto che esista una realtà chiamata morte. Tutti gli uomini muoiono ma essi non sono fatti per la morte. L’uomo si ribella alla morte. Questo desiderio non trova risposta in realtà concrete (cibo, scienza). L’unica risposta possibile è la speranza di una vita anche dopo la morte. Questo desiderio è possibile in un orizzonte in cui esista Dio. Se invece la realtà è tutto ciò che esiste, la morte coincide con la fine. Il discorso di Dio è fondamentale per il senso stesso della vita e della morte. Questo desiderio di infinito è voluto anche per i propri cari. Dire a una persona “ti amo” significa “voglio che tu viva per sempre”. Questo desiderio si realizza solo se Dio esiste. Altrimenti l’amore è destinato a terminare per sempre quando queste persone moriranno. L’uomo ha desiderio di infinito, amare, essere amati, libertà, giustizia. Questo desiderio di giustizia è destinato spesso a non essere soddisfatto. C’è sempre una percentuale di reati che restano impuniti. Al contrario di quello che vediamo nei film molti criminali non sono assicurati alla giustizia. Nella storia ci sono uomini che hanno compiuto immani delitti senza questa questo gli sia stato imputato. Questo provoca in noi un desiderio di giustizia che però, a livello terreno, non viene soddisfatto. In un orizzonte in cui esiste Dio il problema della giustizia viene visto con più sicurezza, nella speranza che la giustizia terrena venga corretta da quella divina. Se Dio esiste il desiderio di giustizia potrebbe essere soddisfatto. Il problema morale trova una risposta se Dio esiste. Se Dio non ci fosse allora la relazione tra gli uomini è molto più problematica. In un orizzonte senza Dio l’altro è per me un fastidio, non una persona da amare. In una realtà increata la natura dell’uomo diventa ciò che egli vuole essere, e non ciò che è, come imposto da Dio. La realtà ci dice che l’uomo è un essere creato da Dio e dotato di una natura immutabile. Se l’uomo non è creatura la sua identità cambierebbe. Se Dio non esiste il santo e il ladro tornano alla cenere. Tutto ciò non ci dice se Dio esiste o meno, ma serve per chiarire le conseguenze della scelta su Dio. È rilevante l’esistenza di Dio. È importante ribadire che l’esistenza di Dio non è immediatamente evidente. D’altra parte Dio non è qualcosa da cogliere solo con la fede, ma vi si può ricorrere con lo strumento della ragione. La peculiarità della preghiera è tipica non di tutti gli uomini, ma certamente solo dell’essere umano. Questo legame con il Creatore può essere dimenticato dall’uomo, misconosciuto o volutamente rifiutato. Le ragioni di questo comportamento sono le più svariate e talora sono profonde. Non sono frutto di un atteggiamento casuale. Una delle ragioni più classiche è la ribellione per la presenza del male nel mondo. La presenza del male è un argomento che spinge a negare l’esistenza di Dio. Ci sono anche altri fattori: l’ignoranza o indifferenza religiosa, ossia la volontà di voler rifiutare la religione a priori. Anche le correnti di pensiero del ‘900 hanno influenzato il pensiero su Dio. Abbiamo detto che Dio non è immediatamente intuibile. È dimostrabile con un percorso mediato. Ciò significa che l’uomo non ha una esperienza diretta di Dio. Se questa esperienza si verificasse non sarebbe necessaria una riflessione sulle prove dell’esistenza di Dio. La domanda sull’esistenza di Dio presuppone che c’è la necessità di una conoscenza mediata di Dio. La conoscenza avviene con la conoscenza di realtà che non sono Dio ma rimandano a lui. Questo è il senso delle 5 vie di Tommaso. Una delle più interessanti argomentazioni sull’esistenza di Dio (criticata da S. Tommaso) è l’argomento di S. Anselmo. S. Anselmo dice che Dio è “l’ente di cui non si può pensare il maggiore”. Anche colui che non crede ha comunque l’idea di ciò che vuole negare. Poiché ne ha l’idea, esso non può che esistere. Questa tesi contiene un passaggio discutibile: si tende a passare dall’idea di una cosa alla sua esistenza. Non è vero che tutto ciò che si pensa esiste. Tommaso d’Aquino parte dalla osservazione delle cose effettivamente conoscibili per capire se da questa osservazione si possa desumere l’esistenza di Dio. Questo è il metodo delle vie di S. Tommaso. Sono vie a posteriori e non a priori. Sono strade che permettono di raggiungere Dio non a partire dall’affermazione “Dio c’è”, ma partendo dalle cose reali. Tommaso usa le categorie della cosmologia aristotelica. La cosmologia aristotelica è oggi superata. Tuttavia il metodo utilizzato è un metodo ampiamente valido dal punto di vista logico. Ciò non modifica la validità logica di quel pensiero. Il metodo di ragionamento di Tommaso è ancora valido che lo stesso Aristotele il parte aveva già meditato. Prima delle cinque vie, bisogna precisare il concetto di prova. Di norma queste vie sono descritte anche come le cinque prove. Il senso ampio si può parlare di prova a patto che si possa distinguere cosa si intende per prova. Per noi oggi la mentalità che mentalità si intende la prova fornita dalle scienze sperimentali. Quando si fa un esperimento si sottopone una teoria ad un esperimento reiterato. Questo modo è legittimo nelle scienze sperimentali. L’errore sta nel ritenere che l’esistenza di Dio debba essere dimostrata con questa metodologia. Ci sono realtà che possono essere razionalmente compresi senza ricorrere al metodo scientifico. Questo perché per la loro natura non sono soggetti a una misurazione quantitativa. La prova sarà il raggiungimento di argomenti convergenti e convincenti con gli strumenti della ragione, della logica e della speculazione. Essi non sono meno rigorosi o esigenti della scienza quantitativa. La prova non è solo una categoria della scienza o della tecnica, ma anche della logica e della ragione.

Le vie sono cinque:

1. Via del mutamento

2. Via della causalità efficiente

3. Via della contingenza

4. Via dei gradi di perfezione

5. Via del finalismo

La caratteristica delle vie di Tommaso è che esse possono essere analizzate singolarmente. Ognuna di queste vie è autonoma. Ognuno può trovare più o meno convincente una di queste vie. Tutte le via partono da un’osservazione di un dato di realtà.

1. Via del mutamento: nel mondo ci sono molte cose che cambiano. Se una cosa cambia, si muove, vuol dire che essa è mossa da altri. Secondo le categorie aristoteliche si distinguono realtà in atto e realtà in potenza. Secondo questa distinzione, è logico che una realtà che è in potenza possa diventare in atto solo grazie a una realtà che è già in atto. Se ho un blocco di marmo e questo blocco di marmo diventa una statua, la trasformazione avviene solo grazie alla lavorazione dell’artista. Una cosa non può essere contemporaneamente in atto o in potenza. Allora, se una cosa non può essere contemporaneamente in atto e in potenza, e allo stesso tempo tutte le cose che vediamo cambiano, ne consegue che uno stesso oggetto non può essere al contempo causa e oggetto di cambiamento. In altre parole, nella realtà esiste il mutamento. Questo mutamento non può essere indotto in modo autonomo dalla stessa cosa ma che ha origine da altre. Un mutamento è sempre indotto da una causa ulteriore. Questo processo al ritroso, nella ricerca di ciò che provoca il mutamento, mi porta a giungere a un punto: o ammetto per assurdo che questa causa va indietro all’infinito (non è logicamente accettabile) oppure esiste una Causa chiamata Dio. L’obiezione fatta a questa via è che i fatti della natura spesso si possono spiegare con latri fatti della natura. I cambiamenti della natura sono spiegabili con altri fatti della scienza. Questa obiezione nono risolve il problema. Questa spiegazione sposta la causa all’indietro, ma non dà mai il perché.

2. Via della causalità efficiente. Nel mondo ci sono una serie di cause efficienti. Ci sono fatti causati dal altri fatti. Questo percorso non permette di risalire all’infinito. Ci deve essere una causa prima da cui provengono tutte le altre cause. Questa causa è appunto Dio. È simile alla prima via, con la differenza dell’uso delle categorie della realtà in atto e in potenza nella prima via.

3. Via della contingenza. Ciò che non esiste comincia a esserci solo per merito di ciò che già esiste. Vediamo che vengono ad esistenza delle cose. Queste cose devono la loro esistenza a qualcosa di precedente già esistente. Se è vero che ciò che non esisteva, per esistere, ha bisogno di qualcos’altro che già esisteva, se esisteva un tempo in cui non esisteva nulla, nulla sarebbe mai esistito. Invece noi osserviamo che esistono delle cose. Queste cose sono contingenti, possibili, cioè che esistono oggi ma che un tempo non c’erano. Sono realtà contingenti e non necessarie: esistono ma potevano anche non esserci. Allora come posso spiegare il fatto che queste realtà sono passate dalla possibilità alla necessità (potevano benissimo non esserci, invece ci sono)? La conclusione è che deve esserci una causa da sempre in atto, non contingente che è all’origine del venire in essere di queste realtà contingenti. Tutta la realtà è contingente. Solo l’esistenza di una causa non contingente (Dio) può spiegare il passaggio dal non esserci all’esserci di cose contingenti.

4. Via dei gradi di perfezione. Nelle cose che osserviamo c’è una gradazione di ogni genere. Tommaso si rifà al metodo aristotelico. In ogni cosa osservata c’è una gradazione di perfezione. La categoria del caldo si esprime con una gradazione. Le cose imperfette non si sono procurate da sole la loro percentuale di imperfezione, perché se così fosse allora le realtà possederebbero tutte in massimo grado e allo stesso modo le perfezioni. Se le cose avessero potuto fornirsi da sole i gradi di perfezione non se li sarebbero forniti in modo imperfetto, incompleto. Deve esserci qualcosa che è causa per tutti gli enti del loro esserci e del loro grado di perfezione. La loro causa è Dio. Siccome i gradi di perfezione nel mondo sono imperfetti, la distribuzione dei gradi è opera di Dio.

5. Via del finalismo. Essere Finalizzati significa avere una propensione verso il conseguimento di certi precisi fini. Una realtà è finalizzata quando è orientata verso un certo obiettivo. Una cosa è finalizzata se agisce costantemente per raggiungere uno scopo. Si può dire che è finalizzato anche un oggetto realizzato dall’uomo quando questo oggetto risponde a determinati obiettivi in modo sistematico. Il telefonino è finalizzato a chiamare e costantemente risponde a questi obiettivi. Quando diciamo che una certa cosa risponde costantemente a un obiettivo ciò comporta tre conseguenze inevitabili:

a. Bisogna conoscere il fine da perseguire

b. Occorre conoscere i mezzi che ci permettono di raggiungere il fine

c. Occorre operare concretamente per mettere in atto i mezzi che ci permettono di raggiungere il fine

Se devo andare in aereo da Milano a Roma faccio il biglietto. Nel compiere questo gesto sto facendo un atto finalizzato che presupponeva la conoscenza del fine, dei mezzi, attraverso un comportamento concretamente perseguito che serve per raggiungere questo fine. Se manca uno di questi tre passaggi cesso di operare come una realtà finalizzata. Questa descrizione si può anche riassumere dicendo che il finalismo si esprime in tre modalità:

a. La direzionalità

b. La cooperatività

c. La funzionalità

Esiste un finalismo quando si osservano queste caratteristiche:

Direzionalità: i processi naturali si ripetono sempre attraverso certi schemi che passano da fasi di organizzazione più modesta a fasi più complesse.

Cooperatività: gli elementi naturali si coordinano e cooperano fra loro.

Funzionalità: nell’organismo le parti agiscono come un tutto integrato.

La realtà del finalismo riconosce una serie di fatti molto complessi. Per poter esserci un finalismo è necessaria la compresenza di questi fattori. Il finalismo è estremamente complesso. Tommaso dice che osserviamo che alcune cose che esistono in natura, pur mancando di conoscenza, di intelligenza, agiscono per un fine. L’apparato boccale della farfalla che serve per suggere il nettare è complicato e ha sempre la stessa funzione, ma non può essere ritenuto intelligente. Tuttavia questo apparato funziona secondo obiettivi ben precisi. Le parti cooperano per conseguire i fini specifici dell’apparato e per garantire la sopravvivenza della farfalla. Tutto ciò che non ha conoscenza non può muoversi verso un fine. Un qualcosa che non ha conoscenze non po’ muoversi verso un fine a meno che non sia governato da qualche ente dotato di conoscenza e intelligenza. Se vedo una freccia scoccata che colpisce il bersaglio o la freccia è dotata di una sua intelligenza, oppure qualcuno l’ha scagliata. Quindi, siccome nella natura esistono realtà prive di intelligenza che non conoscono un fine ma che operano in vista di un fine ben preciso non se ne può che ricavare che esiste un essere intelligente dal quale dipendono tutte le cose presenti in natura. Esiste una volontà capace di orientare tutte quelle realtà che di per sé stesse non sarebbero in grado di orientare la volontà stessa. Nella natura tutta una serie di cose operano per uno scopo ben preciso. Questo tipo di ragionamento ha trovato delle assonanze anche nel pensiero contemporaneo. Il fisico Kustler scrive: “Supponiamo che nel corso dei prossimi voli lunari venga esplorata la faccia sconosciuta della luna, quella che non vediamo mai. Supponiamo che gli astronauti scoprano una fabbrica automatica che produce alluminio. Esistono attualmente sulla terra fabbriche totalmente automatiche. Essi ne dovrebbero forse concludere che il caso ha creato tale fabbrica o che degli esseri intelligenti sono discesi sulla luna prima di essi e l’hanno costruita? Ambedue queste possibilità sono reali, ma sarebbe logico che il caso ha unito le molecole in modo da creare siffatta fabbrica? Nessuno accetterebbe questa interpretazione. In un essere vivente troviamo un sistema infinitamente più complesso di una fabbrica automatica. Voler ammettere che il caso ha creato tale essere mi sembra assurdo. Se esiste un programma, non posso ammettere programma senza programmatore. Questo discorso cerca di essere un modo per sintetizzare il senso dell’argomento finalistico che attende ancora aggi di essere smantellato con argomenti logici. Nella realtà esistono esseri finalizzati ma risulta impossibile spiegarli senza ricorrere a un ente che li ha creati.

Filosofia teoretica Dic 11

Testi d’esame: Vanni Rovighi; “Conoscere la verità” di Aguilar Gonzalez; Fides et Ratio; Veritatis Splendor; Assoluti morali di John Finnis.

Riprendiamo il tema delle vie con le quali la filosofia ha tentato di dimostrare l’esistenza di Dio dal punto di vista razionale. Integriamo quanto detto con la posizione del magistero della Chiesta Cattolica. Essa afferma che “Dio, principio e fine di tutte le cose, può essere conosciuto con certezza con il lume naturale della ragione umana partendo dalle cose create”. Questa affermazione (dogma di fede) non afferma che la conoscenza di Dio è automaticamente alla portata di tutti, ma dice che l’esistenza di Dio può essere conosciuta dalla ragione umana, quindi anche in una fase che può essere precedente alla rivelazione. La rivelazione invece fornisce delle importanti informazioni sulle caratteristiche di questo Dio. L’uomo ha questa capacità perché è creato a immagine di Dio. “Tuttavia, nelle condizioni storiche in cui si trova, l’uomo incontra molte difficoltà per conoscere Dio con la sola luce della ragione”. L’uomo, ferito dal peccato originale, non soltanto sperimenta una ferita nella sua volontà, ma sperimenta anche dei limiti nella sua capacità di comprendere. “Per questo l’uomo ha bisogno di essere illuminato dalla rivelazione di Dio non solamente su ciò che supera la sua comprensione, ma anche sulle verità religiose e morali che di per sé non sono inaccessibili alla ragione”.

La filosofia ci dice delle cose sulle caratteristiche di Dio. Il primo aspetto da notare è che la conoscenza di Dio avviene per via remotionis, cioè avviene attraverso il fatto che l’uomo con raziocinio percepisce una serie di realtà che vede nel mondo creato. L’uomo si accorge di vivere nel tempo. Quando diciamo di Dio per via remotionis intendiamo dire che quando parliamo del concetto di eternità parliamo di un concetto che non sperimentiamo direttamente, ma viviamo la dimensione del tempo, della finitudine. L’uomo arriva a dire qualcosa di Dio dicendo di lui esattamente ciò che non è presente qui adesso in modo pieno. Siamo nel tempo, ma Dio è eternità. Dio è l’essere sussistente. Su questo essere possiamo dire alcune cose e caratteristiche. Questo essere sussistente è un essere comune a tutte le cose, cioè se è identificabile con le cose create? Se si dovesse affermare ciò dovremmo sposare una concezione panteista: l’idea che il mondo si identifica con Dio stesso. Questa concezione presenta vari problemi, tra cui il fatto che le cose create sono caduche, non sono causa a se stesse. Altro tema è la creazione. Come si può parlare di Dio Creatore? Molti filosofi che hanno creduto all’esistenza di Dio non sono stati in grado di parlare di lui come creatore. Il mondo greco ci presenta un dio plasmatore ma che non è la causa prima. L’atto creativo di Dio è un atto libero o necessario? Aristotele non riusciva a concepire un Dio che crea liberamente. Nella descrizione di Dio di Aristotele la dimensione dell’amore non è originata da Dio ma è subita da Dio. Dio è amato dalle creature ma non ama le creature del mondo. Nella rivelazione cristiana Dio è amore. Il Dio cristiano non è un architetto che ha dato un colpo al mondo. Dio ha creato con amore il mondo e continua ad amarlo. La creatura esiste perché continuamente voluta dal Creatore. Questo rapporto continua per tutta la storia. Plotino e S. Bonaventura contestano l’idea di Aristotele secondo la quale Dio non conosce il mondo che crea. Mettono in luce come l’atto creativo di Dio non può essere concepito che come un atto libero. Se così non fosse bisognerebbe concepire un dio limitato in una delle sue qualità più importanti, cioè la libertà. La conseguenza importante del fatto che la creazione è un atto libero e non necessitato è che il vero e il bene sono predicati trascendentali dell’essere. In altre parole significa che la realtà creata è vera e buona intrinsecamente in quanto è stata liberamente voluta da Dio. Il creato, proprio perché voluto da Dio, non può che essere buono e vero in sé stesso. In virtù di questo fatto è possibile concepire il mondo creato come buono e vero ed è possibile concepire anche il concetto di Provvidenza.

Problema della verità nella Veritatis Splendor (1993).

Il titolo di questa enciclica è già un’anticipazione di quella che è la tesi di Giovanni Paolo II: lo splendore della verità. L’idea che la verità abbia una sua forza in grado di imprimersi in noi. A questo titolo si può opporre l’oscurità della verità, che per molti pensatori di oggi rimane qualcosa di difficilmente conoscibile. Ci occuperemo di gnoseologia per fare una riflessione sul modo in cui l’uomo conosce. Fare filosofia della conoscenza significa filosofare sul modo in cui l’uomo conosce. Il conoscere è un atto che compiamo in modo fisiologico. Vediamo la realtà senza aver fatto filosofia della conoscenza. L’attività del conoscere è un’attività innata nell’uomo. Di questa enciclica del ’93 ci interessano gli scopi. Esistono due ragioni. Il primo motivo è di carattere interno alla Chiesa. Il cristianesimo ha tra i suoi obiettivi fondamentali anche la necessità di indicare all’uomo una strada. Bisogna rifuggire dall’idea che il cristianesimo sia soltanto l’affermazione di un fatto. È certamente l’affermazione di questo fatto ma si pone anche il problema di diventare una prassi. Se fosse solo il ricordo di un avvenimento del passato assomiglierebbe di più a una teoria. Invece il cristianesimo è una comunicazione di esistenza (Kierkegaard). C’è la necessità di proporre all’uomo concreto una strada percorribile nella vita concreta di tutti i giorni. C’è poi un motivo esterno per cui è stata scritta l’enciclica. La Chiesa intende, quando fa riflessioni di natura antropologica, aprirsi a tutta l’umanità e offrire la sua riflessione a ogni uomo di buona volontà. Questo perché è buona norma ascoltare e conoscere ciò che la Chiesa ha da dire quando si occupa di questioni che riguardano la vita dell’uomo. Soffermiamoci sul primo motivo, quello interno. Joseph Ratzinger fa notare come la religione cristiana in origine venisse chiamata “via” o “strada”. Questo significa che il cristianesimo impegnava e impegna l’essere umano allo sforzo di condurre un certo stile di vita. La fede non è una teoria ma è una prassi. È sì necessaria una dottrina, ma non è solo una teoria astratta. È necessariamente una prassi. In questo senso il tema della fede include il tema della morale. Non si può ridurre il credere a generici e fumosi ideali. Oltre a degli ideali è necessario che la dimensione del credere abbia anche delle indicazioni per la vita di ogni giorno. Fin dall’inizio i cristiani si differenziano dalle altre forme di religiosità proprio perché hanno da testimoniare non soltanto con un messaggio ma anche con una testimonianza vivente. Un cristianesimo che fosse solo ideale non sarebbe più cristianesimo. L’avvento del protestantesimo ha intrapreso un po’ quella via. Vi sarebbe un fenomeno rilevantissimo come la rivelazione e l’incarnazione, ma poi si lascerebbe vagabondare l’uomo senza indicare delle inclinazioni morali certe. Da questo punto di vista questo compito di aiutare l’uomo a trovare la strada è il compito che la Chiesa rivendica anche nell’epoca moderna. Sul secondo motivo bisogna partire da una considerazione: il problema di cosa sia giusto e ingiusto è problema di ogni uomo e oggi più che mai è una ragione che coincide con la stessa sopravvivenza dell’umanità. Se l’umanità smarrisce la via, la sua stessa sopravvivenza è in pericolo. Esiste anche una ragione esterna della pubblicazione di questa enciclica: la possibilità dell’uomo di conoscere la verità e i valori; la capacità dell’uomo di riconoscere se un’azione è buona o cattiva. La modernità tende a mettere fortemente in dubbio la capacità dell’uomo di conoscere la realtà. Si può descrivere questo fatto anche dal punto di vista morale. Tutti i principi a cui facevamo riferimento vengono messi in discussione. Se l’uomo non può conoscere la verità non può conoscere cosa è bene e cosa è male. Questo fatto è così diffuso che molti pensatori hanno sostituito la domanda classica della riflessione morale che è “che cosa è lecito fare all’uomo?” con la domanda “che cosa siamo in grado di fare?”. Questo salto logico pone sullo stesso livello ciò che l’uomo può fare con ciò che è lecito fare. Oggi per poter mettere al mondo un figlio si può utilizzare la fecondazione in vitro. Fino al 1978 non era possibile. Oggi sì. La domanda morale è “è lecito fare questo ancorché è diventato praticabile?”. Oggi si tende a fare questo capovolgimento logico: se è praticabile allora è lecito. In questo la riflessione morale stessa viene spazzata via perché la caratteristica della riflessione morale sta proprio nel chiedersi se una cosa che sono in grado di fare sia lecito e giusto farla. La domanda morale è sempre su qualcosa che l’uomo è in grado di fare. Dobbiamo constatare che l’uomo contemporaneo tende a far identificare la praticabilità di una certa azione con la liceità dell’azione medesima. Su tutte le frontiere dell’etica si tende a fare questa identificazione: se si può fare perché non farlo. Questo è uno dei paradossi della tecno-scienza. Oggi viene chiamato “imperativo tecnologico”: se è possibile farlo non soltanto è possibile farlo ma devi farlo. Questa visione tecnica ha messo in crisi il parametro della veridicità. Viene preso per vero solo ciò che è matematicamente dimostrabile. Siccome la morale, per sua natura, non rientra fra le branchie del sapere umano dimostrabili con una forma algebrica, la morale scivola inesorabilmente nel territorio dell’opinabile. La nostra società tende a ritenere che solo che è dimostrabile matematicamente è vero. Se la morale diventa opinabile ecco che il relativismo di diffonda a macchia d’olio. Bisogna invece fare riferimento a assoluti morali, affermazioni valide in sé stesse. In questo scenario, in cui la morale è il territorio dell’opinabile, il massimo grado del valore è la tolleranza di tutti i pensieri. Questo relativismo si diffonde e ci si deve affidare alla saggezza del singolo, all’autodeterminazione. La morale classica basata su un criterio di oggettività viene messa in crisi con la relativizzazione generale e si propongono nuovi modelli di morale:

1. Modello teleologico (da telos, che guarda alla finalità dell’azione). La riflessione morale viene spostata sul fine per cui si compie una certa azione

2. Modello consequenzialista. Si giudica della bontà di una certa azione tenendo conto delle conseguenze della sua azione. Le conseguenze previste ci permettono di dire se quella persona sta agendo correttamente o meno.

3. Modello proporzionalista. Bisogna perseguire l’azione che promette di garantirci in proporzione il miglior rapporto tra male e bene. Non c’è più un’azione di per sé cattiva ma anche un’azione cattiva può essere accettata dalla morale se promette dei risultati positivi.

Sono approcci caratterizzati da un dato originario comune: non possiamo conoscere una norma che derivi dall’essenza stessa dell’uomo e delle cose. La morale classica dice che uccidere è sbagliato di per sé perché l’uomo è un bene assoluto. Chi uccide l’innocente sta violando questo valore. La moralità dell’atto umano non dipende più dal contenuto dell’atto in se stesso ma dalle conseguenze dell’atto. Il concetto di buono in se stesso non esiste più ed è rimpiazzato da una sorta di equazione quantitativa. Il buono è sempre relativo rispetto a un altro atto.

Filosofia teoretica Gen 8

Nell’ultima lezione avevamo visto diversi approcci morali che superano l’impostazione classica a proiettano l’attenzione della ragione non tanto sull’azione in se stessa quanto piuttosto sulle conseguenze dell’azione (concezione teleologica, consequenzialista, proporzionalista). Sono tre grandi modelli di riflessione morale che hanno conosciuto un certo successo che vengono criticati dalla Veritatis Splendor. Questi modelli peccano di alcuni errori. L’elemento comune di questi tre modelli è che si presuppone che l’essere umano non sia in grado di conoscere una norma derivante dall’essenza stessa dell’uomo e delle cose. Quindi non è possibile questa essenza e ricavare un giudizio morale di tipo assoluto. L’immoralità di una certa condotta non dipenderebbe dal contenuto dell’atto compiuto ma dalle conseguenze dell’atto. l’attenzione del giudizio morale viene spostato dall’atto alle conseguenze dell’atto stesso. Il concetto di buono e cattivo in sé evapora e viene sostituito da una sorta di comparazione: buono è ciò che è migliore di qualcos’altro. Questi tentativi del pensiero moderno rispondono a un desiderio legittimo di cercare di superare i problemi rappresentati da una concezione relativista. Il relativismo è una forma di pensiero molto diffusa: l’uomo rifiuta la capacità di conoscere le verità oggettiva. La verità oggettiva è una verità evidente o conoscibile. Il relativismo nega che si possa riconoscere una verità oggettiva. Vi rimando al messaggio che Papa Benedetto XVI diffuso in occasione della giornata mondiale della pace: “I diritti umani hanno senso e sono fondati se a loro volta si fondano sulla dignità della persona umana. Viceversa, nel pensiero contemporaneo, proprio per il prevalere di questa deriva relativista, c’è la tendenza a negare la definibilità di una natura umana oggettiva, cioè di un valore intrinseco della persona. Si preferisce dire che esistono i diritti fondamentali della persona umana ma essi non poggiano su un assoluto, su un valore che sia oggettivo”. La riflessione filosofia produce effetti molto pratici sulla vita. C’è una pluralità di definizioni dell’uomo contraddittorie che fanno entrare in crisi l’oggettività dei valori dell’uomo. Questi tre approcci cercano di superare le aporie del relativismo ma senza successo. L’enciclica ha certamente una valenza pastorale ma sviluppa anche una riflessione di carattere squisitamente antropologico. L’enciclica dita la lettera ai Romani: “Quando i pagani, che non hanno la legge, per natura agiscono secondo la legge, essi pur non avendo legge sono legge a se stessi. Dimostrano che quanto la legge esige è scritto nei loro cuori come risulta dalla testimonianza della loro coscienza e dei loro stessi ragionamenti”. Esiste nei cuori umani un bisogno di verità. La riflessione sulla verità non è una riflessione confessionale ma è aperta a tutti gli uomini. Questa riflessione sul problema della verità in fondo non è un problema individuale, di coscienza? Perché discutere su queste questioni, quando si può tranquillamente dire che ognuno la pensa come vuole? Nelle questioni tecniche si impone un’oggettività quasi dogmatica, ma quando si passa al terreno della filosofia tutte le conclusioni sono ritenute equivalenti. Il fare filosofia significa riflettere sull’uomo: per cui la filosofia non deve creare sistemi coerenti al loro interno, ma sistemi coerenti con la verità e con l’uomo. Il problema è un problema collettivo, che riguarda un bene comune. Fare una riflessione sul problema della verità tocca anche questioni che riguardano il bene comune. Circa la struttura dell’enciclica, abbiamo detto che essa partiva da una doppia prospettiva, una interna e una esterna. L’enciclica parte dal commento di un brano evangelico di Matteo molto noto, l’episodio del giovane ricco: “Ecco, un tale gli si avvicinò e gli disse: <> Egli rispose: <>. Ed egli chiese: <>. Gesù rispose: <>. Il giovane gli disse: <>. Gli disse Gesù: <>. Udito questo, il giovane se ne andò triste, perché aveva molte ricchezze. Gesù allora disse ai suoi discepoli: <>. A queste parole i discepoli rimasero costernati e chiesero: <>. E Gesù, fissando su di loro lo sguardo disse: <>”. Come tutti i brani del vangelo, vi è dentro una grande ricchezza. Al papa interessa piuttosto la prima parte del dialogo. In questo brano c’è un evidente riferimento a uno dei problemi fondamentali della riflessione filosofica. Il problema del senso della vita e di riflesso il problema del bene e del male. Non siamo di fronte a una predicazione morale di tipo astratto, ma a prendere l’iniziativa in questo dialogo è stato il giovane. Il giovane chiede cosa si deve fare per avere la felicità, la vita eterna. Questa domanda è una domanda squisitamente umana. All’origine di tutto c’è una domanda che tutti ci portiamo dentro sul senso della vita (non in astratto, ma in concreto). La domanda sul senso della vita diventa anche una domanda sulla via da seguire. Vi è la percezione da parte dell’uomo che comunque il senso è un problema di strada da percorrere. Il giovane ricco chiede difatti cosa “deve” fare. Il giovane ricco è in una posizione già avvantaggiata. Ha già chiaro quale è lo scopo della vita. Ha chiaro anche che la domanda di felicità può trovare una domanda reale. Il giovane ricco non è disperato ma sa che esiste il senso della vita e che questo scopo è perseguibile concretamente. Il fatto che il giovane abbia chiesto al maestro dei consigli manifesta il fatto che l’uomo, da solo, non è in grado di trovare una risposta completamente esauriente circa il senso della sua esistenza. La risposta, suggerisce il vangelo, è in Cristo, che ha la risposta giusta. È una risposta che passa per la riaffermazione di valori che Cristo non rinnega. I precetti ripetuti da Gesù vengono dall’antico testamento. Il giuramento di Ippocrate, redatto sull’isola di Cos, contiene una serie di precetti che coincidono con quelli detti da Cristo. Ciò vuol dire che c’è una riconoscibilità di quella legge naturale che il giovane ricco riconosce già da sé. Gli viene chiesto poi un passo ulteriore che il giovane non è disposto a compiere. La domanda che ognuno ha nel cuore è “cosa devo fare per avere una vita piena, felice?”. L’altro spunto di riflessione è la schermaglia sul concetto di bontà. Tutti gli uomini ricercano il bene. Anche quando l’uomo insegue un male sempre è convinto di fare qualcosa che gli porti un giovamento. Questo aspetto non deve mai farci dimenticare che l’uomo non si identifica con il bene. L’unico buono senza limitazioni è Dio. Raggiungere una vita morale significa tentare di assomigliare a Dio. I dieci comandamenti sono una sorta di identikit di Dio. C’è un legame intrinseco tra i precetti morali e il bene dell’uomo. I precetti di Dio rispondono alle buone esigenze dell’uomo. Seguendo i principi morali l’uomo realizza la vita buona. Il Dio cristiano è razionale. Quando dice all’uomo “non uccidere” dà non solo un comando ma un mezzo per vivere bene. Ciò che è buono però non sempre è facilmente raggiungibile. Spesso si accompagna a una serie di rinunce e conflitti. La complessità dell’umano deriva dal fatto che l’uomo può compiere il male pur sapendo che una certa azione è male. Una volta che ho riconosciuto il bene e il male non ho ancora messo in atto una vita morale perché posso essere incoerente. Questa riflessione estrapolata richiama il tema della legge naturale. Chi cammina sulla via del decalogo è una persona sulla via di Dio. Cercando Dio si cerca una vita morale e viceversa.

La riflessione sulla verità coinvolge il tema della libertà. La riflessione sulla libertà, dopo la caduta del muro di Berlino, è riconsiderata. C’è una concezione della libertà oggi molto diffusa che fa coincidere la libertà con l’arbitrio. Essere liberi significa oggi poter fare ciò che si vuole. Questa riduzione è distruttiva perché taglia in modo forte qualsiasi rapporto tra il concetto di libertà e quello di verità. La domanda sulla verità è la chiave di lettura per cogliere il significato del concetto di libertà. La verità può essere trovata nel nostro essere uomini in quanto tali, cioè nella nostra essenza. La verità non è un concetto altro all’uomo, ma trova fondamento in una corretta antropologia. Il discorso sulla legge naturale non nasce con il cristianesimo ma è presente genericamente nei filosofi classici. La legge naturale è una legge razionale. La legge naturale è – per Tommaso d’Aquino – la luce dell’intelligenza infusa in noi da Dio. La ragione umana rientra nella condizione umana. Questa natura umana ha una imperfezione intrinseca, non è onnisciente, non è la ragione di Dio. Oltre questa difficoltà intrinseca, la modernità è viziata dal diffondersi di una mentalità neomanichea, cioè il corpo dell’uomo viene considerato come un involucro biologico del tutto alieno rispetto ai beni morali più profondi. L’idea per cui da una parte c’è il corpo dall’altra c’è lo spirito è un errore che viene da lontano e che consuma un grave tradimento ai danni di una corretta antropologia, perché descrive l’uomo in una realtà in cui l’uomo sarebbe svincolato dall’anima e dalla dimensione dei valori. Questo modo di procedere è erroneo perché l’uomo è una totalità psicosomatica. Chi fa questa divisione tra beni di ordine morale e di ordine premorale. Secondo questa concezione ci sarebbero dei beni morali (l’amore per Dio, la benevolenza verso gli altri, le virtù), e ci sarebbero dei beni premorali (salute, integrità fisica, ecc.). Si ritiene se con un certo atto vengono lesi i beni premorali l’azione non è moralmente ingiusta. Ci si sofferma su una distinzione che ha lo scopo di assolvere tutta una serie di atti con questo escamotage. Ciò che conta è l’intenzione del soggetto. Se il soggetto ha agito con una intenzione buona, questo sarebbe di per sé sufficiente a rendere buona l’azione che ha compiuto. Questo è un errore. L’atto umano è sempre scindibile in tre aspetti: scopo, mezzo e circostanze. Per valutare la bontà di un’azione morale occorre che tanto l’oggetto che lo scopo siano buoni. Uno scopo buono non è sufficiente a rendere buona un’azione che sia oggettivamente cattiva (cioè, il fine non giustifica i mezzi). In questo modo l’etica e morale si riduce a scienza delle buone intenzioni. Per definire se una azione è giusta o sbagliata occorre accordarsi su chi sia l’uomo. L’etica prende le mosse da una corretta antropologia. Il problema è che si presuppone l’impossibilità di una conoscenza metafisica. Questo errore del pensiero moderno si ripercuote sulla riflessione morale. Si dice che oggi non conosciamo l’essenza delle cose; quindi non conosciamo chi è l’uomo; quindi non possiamo elaborare un sistema morale di carattere oggettivo. Le etiche moderne (Teleologia, proporzionalismo, consequenzialismo) rinunciano al concetto di essenza e si rifugiano in un’etica della discussione. Parliamo di etica della discussione perché assistiamo alla creazione di nuovi modelli etici che legano mani e piedi al criterio del consenso. È impossibile conoscere chi è l’uomo. È impossibile ricavare un criterio oggettivo. Allora si passa a un’etica della discussione per conoscere il consenso dei più. Questo consenso definirà i contenuti di un’etica che però è in sé stessa transitoria, perché il consenso è per sua natura un concetto in trasformazione. Un esempio di assoluto morale è uccidere l’innocente. Oggi, con l’etica del consenso, uccidere un innocente è sempre sbagliato? Discutiamone. Se dalla discussione vien fuori che esiste un consenso per derogare il principio modifichiamo il principio. Questo è lo scenario dell’uomo contemporaneo. La discussione non può essere considerato come ciò che genera la verità. La verità non è il risultato di un dibattito, ma precede il dibattito. Questa affermazione oggi è profondamente provocatoria. L’idea diffusa è che la verità è qualcosa creata dal confronto. Questo dal punto di vista logico non sta in piedi. L’incontro fra pluralità può generare il compromesso per la convivenza, ma non la verità. Non si può dire che un confronto genera la verità. Anche nella società democratica e pluralista il confronto non genera verità, ma può essere a volte il sepolcro della verità. La verità non può essere messa ai voti. Se la democrazia è solo un sistema nel quale la maggioranza decide ogni cosa si creano presupposti per scelte di tipo totalitario. Il problema vero è cosa si può fare per evitare che i sistemi di oggi imbocchino una deriva relativista. Per evitare ciò bisogna filosofare e riconoscere valori non sottoponibili alla dialettica maggioranza-minoranza. La verità precede il dialogo.

Rapporto fra riflessione morale e la natura umana. Un problema sollevato spesso nei secoli e nel ’900 è sulla possibilità dell’uomo di vivere una vita morale. Di ciò si trova eco nell’obiezione dei discepoli a Cristo nel brano trattato. I discepoli dicono che allora è impossibile per un uomo ricco entrare nel regno dei cieli. Allora una vita buona è qualcosa di bello ma di umanamente impossibile. Questa è un’obiezione molto solida. Nella vita di tutti giorni tutte queste cose restano sulla carta. Di solito si dice che chi parla di queste cose è poi incoerente. Quest’idea ha fatto sì che quei concetti (proporzionalismo, teleologismo, consequenzialismo) sembrano proporre un cammino più alla portata dell’uomo. È una sorta di diminuzione dell’esigenza morale a un livello più basso. Alcuni pensano che sia impossibile formulare norme negative assolute (non rubare; non uccidere). Queste dottrine dicono che è impossibile formulare delle norme negative assolute ma bisogna valutare un atto a seconda dell’intenzione e dalla previsione delle conseguenze. Se ci si pensa bene l’effetto di queste dottrine è da un punto di vista esistenziale esattamente il contrario. Caricano l’uomo di un peso insopportabile: prevedere davvero tutte le conseguenze dei nostri atti. Nessun uomo può valutare le conseguenze delle azioni che compie. È molto più semplice riconoscere l’oggettività di un’azione. Mentire sul luogo di lavoro è sbagliato. Se entro nella prospettiva proporzionalista entro in una spirale senza fine per valutare tutte le conseguenze. L’altra deriva di queste dottrine è quella di tipo situazionistico. Sono concezioni che ritengono che non esista un’oggettività morale ma che invece l’uomo debba risolvere i suoi problemi morali con un’etica delle circostanze. A seconda della situazione si deciderà il da farsi. In queste dottrine diventa importante il ruolo giocato dalla coscienza. Alcune dottrine negano la possibilità che si riconoscano razionalmente dei precetti morali negativi. La soluzione è affidare il problema dei precetti morali negativi alla coscienza individuale. A ogni individuo spetta scegliere e valutare se quella azione è giusta o sbagliata per lui. Questa deriva comporta un problema insormontabile: soggettivismo morale. Per questa dottrina non c’è un sistema i valori oggettivi. Nel pensiero moderno i precetti morali negativi devono essere affidati alla interpretazione individuale della coscienza. Questo passo fa sprofondare un sistema morale nelle sabbie mobili del soggettivismo. Ognuno, a questo punto, rischia di interpretare la norma morale a suo uso e consumo.

Filosofia teoretica Gen 15 A

Veritatis Splendor. In quest’enciclica sono riaffermati alcuni concetti fondamentali che ci introducono al problema gnoseologico. Il titolo connota la presa di posizione. Si inserisce in una concezione classica, Per buona parte della filosofia classica fino al XV sec. era dato per assodato che la verità fosse conoscibile. La relazione del pensiero umano e del pensiero con la realtà erano un elemento scontato. La verità si manifesta all’uomo. Ciò ha anche un’implicazione teologica: la vera luce dell’uomo è Cristo. Inoltre, la verità non è facile ma è possibile. L’obbedienza alla verità non è facile. Si inserisce in questo caso la ferita del peccato originale e si inserisce anche una realtà intelligente, che la tradizione cristiana chiama satana, padre della menzogna. Una delle caratteristiche di colui che opera per la perdizione delle anime è la menzogna. La verità si intreccia in maniera stretta con una dimensione esistenziale drammatica della storia umana. La diffusione della menzogna e dell’idea che la verità non sia conoscibile ha questa paternità. Questo rende più difficile il cammino dell’uomo. Nella profondità del cuore di ognuno permane sempre la nostalgia della verità assoluta e la sete di giungere alla pienezza della sua conoscenza. Il fatto che l’uomo si contraddistingue sempre per una forte attività di ricerca è significativo dell’esigenza e della natura dell’uomo. La verità si trasforma in una domanda inevitabile e trova una risposta in Cristo. Infatti la domanda morale del giovane ricco è una domanda per tutti gli uomini, anche i non cristiani. C’è l’invito a non conformarsi alla mentalità di questo mondo. Il compito che la filosofia ci insegna è ragionare con la nostra testa. Il problema del non conformarsi al tempo presente è una grande sfida del filosofo. La non conformità alla mentalità di questo mondo trova nell’enciclica un riferimento al passo del vangelo, in riferimento al tema della legge naturale. Parlando della ricchezza i discepoli si spaventano quando il loro maestro dice che “è più facile che un cammello (tipo di corda) passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli”. Nello stesso tempo lo sconcerto riapparirà quando Gesù afferma la dottrina sulla indissolubilità del matrimonio. Cristo dice che non è lecito lasciare la propria moglie o il proprio marito. Allora i discepoli rispondono che non conviene nemmeno sposarsi. La legge mosaica consentiva formule di divorzio (ripudio). Cristo si contrappone alla legge mosaica chiamando in causa proprio la legge naturale, una legge preesistente alle convenzioni degli uomini. Gesù si rifà alla legge naturale. È interessante ribadire come vi è un legame in tutta la tradizione cristiana con una verità che non è tale perché affermata dalla divinità, bensì il contrario: è affermata dalla divinità perché vera. Si esce da una concezione che anche altre religioni hanno. La verità è vera perché razionale. La verità non si impone con la forza, ma con la sua corrispondenza alla realtà. Esistono fatti che possiamo affermare essere veri in senso assoluto. Il punto di vista del pensiero critico della filosofia moderna ha cercato di dimostrare che queste verità non sussistono. Nella tradizione cristiana la veridicità di un concetto è intrinseco. La verità del matrimonio viene prima della legge mosaica. Un’altra affermazione dell’enciclica è “conoscerete la verità e la verità vi farà liberi”. In questa frase sono presenti in concetto di verità e di libertà. In questa frase c’è un capovolgimento rispetto al modo col quale siamo abituati a pensare oggi. C’è una sequenza logica molto interessante. La verità rende libero l’uomo. Nella mentalità corrente viene ritenuto vero il contrario. L’autenticità della persona risiede nel suo essere libero. Sperimenta la libertà, agisci con autonomia, scegli ciò che vuoi e così realizzerai la tua natura umana. Qui invece viene data priorità alla verità. La verità genera libertà. Il giusto è un passaggio necessario per essere uomini liberi. Si confrontano due concezioni fra loro irriducibili. Da un lato la natura dell’uomo è la libertà e la libertà si manifesta nel suo arbitrio. In questa concezione il concetto di verità in senso oggettivo non c’è. Invece l’enciclica manifesta l’esigenza del confronto con la verità per trovare la libertà. Ciò significa che i criteri di riferimento del bene e del male non sono criteri che possono essere creati dalla coscienza individuale. La mia coscienza ha il compito di applicare dei criteri oggettivi alla vita concreta di tutti i giorni. La mia coscienza deve riconoscere che esiste il precetto. La coscienza permette di confrontare la verità con la mia circostanza concreta, non è la fonte del criterio di giudizio. Henry Newman diceva che la coscienza ha dei diritti perché ha dei doveri. Ulteriore considerazione è il rapporto tra libertà e legge. Si richiama un brano dell’antico testamento con riferimento all’episodio del peccato originale. C’è l’albero in questo giardino. Nel giardino ci sono l’uomo e la donna che hanno a disposizione l’intero spazio, ma con questa prescrizione: “potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino ma non devi mangiarne dell’albero della conoscenza del bene e del male. Quando tu ne mangiassi, sicuramente moriresti”. Adamo ed Eva hanno a disposizione tutti i frutti. L’unica cosa chiesta è non nutrirsi dei frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male. Questo albero di cui l’uomo non può coglierne i frutti rappresenta il peccato originale, che consiste essenzialmente in questo: nel desiderio e nell’atto da parte dell’uomo di voler stabilire autonomamente i contenuti della legge morale. Quando il serpente per convincere Eva della bontà del frutto proibito la convince dicendo che mangiandone potrebbe “diventare come Dio”. Questo diventare come Dio è riferito e riferibile alla facoltà dell’uomo di diventare norma a sé stesso, il legislatore del bene e del male. L’uomo ritiene di non aver più bisogno di un Dio che ha l’autorità, che insegna cosa è bene e cosa è male, ma vuole diventare egli stesso l’unica fonte in grado di stabilire cosa è giusto e buono. Qui ritorna il senso di quella domanda provocatoria che Gesù fa al giovane ricco: “perché mi chiami maestro buono?”. Gesù vuole ricordare che solo uno è buono, Dio. Dio, essendo la bontà, sa perfettamente quello che è buono per l’uomo. La modernità è il tempo in cui si cristallizza questo tentativo dell’uomo di diventare norma a sé stesso (negazione della metafisica, relativismo, scetticismo). La conoscenza dell’uomo diventa un problema. Questi sono alcuni tratti dell’enciclica. Questo percorso nasce da questa ambizione, ybris, tracotanza dell’uomo. Non è male che l’uomo conosca; il problema è volersi sostituire alla legge naturale per ridefinire i criteri del giusto e dello sbagliato. Tutta la dinamica della redenzione risulterebbe inspiegabile se non si tiene per ferma l’esistenza di una colpa originale: il peccato originale. Ogni uomo rivive la tentazione di Adamo e Eva. Quello che accade nella mia vita non risulta spiegabile se no riconosco una misteriosa ferita che gli uomini si portano dietro da secoli. Il mistero del male si inserisce in questa visione e nella esistenza di satana. Se l’uomo ha la ferita originaria ogni uomo è potenzialmente capace di ogni delitto.

15 GEN B

La filosofia della conoscenza – gnoseologia

Ha origini nella tradizione greca, ma l’origine di questa branca della filosofia va ricollegata piuttosto alla filosofia anglosassone, perché è in questo contesto che si sviluppa e conosce la sua massima espressione.

Quando si parla di gnoseologia si fa riferimento ad un atteggiamento che viene chiamato atteggiamento critico. Perché? Perché con questa formula si vuole definire la posizione di quei filosofi che si proponevano di non accettare nulla come dato e stabilito in modo assoluto. In pratica l’atteggiamento critico cerca di erodere il più possibile delle certezze all’interno della riflessione umana. Questo obiettivo si espone ad una serie di considerazioni critiche a partire dalla considerazione che non è possibile criticare tutto.

In generale il pensiero critico è un pensiero che trae la sua origine da quella corrente di pensatori che ha l’obiettivo di emancipare l’uomo da qualsiasi punto di riferimento oggettivo attraverso il DUBBIO UNIVERSALE. Si vuole arrivare alla totale assenza di presupposti. Questo progetto che ha preso le mosse intorno al XIV secolo,e in realtà non è stato raggiunto. Questo fallimento trae origine dal fatto che i presupposti nel pensiero umano e nella conoscenza, sono sempre necessari. Qui siamo in un circolo vizioso, perché pretendo di arrivare ad una affermazione certa,” lo strumento col quale l’uomo conosce è inaffidabile”, ma x arrivare a questa affermazione devo utilizzare lo strumento che considero inaffidabile. Quindi il pensiero critico si imbatte contro questo paradosso, è una specie di processo alla ragione umana, fatta utilizzando la stessa ragione umana. Il filosofare deve sempre fare i conti con alcuni presupposti. Ad es. : per fare gnoseologia io devo esercitare l’atto del conoscere e successivamente analizzare questo atto del conoscere. Ma se le cose stanno così, vuol dire che io devo presupporre che l’atto del conoscere sia possibile. La gnoseologia mi darà delle risultanze nel fatto che io osserverò criticamente il processo del conoscere, ma questo processo del conoscere non lo posso sottoporre ad una critica radicale. Non è possibile una teoria della conoscenza che non parta dalla constatazione che l’uomo conosce. Questo atteggiamento critico ha manifestato segni di contraddizione che porta a riconsiderarlo in un senso più ragionevole.

Partiamo da una considerazione di carattere etimologico: ATTEGGIAMENTO CRITICO - CRITICA- CRITICARE. Criticare vuol dire scegliere, giudicare secondo un ideale. Non è possibile criticare se non esiste un ideale a cui si fa riferimento. Quindi atteggiamento critico vuol dire giudicare con un criterio. In questo senso abbiamo una accezione della gnoseologia, assolutamente condivisibile perché significa elaborare un giudizio critico con la nostra testa.

Tra gli autori che hanno avuto un ruolo importante nell’atteggiamento critico , un posto importante occupa HOCKHAM, padre del NOMINALISMO.

Questo autore è stato utilizzato anche in letteratura per questa sua posizione filosofica che si può riassumere con questo concetto : noi non abbiamo conoscenza della essenza delle cose , ma noi conosciamo soltanto i nomi (riferimento al romanzo “Il nome della rosa”). C’è una critica serrata anche a questo modo di desumere da una serie di indizi certe cose, perché i segni che l’uomo vede nel mondo, in realtà hanno un significato plurimo, cioè non hanno un significato oggettivo. Il nominalismo fa questa critica alla conoscenza della persona umana, perché noi conosciamo la superficie. Al contrario nel pensiero classico si ritiene che si possa conoscere l’essenza delle cose. Ad esempio c’è una frase in Romeo e Giulietta che recita: “ se anche le rose cambiassero il loro nome, continuerebbero ad avere lo stesso profumo”.

Se i nominalisti hanno ragione, l’uomo non conosce nulla, conosce solo delle rappresentazioni della realtà che ciascuno di noi si fa. E a partire da queste considerazioni, che la gnoseologia diventa problematica, nasce cioè l’atteggiamento critico. Il processo del conoscere diventa inaffidabile. Questo modo di porsi comporterà una conseguenza molto importante che culminerà nella riflessione di Cartesio COGITO ERGO SUM. Una delle conseguenze immediate è che i filosofi affermeranno il primato del pensiero sull’essere: qui l’unico punto di riferimento che ha l’uomo infatti è il pensare. Da questo filone di pensiero l’essere umano viene ridotto al pensare. Nell’impostazione classica invece, è sempre stato sostenuto il primato dell’essere perché il pensare è una qualità dell’umano che per manifestarsi ha bisogno dell’esistenza. Invece dal nominalismo e da Cartesio si capovolge la prospettiva : il pensiero è l’elemento rivelatore dell’esserci e del non esserci, ma non si confronta con l’essenza delle cose che non si possono conoscere.

Le conseguenze sono state evidenti, perché se hanno ragione i nominalisti, non è possibile arrivare ad un giudizio di verità. Non ho più alla mia portata dei criteri di giudizi oggettivi. La riflessione è collegare questi aspetti teoretici con la vita di tutti i giorni. Cartesio nella storia della filosofia ci dice che l’essere si risolve nella sua coscienza, intesa come autocoscienza, capacità di pensiero. Per cui se si accetta questa impostazione del primato della coscienza sull’essere, la conseguenza che se ne ricava è che la nostra ragione è come se fosse in una stanza chiusa, perché non potendo conoscere l’essenza delle cose, la ragione dell’uomo non attinge le informazioni dall’esterno, ma solo dalle proprie idee. Quindi c’è una incomunicabilità tra l’intelligenza dell’uomo e la realtà che la circonda. Questa concezione spiega molti modi di vivere della società odierna. Kant si inserisce dentro questo filone e si impegna a costruire una filosofia costruita con l’obiettivo di contrapporsi alla concezione classica ( S Tommaso, Aristotele parte della filosofia pre-cristiana). Il meccanismo della conoscenza è in relazione con la realtà ma attinge anche ad altri concetti.

Filosofia teoretica Feb 15

Eravamo arrivati ad introdurre il concetto di gnoseologia. Abbiamo visto il ruolo giocato da Guglielmo da Ockham che ha dato inizio a una certa corrente. Per gnoseologia si possono intendere due modi di intendere questo problema:

1. Modo classico. Sana riflessione per capire il meccanismo col quale l’uomo conosce la realtà. Per filosofia della conoscenza non si intende nulla di rivoluzionario ma solo qualcosa che fa parte della metafisica.

2. Problema critico. A partire da Guglielmo da Ockham parte l’idea critica nel senso dirompente del tempo. alcuni filosofi contestano radicalmente la possibilità stessa di conoscere la realtà. È una critica alla affidabilità della conoscenza. Ecco il perché del concetto di problema critico: mettere in dubbio tutto il processo della conoscenza e affermare che la nostra conoscenza non è affidabile. L’uomo non è in grado di conoscere la realtà.

Ockham si segnala per il suo pensiero nominalistico: per lui l’uomo conosce solo il nome delle cose. Tutto è convenzione. Non è possibile conoscere l’essenza delle cose. L’unica capacità conoscitiva che Guglielmo riconosce è quella conoscenza diretta che l’uomo ha delle cose individuali. Posso vedere e toccare un certo oggetto determinato ma è l’unico livello della conoscenza praticabile. Guglielmo di Ockham nega la conoscenza di tipo astrattivo. Quando l’uomo astrae entra in un territorio che è fonte di inganni. Questa concezione ha avuto riscontri nei secoli successivi, influenzando altre teorie, tra cui l’empirismo. L’empirismo dice che l’uomo conosce gli oggetti in quanto direttamente conoscibili o grazie a una specie di intuizione o in forza di una intuizione razionale. In ogni caso, si inaugura nel pensiero filosofico una concezione scettica rispetto alla capacità dell’uomo di conoscere la realtà. Ciò dà origine a una concezione fortemente critica (dubitativa circa la possibilità dell’uomo di conoscere). L’autore che porta a compimento questa concezione è Immanuel Kant. Con Kant si opera una “rivoluzione copernicana”. Nel caso di Kant si capovolge il rapporto tra la persona e le cose conosciute. In altre parole, mentre nella concezione classica la realtà sta al centro e intorno ruota l’intelletto. Nella teoria classica l’essere umano deve adeguarsi e dipende dalla realtà che osserva; l’oggetto condiziona la mia intelligenza e io compio un atto conoscitivo vero quando ciò che dico è conforme alla realtà che osservo. Con Ockham e Kant si passa a una concezione capovolta: la realtà ruota intorno. Questo non è solo un cambiamento simbolico, ma è un cambiamento stanziale. Se accetto una concezione della conoscenza di questo tipo, cambia anche la definizione della verità. La verità non sarà più l’adeguarsi dell’intelletto alla cosa, ma è fortemente condizionata dal soggetto che percepisce. La realtà ha una oggettività per il mondo classico; la realtà dipende dal punto di vista per i critici. I prodromi erano già stati creati da Cartesio. Nel “cogito ergo sum” di Cartesio c’è una prefigurazione di quel capovolgimento successivo. In questa affermazione c’è il primato del pensiero sull’essere. Prima viene l’atto del pensare e poi l’essere. Il fatto che sto pensando è conferma dell’essere. Il pensiero classico invece diceva il contrario “primum vivere, deinde philosophari”. Prima si esiste, e solo dopo si può discutere. Per compiere qualsiasi atto prima si deve esistere. Cartesio pone con questa affermazione una svolta radicale. Introduce il primato del pensare sull’essere. Il capovolgimento scettico pone le basi per una relativizzazione dell’oggettività del conoscere. In verità, l’essere comanda sulla mia conoscenza, non il contrario. Il fatto del pensare a un oggetto non determina l’esistenza dello stesso, anzi, la richiede. La realtà esiste indipendentemente dal nostro atto del conoscere. Oggi siamo sempre più portati a pensare che è il nostro pensiero che genera la realtà. Cartesio è anche ricordato per il dubbio metodico, il dubbio cartesiano. Il dubbio cartesiano (il dubbio sistematico) è proprio un sintomo di questa concezione. Le conseguenze di questa concezione portano alla morte della filosofia. Se si afferma che viene prima il pensiero, segue la morte di Dio e della metafisica, e la morte dell’uomo: l’uomo diventa un soggetto incapace di conoscere ciò che lo circonda. Nell’Ottocento Nietzsche ha filosofato la morte di Dio. Se la filosofia è soltanto critica, demolizione della possibilità dell’uomo di conoscere, alla fine la filosofia mangia sé stessa. Se il pensiero è incapace di conoscere, è inutile continuare a filosofia. Questo filone della filosofia non è stato l’unico del novecento. Si è assistito a un forte ritorno a Tommaso d’Aquino. Questo ritorno al realismo critico (l’essere viene prima del pensiero) è un segnale di come il criticismo esasperato ha esaurito la propria spinta. Alla fine vediamo contrapporsi due concezioni filosofiche: chi crede che la realtà è la fonte di conoscenza, misura della verità; e chi crede che misura della verità sia il soggetto individuale. Se precisiamo il rapporto tra filosofia e gnoseologia dobbiamo superare l’idea per cui la gnoseologia deve essere considerata al vertice della piramide tra le domande del filosofo. Il filosofo cerca invece di rispondere a determinate domande che l’essere umano ha in sé. Il critico crede che il filosofo deve innanzitutto filosofare sulla gnoseologia. Questo approccio è innaturale. Ognuno di noi prima conosce e poi può discutere una riflessione su come è avvenuto questo atto. L’atto del conoscere viene fatto senza aver fatto una riflessione filosofica. Il bambino prima impara e poi conosce l’atto del conoscere. La gnoseologia va riconosciuta come una cosa utile e legittima ma non deve essere collegata al vertice della metafisica. Per quanto riguarda la terminologia: abbiamo detto che si può parlare di gnoseologia e filosofia della conoscenza, oppure critica. Quest’ultima definizione però mette l’accento su questa dimensione demolitiva. Anche pensatori classici si sono interrogati sui meccanismi della conoscenza. Aristotele ha scoperto un principio logico fondamentale: il principio di non-contraddizione. Non si può affermare che A è e non è. Questo principio ci dimostra che l’approccio corretto parte dall’essere. È l’essere che condiziona il giudizio. Tommaso d’Aquino affronta il problema della conoscenza. Mette l’accento sulla centralità dell’oggetto: la conoscenza è l’adeguamento della cosa conosciuta e dell’intelletto. Allo stesso tempo il luogo primario in cui si trova l’atto del conoscere è nell’intelletto. Queste due affermazioni sembrano contraddittorie. Le cose conosciute sono reali, ma l’atto del conoscere avviene nella mente. Bisogna cercare di capire come si collegano queste due entità. Già Agostino aveva detto: “Si fallor sum”. Agostino faceva in un dialogo serrato contro gli scettici. Gli scettici affermavano di non sapere nulla. Agostino risponde che se si afferma di essere perennemente in una condizione di incertezza, allora si è in una condizione in cui si può sbagliare. L’atto dello sbagliare presuppone l’esistenza. Quindi, essere scettico e vivere nel dubbio è una prova dell’esistenza.

Nella teoria della conoscenza è fondamentale scoprire il primato della realtà. Non a caso è stato osservato che educare significa introdurre alla realtà totale. Questa frase ci fa cogliere cosa significa fare esperienza della realtà. Ogni essere umano porta nel mondo una serie di domande, riassumibili così: cosa c’è intorno a me? Che senso ha ciò che mi circonda? Che valore ha ciò che mi circonda? Chi sono io? Che senso e che valore ho io? Queste domande sono contenute in ognuno. Bisogna educare il nuovo essere a rispondere a queste domande, a introdursi alla realtà totale. Se manca questa attività educativa l’uomo non è in grado di darsi una risposta automatica a questa domanda. Quando diciamo che c’è una mancanza di vera educazione si intende incapacità di relazionarsi con la realtà. Devo fare i conti con la realtà: contro i fatti non valgono argomenti. I fatti sono ostinati. Posso essere un bravo dialettico, ma i miei discorsi non modificano la realtà. Ecco perché l’agire morale ha una sua concretissima dimensione: quello che l’uomo fa accade e non può essere cancellato. Nella prospettiva della filosofia della conoscenza si può definire la verità come “adeguamento della cosa e dell’intelletto”. Cosa e intelletto, quando c’è una conoscenza vera, si identificano. Dobbiamo immaginarci che esiste una realtà conosciuta; oltre quella c’è uno strumento conoscitivo che è l’intelletto. Se ragionassimo come la filosofia critica diremmo che questa è un’ambizione da abbandonare. Invece sappiamo che l’essere umano ha delle verità. Per compiere l’atto conoscitivo devo esistere. C’è una identificazione della cosa conosciuta con l’intelletto. L’ente condiziona l’atto del conoscere. Questa definizione (verità come “adeguamento della cosa e dell’intelletto) fa vedere che l’essenza della verità è la conformità tra cosa e intelletto. Si adegua la mia intelligenza ad identificare la cosa reale. Questo atto implica che l’intelletto si è adeguato alla realtà esistente. L’ente, nella concezione tomistica, è la realtà conosciuta. In qualche modo dell’ente si può anche dire che equivale al vero. Una delle caratteristiche dell’ente è di essere conoscibile. Siccome tutta la realtà è potenzialmente conoscibile, una caratteristica dell’ente è la sua veridicità, nel senso di conoscibilità. Il giudizio sulla realtà può essere operato proprio dall’intelletto. L’intelletto può riconoscere la veridicità dell’ente. Quest’adeguamento dell’intelletto all’ente non è un adeguamento di tipo fisico-materiale, ma “formale”, che riguarda la forma, l’essenza. Io conosco l’ente perché nel posseggo la forma, e quindi mi conformo. Non esiste un triangolo perfetto, disegnato in maniera perfetta. Conosco l’ente perché lo osservo e ne conosco la “forma”. Si può usare anche il termine di “identificazione”. La conoscenza è l’identificazione tra ente e intelletto. Questo ci fa capire che l’intelletto possiede una capacità che l’ente non possiede: uscire da se stesso per adeguarsi all’ente. L’intelletto compie questa azione. La qualità dell’intelletto di uscire da sé è tipica dell’intelletto e non degli oggetti conosciuti. Possiamo riassumere affermando che il processo di adeguamento veritativo è una relazione intenzionale tra l’intelletto e l’ente. In questa relazione c’è protagonista l’uomo che mette la volontà. La volontà conoscitiva è intrinseca all’uomo. L’atto del conoscere è connaturale all’uomo. L’uomo è assetato di verità. Se l’intelletto ha questo ruolo attivo nello stesso tempo è l’ente a reggere l’intelletto e non viceversa. L’ente vincola, condiziona l’intelletto nella conoscenza. Kant invece pensava il contrario: l’intelletto regge l’essere. Tutto questo discorso che appare molto tecnico ha delle ricadute nella vita quotidiana: se accetto questa idea di verità allora la verità delle cose non dipende da quello che dico io, ma è il contrario. È la verità di quello che io dico che dipende dalle cose. La veridicità di una sentenza del giudice dipende dalla realtà delle cose. L’ente condiziona la verità. Molte volte il pensiero dominante ci induce a credere che il giudizio soggettivo condiziona l’ente. Tutto ciò che è stato detto può essere riassunto dicendo che “la verità è condizionata dall’ente al punto tale che l’entità della cosa precede la ragione di verità”. Viene prima l’esse del giudizio di verità. Secondo Tommaso d’Aquino ci sono discorsi razionali (vie) per dimostrare l’esistenza di Dio. Il problema di Dio presenta di fronte all’uomo due alternative: o questo Dio esiste o no. Queste due alternative non possono convivere. Non può essere vero contemporaneamente che Dio esiste e non esiste. La verità sulla esistenza e la non esistenza non è data dal giudizio dei più. L’esistenza viene prima del giudizio (che poi rimane libero). Il problema della verità precede il giudizio stesso.

In filosofia la verità si può descrivere con tre diverse modalità:

1. Verità come conformità dell’intelletto con la cosa

2. Verità come conoscenza vera

3. Verità come verità delle cose

In ognuna di queste tre definizioni c’è la concezione di adeguamento, di identificazione dell’intelletto. Accanto a questa centralità della cosa, Tommaso dice “che la verità si trova principalmente nell’intelletto piuttosto che nelle cose” (De veritate). Cerchiamo di capire come si conciliano queste due affermazioni (1l’ente regge l’intelletto; 2 la verità si trova principalmente nell’intelletto piuttosto che nelle cose). Abbiamo il nostro ente, la realtà. Essa esiste anche se il nostro intelletto non opera. L’atto del conoscere avviene nell’intelletto: sono io che conosco. Ecco perché Tommaso dice che l’ente regge l’intelletto, ma contemporaneamente la cosa conosciuta è primariamente nell’intelletto. Tommaso d’Aquino approfondisce il concetto di verità in relazione ai diversi tipi di intelligenza. Distingue tra intelligenza umana e divina. Aggiunge che l’intelligenza umana si divide in pratica e in speculativa. Per intelligenza umana pratica si intelligenza per mezzo della quale l’uomo riesce a realizzare e costruire determinati manufatti. La caratteristica di questa intelligenza è dar vita a realtà che non esistono. In questo senso l’uomo è artefice di determinati manufatti. L’intelligenza speculativa dell’uomo riceve dalle cose la conoscenza che possiede. È l’intelligenza condizionata dall’ente nell’atto conoscitivo. Questo tipo di conoscenza accoglie le cose per come sono. Abbiamo visto che c’è anche un’intelligenza divina. Essa è l’origine di tutte le cose che esistono ed è misura di tutte le cose, fin nella loro essenza. Questo tipo di intelligenza presenta delle analogie con l’intelligenza pratica dell’uomo. Anche l’uomo è artefice delle cose che costruisce. La differenza è che l’intelligenza divina è causa di tutte le cose, mentre l’intelligenza pratica umana è rilevante nel fieri, nel produrre l’oggetto, perché deve attingere dalla materia che già esiste. Questa distinzione serve per capire dove va la filosofia oggi. Una parte del pensiero contemporaneo dice che dobbiamo limitarci a riconoscere una dimensione di verità possibile solo al livello dell’intelligenza pratica, cioè al livello in cui l’uomo costruisce (tecnica). Secondo questo pensiero al di fuori di questo livello dell’intelligenza umana la verità non è possibile. Invece la concezione classica della filosofia riconosce la conoscibilità del vero anche al livello dell’intelligenza speculativa. Questa conoscenza del vero può avvenire soltanto se si mantiene ferma questa idea (e non si scivola nell’errore kantiano) che l’ente è al centro del processo di conoscenza.

22 FEB A

Il problema critico e la gnoseologia (parte del programma del testo di Aguilar G. )

Una delle questioni che abbiamo visto è che la riflessione sulla conoscenza può essere interpretata o con un atteggiamento dove il problema critico è da intendersi come radicale negazione della possibilità per l’uomo di conoscere la realtà, o l’atteggiamento nel quale l’uomo vuole compiere una riflessione su come avviene il processo del conoscere, avendo una fiducia intellettuale iniziale, e cioè che questo atto del conoscere è effettivamente in grado di farci entrare in contatto con la realtà che ci circonda. Questa riflessione è utile perché abbiamo la possibilità di approfondire meglio cosa conosciamo e come conosciamo. Osservando l’atto del conoscere, io posso verificare se il conoscere avviene in modo corretto.

Oggi rispondiamo alla domanda : “chi mi assicura che conosco le cose come stanno?“

Vediamo quali potrebbero essere le risposte:

- me lo assicurano le cose : risposta sbagliata perché non sono le cose che mi dicono che capisco le cose come stanno ;

- sono gli altri : sbagliata perché gli altri sono nella mia stessa posizione;

- è Dio : sbagliata perché se per assurdo questa risposta fosse vera noi saremmo come Dio;

- l’unico modo è attraverso l’analisi sugli atti del conoscere, cioè sono gli atti concreti del conoscere che mi permettono di capire se le cose le vedo così come stanno. L’atto del conoscere va studiato nel momento in cui io conosco. L’epistemologia va a vedere l’uomo mentre fa la ricerca, osservarlo e da qui assumere considerazioni di carattere teoretico.

Come avviene l’atto del conoscere. Ci sono tre momenti:

1) apprensione ;

2) il giudizio

3) Il raziocinio.

APPRENSIONE

È quella fase della conoscenza attraverso la quale la mente umana percepisce il concetto. Se io faccio una riflessione sul mio atto del conoscere mi accorgo che nel mio riconoscerla mi si accende nella testa un concetto, io vedo un tavolo e per poter dire che quello è un tavolo, nella mia testa si è materializzata l’idea del tavolo. IL concetto è un modo di essere;

GIUDIZIO

Consiste nella operazione per la quale la mente collega fra loro attraverso il predicato due o più concetti. Nel giudizio rispetto all’apprensione, c’è di ulteriore l’elemento volitivo, della volontà; io prendo con l’apprensione e lo collego col verbo essere ad un altro concetto. “ Questo tavolo è bianco “ è un giudizio.

RAZIOCINIO

Nel quale la mente mette in relazione giudizi. Un esempio è il sillogismo :“ tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, Socrate è mortale”. La mia mente ha operato un collegamento tra questi giudizi e ne ha ricavato una conclusione.

Domanda : “Dov’è che si coglie la verità sulla realtà ?”

- è possibile che sia nei concetti : no perché i concetti descrivono un modo di essere astratto. Se io penso al concetto uomo, non è un concetto verso il quale io posso applicare la categoria del vero e del falso.

- Solo quando predichiamo un concetto da altro, cioè solo quando c’è un giudizio, collegamento fra concetti , allora possiamo interrogarci sulla sua veridicità.

Questa riflessione che cosa ci può aiutare a capire se noi conosciamo le cose come stanno ?

In ogni caso è un modo di ragionare che noi quotidianamente mettiamo in atto. Ci accorgiamo che esso contiene implicitamente una serie di realtà oggettive. L’uomo è in grado di conoscere alcune cose osservando semplicemente il processo del conoscere. Secondo il metodo del realismo è proprio l’osservazione delle cose che accadono nella realtà che l’uomo può desumere che l’intelligenza è capace di conoscere la realtà.

Quali sono le verità implicite nel giudizio?

1) il giudizio è sempre su qualche cosa. E’ possibile formulare un giudizio sul nulla? No. Allora ecco la prima verità implicita : per il solo fatto che l’uomo è capace di giudizi, questo ci rivela che esiste qualche cosa. *

2) La realtà giudicata è diversa da me. La realtà che giudico è cosa altra da me. C’è un mondo che è fuori da me e un mondo mio interiore che sono io. Ma io non coincido con la realtà giudicata. Quindi c’è: Io esisto, l’atto del conoscere e la cosa conosciuta.

*Il giudizio è sempre su qualcosa di determinato. Questo mi dice che nel giudizio c’è implicitamente una pretesa legittima dell’intelligenza di conoscere le cose come sono.

3) Un cosa concreta e determinata è che nessuna realtà determinata può essere contraddittoria in sé stessa. Stiamo enunciando quello che è il principio di non contraddizione.

Queste 3 verità implicite mi stanno dicendo che nell’atto del conoscere non c’è una dimensione esclusivamente soggettiva, ma c’è una pluralità; tuttavia, siamo in un territorio dove c’è molta oggettività. Le verità sono intelligibili anche se ancora devo verificare nel dettaglio quali sono i problemi legati all’atto conoscitivo, come l’errore. L’errore è il problema x cui io debba riscontrare che nel giudizio questo collegamento non corrisponde alla realtà. Il giudizio quindi è su qualche cosa di determinato, ma determinato da me. Questo fatto, mi fa riflettere anche che nell’atto del giudicare ci sono 3 ulteriori momenti:

1) ciò che giudico;

2) atto del giudicare

3) soggetto che giudica.

Alcune concezioni gnoseologiche compiono una confusione tra il soggetto conoscente e l’oggetto della conoscenza (come avviene nell’idealismo che compie un ribaltamento) . Allora è interessante che noi dobbiamo riconoscere che ci sono tre aspetti distinguibili. Questa distinzione mi proietta di fronte ad un'altra realtà implicita e cioè che IO ESISTO. Quindi colgo in modo implicito una realtà oggettiva, la realtà del mio esserci. Questa riflessione sull’atto del conoscere è interessante se la applichiamo alle questioni pratiche.

Errore. L’atto conoscitivo è reso problematico dal fatto che la conoscenza dell’uomo è sempre incompleta. Questo fatto ci apre di fronte ad una apparente contraddizione, cioè come se nel giudizio si annidassero delle cose oggettive e delle realtà relative e variabili. In realtà questa apparente contraddizione è superabile perché è la differenza tra ciò che è variabile e ciò che è assoluto : l’oggetto della conoscenza è oggettivo, che attiene all’oggetto del giudizio; ciò che è relativo è il modo del conoscere. Quindi ecco spiegato che nella riflessione gnoseologico esiste qualcosa con un carattere di relatività e qualcosa assoluta. Queste due coesistono perché l’oggetto reale del giudizio è oggettivo, anche se io avrò sempre di questo oggetto una conoscenza parziale.

Se viene commesso uno sbaglio nel giudizio, è il soggetto conoscente che deve trovare le cause dell’errore. Quando non c’è errore nel giudizio c’è una conformazione della percezione alla realtà. La materia del giudizio si conforma alla realtà. La mia condizione soggettiva influenza il mio giudizio ma non è in grado di cambiare le cose come stanno. Il modo del conoscere è sempre personale.

Quindi non c’è una contraddizione tra dimensione variabile e assoluta. E’ l’uomo che coglie in maniera soggettiva una realtà che rimane oggettiva.

PROBLEMA DEGLI ASSOLUTI MORALI

Domanda principale :

Esistono dei comportamenti umani che possono essere definiti dei mali in sé stessi?

La contrapposizione che individua Finnis è tra due modi di intendere la morale

1) Classica, che noi sosteniamo: il giudizio sull’atto morale porta sempre dentro di sé un carattere di oggettività

2) va superata l’idea che esistano dei giudizi morali.

Queste 2 correnti possono essere ricondotte a un ambito di teorie relative e un ambito di teorie assolute, dove per relativo e assolute si vuole far riferimento al fatto che una delle caratteristiche delle teorie relative è interpretare l’atto umano alla luce di una serie di fattori che potremmo definire come le conseguenze, il fine dell’atto, il bene o il male atteso. Quando parliamo di morale parliamo di atti umani liberi e volontari, cioè gli atti compiuti consapevolmente dalla persona. La morale si interessa di capire se un atto compiuto volontariamente sia cattivo o meno. Nelle teorie classiche , si suole distinguere il contenuto dell’atto (oggetto), il fine( scopo), circostanze. Nella concezione classica, il libero arbitrio è un dato assodato, però questa è una libertà presupposto, cioè la libertà necessaria per poter giudicare l’uomo. Nelle teorie relative invece, c’è solo la libertà presupposto, la libertà è scelta, a prescindere dal contenuto della scelta.

Torniamo ai 3 aspetti della morale nelle concezioni classiche. Questi da un punto di vista umano, in realtà vengono contestualmente. Nelle nostre azioni libere sono sempre contenuti questi 3 aspetti. Il fine dell’azione è l’obiettivo che mi prefiggo di raggiungere con quella azione. Le circostanze sono le sfaccettature all’interno delle quali l’atto viene compiuto. Stare all’oggetto dell’atto vuol dire attenersi a quello che si sta facendo. Nella valutazione dell’atto morale il primo aspetto su cui interrogarsi è l’oggetto. Il secondo problema è quello del fine. Oltre allo scopo ci sono le circostanze che sono quegli elementi accidentali che influiscono sulla valutazione morale. Le teorie relative che riconoscono le fasi , dicono che non è possibile affermare che un certo atto in virtù del suo oggetto è sicuramente cattivo, ma per valutare bene dobbiamo tener conto soprattutto del fine e delle circostanze; Le concezioni classiche invece, affermano che un atto umano se è cattivo per quanto attiene al fine e all’oggetto ,è certamente un atto immorale. Domanda: ma se io avessi una situazione per la quale l’oggetto è discutibile, ma il fine è buono, come devo giudicare questa condotta? Per le teorie assolute, perché un atto sia buono, deve esserlo sia nel fine che nell’oggetto. Il fine non giustifica i mezzi. Il libro di Finnis è proprio incentrato su questo problema, cioè se si possa ritenere che per un fine buono siano moralmente giustificabili dei mezzi problematici. Le circostanze devono essere tenute in considerazione, ma non sono così forti da capovolgere un giudizio morale su fini non buoni.

Filosofia teoretica Mar 8

Articolo che si riferisce a un fatto di cronaca nera. Costituisce una riflessione intorno a diversi aspetti analizzati: il senso della vita (la filosofia aiuta l’uomo a rispondere alle domande esistenziali). In questo articolo il commissario Luigi Calabresi racconta quale fu la ragione per cui aveva deciso di fare questo mestiere. Calabresi era un commissario che lavorava a Milano. Le BR assassinarono Calabresi perché egli veniva accusato della morte di un anarchico. Molti giornalisti firmarono un documento col quale dichiaravano che il commissario Calabresi era un assassino. Il clima creato favorì anche l’attuazione di questa sorta di esecuzione con cui Calabresi fu ucciso. Calabresi era cristiano. Questo articolo descrive il motivo per cui Calabresi aveva deciso di fare questo lavoro. Il caso Calabresi è interessante dal punto di vista giudiziario: dopo 20 anni un uomo incensurato si presentò alla caserma dei carabinieri accusando sé stesso e altro complici dell’omicidio. Da questa dichiarazione e “chiamata in correo” partì il processo che investì Sofri. Sofri fu chiamato in causa da Marino. Di fronte a questo fatto ci fu un processo. Sofri fu condannato (si professò sempre innocente). Si sono svolti 8 processi su questo caso alla fine dei quali Sofri, Bonpressi e Marino sono stati riconosciuti colpevoli. Ci interessa vedere chi era Calabresi. In quegli anni a Milano (’69) si svolge una strage. Quando accade questo episodio del terrorismo è agli inizi. Calabresi era noto come un poliziotto molto corretto, che trattava con le manifestazioni.

Lettura fotocopia “Calabresi”

Queste parole sono state pronunciate nel 1966. Calabresi, parlando del suo tempo, descrive le stesse tematiche che si affrontano oggi. L’altra considerazione è che questa testimonianza merita attenzione perché non si può accusare Calabresi di mentire. In questo testo si presenta per quello che è. Usa un linguaggio molto semplice e dice delle cose molto profonde. Calabresi dice che ha scelto questa strada per vocazione. Nella vita il problema dell’uomo non è esercitare una libertà assoluta, ma la vita è una risposta a una chiamata, un destino che corrisponde alla ragione per cui sono venuto a questo mondo. Qualsiasi professione deve essere vista con una prospettiva ampia. Calabresi sa che nel suo lavoro si guadagna poco e si hanno rischi alti. Calabresi sottolinea che è cambiato il modo con cui si misurano le cose “un tempo il metro con cui si valutavano gli uomini era diverso: si valutavano per ciò che erano, per ciò che rappresentavano, per la posizione e la stima di cui godevano, per il gradino che occupavano nella scala sociale, e così via. Oggi invece conta il successo, questa medaglia di basso conio che su una faccia porta stampato il denaro e dall’altra il sesso”. Calabresi intuisce che la realtà si sta trasformando. Questa nuova realtà impone che una persona si realizzi non se risponde alla sua vocazione, ma se diventa qualcuno conosciuto. Sono parole impegnative. Quest’uomo parla di onestà e purezza. C’è un’idea di integralità della vita: quello che sei veramente lo porti nella tua vita professionale. Se sei un tipo appassionato e onesto, queste cose le porterai anche sul posto di lavoro. La vita cristiana viene portata integralmente nella professione. Con quale metro si deve misurare l’uomo? Non è vero che il conformismo deleterio si può combattere solo imboccando la strada della violenza e contestazione violenta. C’è la necessità di essere controcorrente, serenamente. “Sentiamo più degli altri il turbamento, apparteniamo a due mondi che si scontrano”. Questa affermazione torna alle radici dell’esperienza cristiana: c’è un mondo diverso per colui che crede, e questo confronto è a volte lacerante. Il cristiano è peccatore come il non credente, ma dà scandalo, perché la strada del cristianesimo è difficile da percorrere. La strada cristiana o entusiasma o irrita. I giovani controcorrente si scontrano con questo mondo che li esclude e li sopprime. L’eliminazione di un uomo non si fa solo con la pistola ma anche con la diffamazione televisiva. “Sentiamo di avere un gran vantaggio. Se il non credente fallisce e non realizza gli ideali suoi, cade nello sconforto più completo, nella disillusione più amara”. Calabresi dice che anche le persone che non credono hanno un ideale di vita e un progetto, però il nel momento del fallimento cadono nella disillusione più amara. “Il giovane cattolico avrà le sue crisi passeggere, che però di risolveranno, perché c’è un aiuto di ordine superiore che s’innesta nella sua realtà e nella sua umanità”. Questo tipo di relazione fa vedere che la dimensione soprannaturale aiuta la natura dell’uomo. Non c’è nulla che sacrifichi quello che siamo e facciamo. La vocazione consiste nella realizzazione di quello che si è. “Se gli scopi vengono riposti in cose puramente terrene, fossero le più nobili e le più belle, poi, quando i tempi e la società non consentono di realizzarle, subentra lo sbandamento morale, la delusione”. Calabresi conclude il discorso con una frase “così vorrò essere io con i miei figli, se la fortuna mi aiuterà”, frase che non ha potuto mettere in pratica. Nella vita succede l’imprevisto, l’imponderabile, la cattiveria degli uomini, fatti che possono frapporsi tra ciò che vogliamo e la loro realizzazione. La riflessione verte anche sull’aspetto educativo: “Il genitore deve fare il padre o la madre; quando vuole fare troppo l’amico o il fratello maggiore sbaglia”. Chiama in causa il problema del ruolo dell’educatore. Richiama anche l’accenno alla maggioranza amorfa. Calabresi non ce l’ha con coloro che hanno ideali, che comunque lui non condivide, ma ce l’ha con coloro che non hanno nemmeno davanti a sé il senso della loro vita, si lasciano vivere, non si sono posti il problema della vocazione. “Non è vero che si educa e ci si educa allo stesso momento”. Ci sono dei momenti in cui i ruoli non possono coincidere. Nel rapporto educativo c’è l’affidarsi a qualcuno che ha qualcosa da dare. Se non hai niente da dare lo stai prendendo in giro: non è educare. Il nostro tempo è il tempo in cui la figura del padre è entrata in crisi.

Il problema del senso della vita può riceve risposte con degli ideali. Bisogna stare attenti che questa idea non diventi ideologia. L’approccio ideologico è portatore di uno schema sociale che si vuole imporre sull’uomo. Nella riflessione ideologica manca della domanda “Chi è l’uomo?”. L’uomo non è ciò che io voglio far diventare con l’ideologia. Il liberismo, marxismo, nichilismo, non si pongono una domanda su chi è l’uomo, sulla natura dell’uomo. Questa è la domanda a cui Calabresi ha risposto nella sua vita. L’approccio ideologico non parte dalla natura ontologica dell’uomo. Per il modello consumistico l’uomo è il consumatore. Quasi che la dimensione dell’uomo si limitasse a quella di consumatore.

Oggi si crede che sia buono decidere seguendo “quello che ti piace”. Ma quello che piace non è la vocazione. Tutto quello che è umano, per essere raggiunto, ha bisogno di disciplina: non basta l’istinto, il desiderio, il piacere. Non è vocazione. La vocazione è una strada fatta di impegni e rinunce, che porta però a soddisfare sé stesso. La vocazione è personale, ma non soggettiva. La vita è vissuta pienamente quando si conserva l’apertura a ricevere dei segni. La vita può condurti su strade diverse, ma ciò non è il fallimento della tua vita. La vocazione può nascere anche da circostanze impreviste e diverse. Questo deve essere accettato come risorsa, non solo come sconfitta. Nella prospettiva della fede c’è la Provvidenza. La lettura provvidenziale consiste nel leggere i fatti della vita sotto un aspetto positivo, anche quando c’è il male. Questo è una fatica, e uno scandalo per i non credenti. La testimonianza resa da Calabresi non si preoccupa delle conseguenze che provoca nei vari lettori. È resa con serenità perché quando si vive una fede bella e gioiosa non si può fare a meno di viverla con gli altri. Questo è un aspetto interessante per tutti gli uomini. Calabresi, in questa pagina, ci fa vedere che c’è qualcosa di più.

Filosofia teoretica Mar 15

Sviluppiamo la parte del programma che riguarda gli Assoluti Morali di John Finnis. Di questo testo è importante la prefazione di Mons. Caffarra. Il problema che gli assoluti morali affrontano è un problema di non poco conto, non solo per la morale, ma per la vita di tutti i giorni. Lo scopo di questo libro è cercare di capire se esistano dei comportamenti umani che siano moralmente rilevanti che hanno in sé il requisito del male. Si cerca di rispondere alla domanda per cui una cerca condotta risulti essere sempre sbagliata. Questa domanda è tutt’altro che scontata. La categoria degli “intrinseca mala” è per alcuni una categoria che non esiste. Si ragiona in una morale relativista, per la quale il bene e il male non possono essere definiti una volta per tutti negativi. In questa prefazione si evoca l’episodio del Critone, la vita di Socrate. C’è un passaggio dove si individuano due differenti prospettive che si contrappongono fra di loro. Ci sono due modi di rapportarsi con la giustizia: “l’uomo deve far trionfare la giustizia nel mondo”; “all’uomo è chiesto solo e sempre di agire con la giustizia”. Questi due modi sembrano essere identici. Ma c’è una differenza. Socrate aderisce al secondo orizzonte. La prima categoria sottendente che l’agire morale debba essere valutato, misurato, in base ai risultati buoni, cioè solo in base al fine. Questa prospettiva radicalizzata sposta la riflessione morale, da una riflessione sull’atto a una riflessione solo sul fine. I discepoli di Socrate sbagliano nel pensare che qualsiasi mezzo sia lecito per fare il bene. Socrate dice che il primo problema dell’uomo è se quella condotta sia giusta. In questa riflessione morale, insieme all’oggetto dell’azione c’è anche il fine. In fine non può essere disgiunto dall’azione. Questo libro analizza se è possibile giudicare un atto per buono o cattivo in quanto tale. Gli assoluti morali di Finnis delineano alcuni comportamenti che sono sempre sbagliati, indifferentemente dal fine preposto. Gli assoluti morali non sono numerosissimi. Si possono fare alcuni esempi: l’uccisione di un innocente è un atto ingiusto, sempre e comunque. Posso dire questo solo se riconosco una categoria di condotte umane. Per alcuni ci sono situazioni in cui anche uccidere l’innocente non è ingiusto. Agire secondo giustizia non deve essere interpretato come fatto individuale, perché esso ha anche una dimensione sociale. La riflessione morale è importante anche per la politica, sociale. Per agire secondo giustizia bisogna collegarsi a un insieme di valori e principi. Agire secondo giustizia non è rispettare le regole. In questo passo della prefazione si ricollega l’agire secondo giustizia al sapere se quello che faccio è giusto o ingiusto. Esistono atti che non possono essere mai compiuti dalla libertà umana (non in senso empirico ma morale). Queste norme morali inderogabili sono poche. L’assoluto morale non è una tegola ma un contenuto di chiara prescrizione. Bisogna respingere l’idea che l’assoluto morale sia una parenesis, cioè solo una generica esortazione. Uno dei modelli culturali che si è contrapposto alla teoria degli assoluti morali è il pensiero tecnico. La tecnica si propone come l’applicazione delle conoscenze scientifiche. Si parla di “scienza” quando si fa riferimento a uno studio metodico galileiano la realtà, con lo scopo di riconoscere l’esistenza di una serie di leggi (ripetibilità di certi fenomeni). La tecnica rappresenta l’applicazione di quello che la scienza ha elaborato. C’è qualcosa di male nella tecnica? No, in se stessa no. C’è qualcosa di male nella scienza? Neanche. Il problema sta nel modello di interpretazione della realtà. Il pensiero tecnico fornisce sempre più spesso un modello che ha la pretesa di orientare la riflessione dell’uomo in base a un criterio di efficacia e efficienza. L’efficacia mette l’accento sul risultato. L’efficienza è la capacità di affrontare le sollecitazioni. Il pensiero tecnico mette l’accento sull’efficacia e efficienza. Questi due elementi non sono negativi. Il problema sta nel fatto che la domanda “cosa è giusto fare?” viene ridotta a questo orizzonte di efficacia e efficienza. In questo modo la prospettiva è orientata solo al risultato. Infatti la nostra è l’epoca della tecno-scienza (in cui scienza e tecnica sono confuse). C’è stata un’epoca (molto lunga) in cui scienza significava osservare il reale. Oggi non è così per motivi economici: lo scienziato oggi è colui che fa un progetto di ricerca orientato a un’applicazione tecnica. Non c’è più colui che fa ricerca pura, ma ricerca diretta alla tecnica. Lo scienziato puro non esiste più e il problema morale cade in maniera molto pesante sulla testa del tecno-scienziato. Si è sempre invocata la scissione tra dimensione della scienza e dimensione della tecnica. Oggi la tecno scienza ha fuso questi due momenti. Fare ricerca pura non pone in se stessa questione morale. Lo studio della realtà non solleva obiezioni morali. Nessuno può fare del male se cerca la verità. Il problema nasce dal fatto che il ricercatore non è più solo un osservatore, ma un manipolatore della realtà. Nell’ambito delle staminali lo scienziato non può ignorare se sta facendo ricerca con cellule embrionali o staminali, perché questo non è più osservazione della realtà, ma intervento sulla realtà. Il problema morale ovviamente si pone. Questo fa vedere che la questione “agire secondo giustizia” e “agire in modo efficiente” delinea due modi di pensare opposti. Il problema è un problema fortemente razionale. Il pensiero tecnico orienta le scelte etiche in base a parametri che vertono solo sugli effetti. Un primo punto di forza di questo modello è la sua ambivalenza. Se osserviamo gli effetti dell’applicazione del pensiero tecnico notiamo che ottiene dei risultati desiderabili. Si potrebbero raggiungere dei risultati, delle quote di bene (curare malattie). Questa ambiguità è un punto di forza. Può indurre la gente ad accettare la violazione di certe norme morali. Facendo un giudizio di merito, le staminali adulte sono l’unico strumento efficace ed efficiente (le staminali embrionali non hanno curato niente e nessuno). L’altro punto di forza è che il pensiero tecnico esprime il modo di pensare tipico del bambino: il bambino si organizza per raggiungere quello che vuole. Il pensiero tecnico parte dalla focalizzazione di quello che vuole raggiungere (le aziende farmaceutiche chiedono un prodotto per procurare l’aborto in modo veloce). Il ricercatore organizza la ricerca per raggiungere questo risultato. In questo orizzonte il modo e lo stesso oggetto diventa irrilevante. Si organizzano i mezzi per raggiungere questo fine, che sono valutati non in base alla loro propria essenza, ma solo in base allo scopo da conseguire. Sempre in quest’ottica si cerca di raggiungere il fine al minor costo possibile. Si punta alla ottimizzazione delle risorse. In pensiero tecnico nasce dall’illuminismo. L’illuminismo è riassumibile nella frase “ognuno ha il compito di promuovere il buon andamento delle cose del mondo e di impedire il cattivo andamento delle stesse”. Ancora una volta l’attenzione della valutazione morale si sposta dalla oggettiva valutazione della condotta a una valutazione che si sposta verso il fine, in una prospettiva utilitaristica (Bentham). Per gli utilitaristi un’azione è buona quando promuove il maggior bene possibile per la maggior parte delle persone che fanno parte di una comunità. Non è più un problema di agire sempre in modo giusto ma di valutare volta per volta e prevedere il maggior bene. In una formula più sintetica, il compito dell’uomo è promuovere il maggior bene possibile. Se si mette su una bilancia “bene” e “maggior bene possibile”. Qual è la proposta più esigente in termini morali tra queste due? Il maggior bene possibile è una porzione del bene morale. Il maggior bene possibile, in scenari tragici, è contribuire al male per limitarlo. Il problema morale è rinunciare al bene. La prospettiva del maggior bene possibile è una forte tentatrice perché fa vedere un risultato possibile. Finnis critica queste dottrine facendo notare che perdono di vista l’essenza oggettiva della condotta. Queste dottrine svolgono una sorta di equazione matematica in cui da una parte c’è la previsione del bene e dall’altra la previsione del male. Sono in guerra e mi si pone la questione se bombardare una città. Si può fare questa equazione matematica tra effetti positivi e effetti negativi. Questa prospettiva, proporzionalismo, è possibile perché si proietta l’attenzione non sul singolo atto (tirare bombe su civili) ma sul fine. Questo modo di ragionare è proporzionalista. Questa prospettiva viene duramente contestata da Finnis con una serie di valutazioni. Secondo Finnis, una volta che si accetta la prospettiva proporzionalista, si potrebbe riassumere l’imperativo morale con questa formula “tenta qualsiasi cosa”. Questo modello porta a un soggettivismo estremo. Il proporzionalismo crede di poter prevedere in modo minuzioso tutti gli effetti della propria azione. Le conseguenze degli atti non sono tutte prevedibili. Le nostre azioni provocano conseguenze delle quali non siamo responsabili. Nella riflessione morale la valutazione delle conseguenze è limitata. Se compio un’azione giusta ma nelle conseguenze c’è un male, non è colpa mia. Un punto molto debole del proporzionalismo è la pretesa di dominare tutte le conseguenze di una certa azione. Il grande vantaggio delle dottrine classiche è di focalizzarsi sull’oggetto dell’azione. Nel giuramento di Ippocrate troviamo il “principio di non maleficenza”, cioè evitare di fare del male al paziente. Questo è il primo principio della medicina: non nuocere. Il testo del giuramento impone di vietare determinate cose. Con questo si riconosce che c’è un agire medico, umano, che è in se stesso buono o cattivo, senza farsi condizionare dagli effetti temuti o sperati di una certa azione. Negli assoluti morali non è vero che gli effetti non vengono presi in considerazione. Ippocrate assume assoluti morali definitivi.

MAR 29 A

IL CONCETTO DI LIBERTA’ ( Anche su testo di Vanni Rovighi)

La parola libertà è una delle parole più polisense, utilizzata con significati talvolta contrapposti. Questa ambiguità non è un fatto nuovo, addirittura Hegel faceva notare che questo concetto veniva usato in maniera soggettivistica. Un primo aspetto su questa ambiguità è il problema del significato della libertà in senso fisico e in senso empirico. Da un lato la dimensione empirica allude alla potestà dell’uomo di poter fare una certa cosa. In questo senso il concetto di libertà, è del tutto svincolato da una riflessione sulla natura dell’uomo, perché così non mi interrogo su quale è lo scopo della vita. Invece la libertà verso la quale siamo indotti a riflettere è la libertà in senso morale. Cioè la riflessione dell’uomo sul suo essere libero in relazione a una domanda: “Questo atto che posso compiere contribuisce o meno alla mia realizzazione ?” Qui c’è un passaggio che sposta la nostra attenzione dalla libertà in senso fisico a un concetto di libertà che contiene una domanda antropologica e morale. Libertà può allora voler dire :

1) essere capaci di poter fare una cosa (empirico fisico). Non si occupa del giudizio sul merito dell’azione (getto un vaso di gerani in testa al passante )

2) in senso morale, realizzare la natura umana.

IN filosofia è opportuno distinguere atti eliciti e atti imperati.

ATTI IMPERATI : quando attengono alla sfera esteriore. Es: la costituzione italiana riconosce che esiste nell’ordinamento una libertà religiosa. Quando si afferma ciò, a livello giuridico si intende che la dimensione religiosa che l’ordinamento tutela è quella che si manifesta nella sue esteriorità: processione, chiesa, simboli… Questi sono quella componente della libertà che si manifesta a livello esteriore.

ATTI ELICITI: sfuggono alla prescrizione giuridica, riguardano la volizione interiore di un certo atto. La mia adesione alla fede qui non è scalfita, perché è la mia volontà interiore.

Da un lato la libertà empirica è spesso un presupposto necessario x l’esercizio della libertà morale; ma non è sufficiente, perché occorre che l’uomo scelga il bene. Nella società contemporanea si tende a fermarsi alla libertà presupposto, al libero arbitrio. X S. Anselmo la libertà è determinazione al bene.

E le azioni cattive come si spiegano? Se non sono compiute con la libertà presupposto non sono neanche colpevoli. La caratteristica della libertà presupposto:

non ha valore morale. Il libero arbitrio è tipico dell’uomo.

Se si nega l’esistenza del libero arbitrio, anche il concetto di imputabilità viene travolto.

Filosofia teoretica Mar 29 B

Abbiamo visto dunque che la libertà si articola in due livelli differenti che abbiamo chiamato LIBERTA’ EMPIRICA o LIBERTA’ PRESUPPOSTO e libertà morale.

Rispetto alla libertà psicologica o libertà presupposto o libertà empirica abbiamo visto che possieda alcune caratteristiche, cioè non ha alcun valore morale in sé non è in discussione il fatto che sia una caratteristica ontologica dell’essere umano e non è né eliminata né diminuita dall’esistenza del peccato originale.

Abbiamo anche visto che essa ha dei riflessi giuridici molto immediati a seconda che venga accettata o respinta. Rispetto al rapporto tra stato e libertà è interessante chiedersi fino a che punto sia vera l’affermazione che lo stato non debba mai intervenire sulla libertà presupposto. Cioè secondo alcune correnti del pensiero contemporaneo, libertario, lo stato non dovrebbe mai intervenire sulla libertà presupposto perché così facendo assumerebbe un comportamento ILLIBERALE. In altre parole, abbiamo sentito più volte dire che lo stato che stabilisca che per decreto che non si possa fare una certa cosa , indebitamente starebbe invadendo la sfera di libertà individuale. Questa affermazione teoricamente non è sostenibile perché noi sosteniamo che la libertà presupposto è talvolta esplicitamente inculcata in modo coattivo. Prendiamo ad esempio le tasse: ci sono alcune condotte che lo stato esige e sulle quali interviene proprio sulla libertà presupposto.

La domanda circa l’esistenza della libertà :

alcuni negano esplicitamente che l’uomo sia libero. La strada migliore che si può percorrere per confutare questa affermazione è quella fatta da Vanni Rovighi secondo la quale la libertà empirica è un dato di realtà esperienziale. E secondo lei un dato di realtà al max se ne può fare la fenomenologia, cioè dal dato di realtà si può risalire alle sue cause prime. La questione posta in relazione alla libertà con il problema del fine ultimo dell’uomo, ossia la valutazione se una certa azione che posso compiere coincida o meno con la realizzazione della mia natura. Perciò x capire se un uomo si stia comportando in maniera libera, devo prima cercare di capire bene qual è il fine ultimo dell’uomo e in questo perfino Sartre ,padre del pensiero relativista dice : è la posizione dei miei fini ultimi quella che caratterizza il mio essere. Cioè: è da quello che io decido essere il fine ultimo della mia esistenza, che dipende tutto quello che io farò e che io sono. Allora questa pienezza dell’essere è il fine ultimo da mettere in relazione con l’esercizio della libertà. E da questo punto è interessante ripetere che c’è l’intuizione comune di molti filosofi che è : l’uomo ricerca il bene e ricerca il buono , la sua felicità. Questo senso di felicità potrebbe essere assunto come fine ultimo dell’uomo. Quindi potremmo dire che essere liberi potrebbe essere compiere delle azioni che mi rendano felice. Però il problema è capire dove risieda questa felicità. I greci chiamavano questa posizione EUDAIMONIA, cioè riferirsi al fine dell’azione umana come ricerca della felicità; la scolastica chiama questa concezione BEATITUDO, la realizzazione piena di sé stessi.

Questo è un dato che possiamo allora prendere come oggettivo. Il problema è che questa pienezza dell’essere non è intuitiva, cioè io non intuisco per istinto quali sono le azioni che se io compio mi rendono felice, mi rendono libero, ma devo sforzarmi per cogliere ciò che sia effettivamente la fonte della mia felicità. Ad es. : una realtà che sembra essere oggetto della felicità dell’uomo è il piacere. Qualsiasi cosa io faccia , posso giustificarmi dicendo che così sono felice. In generale anche le azioni contraddittorie. Essere fedele o meno alla propria moglie: se io dico che così cercavo la felicità, sembrerebbe che questo soddisfi i requisiti di libertà. Questo non è perché il piacere è una realtà che attrae immediatamente ma che, porta alla nausea, cioè porta ad un livello di insoddisfazione più profonda che rivela che la natura umana non si identifica con la soddisfazione del proprio piacere. Questo ci dimostra che la natura dell’uomo non può essere identificata con la soddisfazioni di tutti i suoi piaceri anche se tutti questi elementi hanno comunque importanza.

ASSOLUTI MORALI DI JOHN FINNIS

Il capitolo col tema della contraccezione.

Quali sono le considerazioni che Finnis fa?

In questo tema si vede bene come l’applicazione di categorie morali che fanno riferimento al riconoscimento di assoluti, cioè di principi non derogabili, da un lato, oppure l’applicazione di un’etica relativa, producono delle conseguenze molto differenti nella valutazione sensibile come questa.

Uno degli aspetti su cui delle volte c’è confusione è il terreno che contrappone il concetto di artificiale con quello di naturale. In altre parole alcuni pensano, errando, che l’argomento fondante per cui il magistero cattolico giudica illecite le condotte contraccettive, si fonderebbe sull’artificialità. Ma questo è un ragionamento infondato poiché il problema è piuttosto quello di un tradimento oggettivo del significato dell’atto sessuale. Questa dottrina si fonda sull’affermazione che l’essere umano ha una natura,e se l’uomo esprime la sua umanità in modo profondamente vero, la rispetta. Quindi l’elemento che contraddistingue l’intenzione contraccettiva, è un elemento che separa l’effetto procreativo dell’atto e l’atto stesso. Allora se io mi ponessi in una prospettiva che condividesse l’etica proporzionalista potrei trovare molte obiezioni a questo modo di ragionare, perché il fondamento della liceità di un atto sta in un ragionamento articolato sulle conseguenze, obiettivi e scopi ; allora obiettivi conseguenze e scopi della scelta contraccettiva potrebbero essere più che fondati (pianificazione nascite..) ; però il problema non è di disconoscere queste buone ragioni, quanto di ricondurre la riflessione morale al fatto che esiste una natura intrinseca di quell’atto che si compie, e che questo atto viene profondamente snaturato se viene artificiosamente svincolato dalle sue potenziali conseguenze procreative. Quindi in questa provocatoria asprezza della dottrina cattolica, si rivela questa fedeltà alla dimensione etica nella chiave degli assoluti morali.

Paolo VI in HUMANAE VITAE dice : “ Date le condizioni della vita odierna, e dato il significato che le relazioni coniugali hanno per l’armonia fra gli sposi, non sarebbe indicata una revisione delle norme etiche vigenti soprattutto se si considera che esse non possono essere osservate con sacrifici delle volte eroici? “

Quindi Paolo VI pone davanti a sé una domanda che riconosce la difficoltà e il notevole impegno di questa dottrina morale. Ma detto questo

aggiunge : “ Tale dottrina è fondata sulla connessione inscindibile che Dio ha voluto e che l’uomo non può rompere, tra i due significati dell’atto coniugale , quello unitivo e quello procreativo; infatti per la sua intima struttura, l’atto coniugale mentre unisce profondamente gli sposi li rende atti alla generazione di nuove vite secondo leggi scritte nell’essere stesso dell’uomo e della donna. Salvaguardando questi due aspetti, l’atto coniugale conserva integro il senso di mutuo e vero amore e il suo ordinamento all’altissima vocazione dell’ uomo alla paternità.”

Aggiungerei che la illiceità degli strumenti contraccettivi è collegata all’intenzione con cui il mezzo è utilizzato. Ad esempio la pillola in alcune circostanze può essere usata per scopo terapeutico. In questa situazione non si verifica l’atto illecito.

In conclusione, questo esempio richiama l’effetto molto chiaro dell’accettazione della dottrina degli assoluti morali che mette in evidenza la differenza che sussiste fra l’accettazione di questa dottrina e l’acquisizione di una posizione di carattere proporzionalista.

19 APR A

Passo dell’enciclica sull’unione europea – Benedetto XVI

Discorso pronunciato in occasione dei 50 anni dei trattati di Roma, che sono trattati istitutivi dell’Europa.

Il pontefice evidenzia come la fondazione di questa realtà di unione di stati è data da caratteri morali, filosofico- giuridico, e antropologico. Nell’introduzione

dice “ Questo continente ha percorso un lungo cammino che ha condotto alla riconciliazione di oriente ed occidente legati da una storia comune ma separati da una cortina di giustizia”. Qui il papa si riferisce a questi due polmoni che nella storia del 900 sono stati separati in due blocchi in seguito alle conseguenze della guerra fredda e della conferenza di Yalta. Questo ha inciso molto nelle vicende dell’Europa.

Continua:

“In questi anni si è avvertita sempre più l’esigenza di stabilire una connessione tra l’esigenza economica e l’esigenza sociale .” Qui il papa riconosce l’esistenza della preoccupazione di trovare un equilibrio tra il libero mercato e le esigenze sociali.

Poi inizia il primo passaggio critico che muove dal trend demografico del nostro continente. E’ un continente a saldo demografico negativo. Questo dato è oggetto di un giudizio che il papa osserva come “ potrebbe portarla al congedo con la storia” . C’è un dettaglio , ossia che il futuro di qualsiasi istituzione umana passa per il fatto che in quel futuro ci siano degli esseri umani. L’Europa è minacciata da questo trend e i paesi hanno un tasso di fecondità tra i più bassi al mondo. Da un punto di vista numerico significa che in assenza di flussi migratori, il popolo italiano è destinato a scomparire. Questi meccanismi sono lenti ma hanno un forte livello di inesorabilità, ossia, quando prendono una piega, molto difficilmente possono essere corretti, perché si innesta un meccanismo dove far risalire il trend è impossibile. Qui osserviamo che questo andamento della popolazione innesta altri meccanismi come la migrazione, che portano con loro anche una serie di problemi.

Il papa parla di congedo con la storia, perché se ci si dimentica di questo fatto ,si costruisce un’impalcatura istituzionale dimenticandosi che la finalità di tutto ciò è l’uomo.

Il papa poi dice che “questo fenomeno può favorire enormi difficoltà alla coesione sociale, soprattutto favorire un forte individualismo disattento alle conseguenze per il futuro “. Qui il papa fa una riflessione antropologica. Noi siamo fortemente condizionati da una visione maltusiana della storia, per la quale la crescita della popolazione non sarebbe supportata dall’incremento delle risorse perché la popolazione cresce in modo esponenziale mentre le risorse cresce in modo aritmetico.

Le previsioni Malthus si sono rivelate infondate.

Il papa parla di un pericoloso individualismo : c’è il rischio che ci sia una tendenza a chiudersi in se stessi ; inoltre una civiltà con una implosione demografica è una civiltà che non ha fiducia nel proprio avvenire.

Qui si passa a un giudizio critico nei confronti delle scelte che l’UE sta facendo. Il papa dice che troppo spesso il discorso sull’UE è incentrato su una dimensione esclusivamente politica ed economica. E’ come se si facesse finta di non vedere che prima del dato politico ed economico c’è un fattore esistenziale, un elemento relativo ai valori universali : problema di identità e di memoria. L’Europa non si può costruire se ci si dimentica di quello che è stato e se si finge che l’Europa non abbia una sua identità . Questo si può dire dell’Europa ma si può dire di qualsiasi esperienza umana.

Continua il papa facendo una provocazione “ L’Europa è chiamato il vecchio continente” : tutta la civiltà umana proviene da qui, ma è possibile continuare a parlare di un’unità ,? Qual è l’identità dell’Europa?

Durante la redazione della costituzione europea si decise di eliminare qualsiasi riferimento alla tradizione cristiana e questo diede origine a molte polemiche. Il papa fa questa osservazione : uno dei problemi dell’ UE è che questa realtà è sentita molto lontana dalla gente, c’è un problema di identificazione emotiva con questo marchio.

Il problema dice il papa, è che non si può avvicinarsi a molti cittadini se si devono togliere riferimenti al cristianesimo per non offendere i non cristiani.

Ecco il punto del discorso: da un lato politicamente si entra in modo deciso nella storia per affermare principi (intervento in Bosnia contro la pulizia etnica) ; dall’altro l’UE è il luogo dove si afferma che i valori universali ed assoluti non esistono.

APR 19 B

Come si fa a tenere insieme queste contraddizioni?

Il papa dice “ Questa singolare forma di apostasia da sé stessa prima che da Dio, non la induce a dubitare della sua stessa identità ?” La categoria dell’apostasia ha un significato all’interno di una visione religiosa, rispetto al quale si decide di abbandonare. Qui c’è una forma di apostasia dell’Europa da sé stessa, cioè ,critica il papa, l’Europa nel fondarsi non è rimasta fedele a quello che essa è storicamente. Continua Benedetto XVI: “Si finisce in questo modo per diffondere la convinzione che la ponderazione di beni sia l’unica via per il discernimento morale e che il bene comune sia sinonimo di compromesso “. Questo passaggio ci rimanda al concetto degli assoluti morali e del proporzionalismo. Il modo con cui l’Europa si struttura dipende dal fatto che nella testa della gente prevalga una concezione proporzionalista del bene morale. Qui cosa fa una cultura che pensa che non sia possibile stabilire oggettivamente qualche giudizio di valore sulla realtà ? compie un’azione a ribasso.

Il compromesso comporta la lesione della natura dell’uomo. Queste cose hanno origine dal fatto che si vogliono disconoscere le radici dell’Europa. Se l’elemento culturale viene eliminato, qualsiasi nazione può entrare a far parte dell’UE,poiché c’è una visione convenzionale e formale. Prosegue dicendo che una comunità che si dimentica che ogni essere umano è creata da Dio, finisce per fare il bene di nessuno. Se non si riconosce il valore intrinseco di una persona, allora lo stato perde di vista il compito di una qualsiasi realtà politica, cioè di preservare il bene comune. Qui c’è una critica al pragmatismo, modello filosofico secondo il quale l’importante è raggiungere una mediazione politica per raggiungere il male minore.

“ Tale pragmatismo fa innescare tendenze laicistiche finendo per squalificare il contributo dei cristiani “ Questo atteggiamento viene definito laicista e relativista. Questo è il clima in cui in Europa siamo immersi.

“l’UE per essere promotrice di diritti universali non può non riconoscere con chiarezza l’esistenza di una natura umana stabile e permanente ; in tale contesto va salvaguardato il diritto all’obiezione di coscienza ogni qual volta i diritti umani fossero violati “. Si tocca il nodo centrale della natura dell’uomo. Se l’uomo non ha una propria natura stabile e permanente si diffondono leggi che calpestano molti diritti.

Filosofia teoretica Apr 26

Questi concetti visti nella lezione precedenti sono concetti pre-filosofici, cioè costituiscono un presupposto dello studio della filosofia. Si parla nella tradizione filosofica classica di recta ratio,intendendosi la capacità della ragione di svolgere il proprio lavoro utilizzando correttamente questi strumenti.

Il secondo punto è il rapporto tra verità razionale e razione. Qui dobbiamo sottolineare la presa d’atto di una crisi del pensiero moderno circa la capacità dell’intelligenza umana di riconoscere la verità. Infatti la filosofia ha spostato l’attenzione all’indagine sulla conoscenza per cercare di capire cosa possiamo conoscere ed è arrivata alla conclusione che c’è incapacità di conoscere il vero. Tutto ciò ha generato differenti risposte di tipo agnostico, cioè non posso conoscere e da questa concezione derivano tutti i relativismi morali. Questo atteggiamento è di tipo scettico, l’uomo non è capace di riconoscere la realtà. In questo senso prende forma una concezione malata del pluralismo, inteso come il fatto che la pluralità di opinioni è un bene, decretando l’impossibilità di una verità. Quindi prende piede un pluralismo che condanna la filosofia al relativismo. IN questo caso fides et ratio parla di falsa modestia del pensiero moderno, cioè si finge di avere un limite ma in realtà questo suo riconoscimento è fatto per un secondo fine. Dice infatti di accontentarsi di verità parziali e provvisorie e in questo modo si priva di compiere delle domande radicali sul senso della vita. Occorre reagire sapendo che l’uomo non deve presumere molto da sé stesso, per cui anche la ragione umana è segnata da questa fragilità, ma tuttavia deve riconoscere che allo stesso tempo è una creatura fatta ad immagine di Dio, ed è fonte di una profonda dignità che implica l’uso della ragione nel migliore dei modi. Pascal dice che l’uomo è un essere profondamente consapevole, èl’unica realtà che sa di essere e questa qualità ci obbliga a un pieno uso della ragione. Occorre vincere dei pregiudizi: ad esempio che le verità razionali siano una cosa a parte rispetto a quelle della rivelazione. Questa non è una rappresentazione fedele della realtà. Fides et ratio cita un passaggio del concilio vaticano I che recita : “ Esistono 2 ordini di conoscenza distinti per il loro principio ma anche per il loro progetto”. Per il loro principio perché nell’uno conosciamo con la ragione naturale e con l’altro con la ragione divina; per l’oggetto perché ci è proposto di vedere i misteri nascosti in Dio. Un essere umano al quale non sia mai stato portato l’annuncio del vangelo non può con la sua ragione immaginarsi il mistero dell’incarnazione. Tuttavia non vuol dire che questi due mondi siano totalmente separati;anche perché la rivelazione si svolge nella storia. Quindi Dio che è fuori dal tempo per sua natura , ma con l’incarnazione entra nella storia e nel tempo, e qui si verifica la fusione tra finito e infinito. Dice l’enciclica “ all’origine del nostro essere credenti vi è un incontro unico nel suo genere che segna il dischiudersi di un mistero nascosto nei secoli ma ora rivelato”. Allora qui bisogna aver ben chiaro di questo doppio livello della conoscenza che l’uomo ha del problema delle verità che riguardano anche la fede. Da un lato la ragione è capace di riconoscere l’esistenza di un’entità creatrice. Ciò che resta necessario all’interno dell’incarnazione è la vera identità di questo Dio. Da una parte c’è la dimensione credere e dall’altra la dimensione della ragione. La tradizione cattolica ha sempre preservato il legame fede-ragione: la fede è un dono di Dio ma questo non impedisce all’uomo di metterla a frutto usando la ragione. Queste due dimensioni vengono sviluppate insieme nell’enciclica perché insieme l’uomo le deve usare. Nello stesso tempo il fatto che la fede è legata alla ragion e, non vuol dire che la fede possa spiegare tutto perché nella fede c’è sempre lo spazio per il mistero. Chesterton, scrittore inglese, dice che l’esperienza dell’uomo è paragonabile a quella di colui che osserva un arazzo dalla parte posteriore (gli arazzi se li giriamo si vedono tutti gli intrecci, totalmente incomprensibili) . Per Chesterton l’uomo vede tanti fatti che non riesce a spiegare. Questo vuol dire che la dimensione del mistero non è contro la ragione, tuttavia non può essere abbracciata dalla ragione. Ci sono tanti aspetti che sfuggono, quindi anche il problema del male innocente,problema filosofico antichissimo: su questi aspetti è possibile abbozzare dei ragionamenti,ma non ci sono delle spiegazioni manualistiche esaurienti. Il dolore innocente trova una risposta assoluta solo all’ombra della croce. Abbiamo anche detto che il terzo aspetto al capitolo 16 cita come modello l’esempio dell’uomo descritto nel libro del Siracide “beato l’uomo che medita sulla sapienza e ragiona con l’intelligenza, considera nel cuore le sue vie e ne penetra con la mete i segreti la inseguo me uno che segue la pista si apposta nei suoi sentieri, egli spia alle sue finestre e sta ad ascoltare alla sua porta, fa sosta vicino alla sua casa e fissa un chiodo nelle sue pareti, alza la propria tenda presso d essa e si ripara in un rifugio di benessere, mette i propri figli sotto la sua protezione e sotto i suoi rami soggiorna, ed essa sarà protetta contro il caldo, egli abiterà all’ombra della sua gloria. Qui c’è un linguaggio arcaico dell’antico testamento, che contiene la descrizione di un uomo che è beato quando risponde al suo desiderio di conoscere. Qui si scopre che la dimensione del credere non annulla la dimensione del ricercare, ma invece la rende possibile. In questo secondo capitolo si intitola “ credo ut intelligam”: La fede affina lo sguardo interiore aprendo la mente a scoprire la presenza operante della provvidenza. Cioè, questo vuol dire che la dimensione del credere mi da una chiave di interpretazione della realtà che mi rende più capace di essere uomo, mi rende possibile un’esperienza più autentica. Questo atteggiamento si può spiegare anche col fatto che una volta che si entra nella dimensione della fede, l’uomo abbandona la dimensione dell’orgoglio, la presunzione dell’uomo di bastare a sé stesso. Tutti ci dicono che la conoscenza è un cammino senza sosta, ma per far questo l’uomo deve riconoscere la necessità di continuare la sua ricerca. Allora se come scienziato escludo aprioristicamente l’ipotesi di Dio, io così sto facendo un errore dal punto di vista oggettivo della verità delle cose, ma sto facendo male lo scienziato, perché lo scienziato è colui che non può escludere le cose a priori.

Filosofia teoretica Mag 3

“Fides et Ratio”

Le regole della ragione al funzionamento della ragione umana. La ragione opera senza sosta. È assetata della verità. Opera per la verità. L’essere umano ha nella sua natura il desiderio di conoscere la realtà che ci circonda. Il mondo creato è visto come una specie di grande libro nel quale il Creatore ha lasciato la sua firma. Conoscere la realtà non è un problema morale, ma laddove l’atto del ricercare modifica e interviene sulla realtà bisogna fare la domanda morale. Questo orizzonte tracciato nella Fides et ratio analizza il rapporto contemporaneo di ostilità tra fede e ragione. Questa enciclica nasce dall’esigenza di stabilire alcune verità messe in discussione o contestate. In questo caso il documento muove contro un pensiero dell’Ottocento e del Novecento (idealismo, positivismo, nichilismo, nei numeri 45-48 dell’enciclica). Abbiamo già detto che la ragione umana è capace di conoscere la verità e l’uomo ha questo bisogno di verità. La ragione umana ha l’obbligo di ricercare la verità. L’uomo, se vuole agire conformemente alla propria natura, al suo fine intrinseco, deve ricercare. Dice testualmente al n.° 25: “L’uomo è l’unico essere in tutto il creato che non solo è capace di sapere, ma sa anche di sapere, e per questo si interessa alla verità reale di ciò che gli appare”. Il problema critico è in se stesso già la prova che l’uomo può interrogarsi sui suoi processi di conoscenza. L’uomo non apprende automaticamente ciò che c’è intorno, ma l’uomo può svolgere una riflessione sul fatto di conoscere. “ Nessuno può essere sinceramente indifferente alla verità del suo sapere”. Ognuno di noi vuole sapere se quello che sa corrisponde al vero. S. Agostino scriveva: “molti ho incontrato che volevano ingannare, ma che volessero farsi ingannare nessuno”. L’enciclica punta il suo dito verso alcune forme di pensiero moderno che hanno contestato la possibilità dell’uomo di conoscere la verità e hanno aggredito il buon rapporto di collaborazione tra fede e ragione. Fede e ragione sono, nella tradizione occidentale, due elementi non conflittuali. Per millenni era assolutamente normale che la dimensione del credere de del ragionare non si contraddicessero. A partire da alcune correnti filosofiche dell’Ottocento questa relazione viene messa profondamente in crisi. Al n.° 46: “Non è esagerato affermare che buona parte del pensiero filosofico moderno si è sviluppato allontanandosi progressivamente della rivelazione cristiana fino a raggiungere contrapposizioni esplicite. Nel secolo scorso questo movimento ha toccato il suo apogeo. Alcuni rappresentanti dell’idealismo hanno cercato di trasformare la fede e alcuni suoi contenuti (perfino il mistero della morte e risurrezione di Gesù Cristo) in strutture dialettiche razionalmente concepibili”. Uno degli elementi che ha caratterizzato l’idealismo e lo storicismo è stato quello di ridurre l’evento cristiano e i suoi eventi più importanti a delle categorie dialettiche-razionali. Cerca di ridurre la dimensione escatologia, metafisica del cristianesimo a categorie filosofiche. Di questo approccio si trova eco rispetto allo studio che, sul fine dell’Ottocento e inizi Novecento, viene svolto sulla Sacre Scritture. Le scritture vengono sottoposte a critiche. Si cerca di limitare la dimensione di Cristo alla sola umana, spogliandolo della sua veste divina. Oltre a questa aggressione c’è un’operazione che cerca di dimostrare la non attendibilità storica della sacra scrittura. Questa operazione si abbatte non tanto sull’Antico Testamento, ma sul Nuovo Testamento. Queste correnti cercano di costruire una contrapposizione tra un presunto Cristo storico e un Cristo teologico. Essi dicono che il Cristo dei vangeli non coincide con quello esistente nella storia. Creano una distanza tra realtà e l’interpretazione. Abbiamo già visto qualcosa del genere per il problema critico (non esistono realtà; esistono solo interpretazioni della realtà). Si cerca di qualificare Cristo come qualcosa di soggettivo. Ciò insinua nella origine stessa del fatto cristiano un dubbio sistematico: ma quello che leggo è veramente qualcosa di corrispondente a quanto accaduto o è una favola edificante? Buona parte della teologia cattolica è stata affascinata da questo lavoro di demitizzazione. Il problema insito in questa operazione è che non si capisce bene dove il processo di demitizzazione il processo di dovrebbe fermare. Secondo qualche teologo ci sono alcuni episodi del vangelo che andrebbero smascherati. Un tipico esempio è la resurrezione di Lazzaro. L’episodio è per questi critici l’enfatizzazione di una persona molto malata. Questa operazione è piuttosto ridicola: essa nasce da un’esigenza dal razionalismo. Il razionalismo ritiene accettabili solo quelle cose misurabili con il metodo scientifico. Per il razionalista uno degli eventi che sfugge a questo criterio è il miracolo. Il miracolo è sospensione momentanea delle leggi di natura per volontà divina al fine di realizzare un bene. L’uomo cieco che riacquista la vista è un miracolo. Per il razionalista quest’evento è inaccettabile perché non è reiterabile. In questo modo di operare c’è una forma ideologico-dogmatica che non è rispettosa della ragione. La commissione che opera a Lourdes che certifica le guarigioni miracolose ha riconosciuto un numero di fatti miracolosi, che sfuggono a una spiegazione di carattere scientifico. La ragione dovrebbe fermarsi davanti a questi accadimenti. La demitizzazione ha origine nel razionalismo: si può accettare nelle sacre scritture una certa quantità di cose ma non posso accettarne troppe. Ecco il punto debole e pernicioso della demitizzazione: essa ha un potere corrosivo potenzialmente non delimitabile. Per il cristiano sapere che Lazzaro non è resuscitato non cambia niente. Una volta assunto il metodo per cui l’evangelista è screditato per quello che racconta non si dà credito a quello stesso testimone per altri fatti narrati. Il criterio più logico per avvicinarsi all’attendibilità delle sacre scritture è sottoporle a una verifica archeologica, ma nello stesso tempo occorre riconoscere che l’ipotesi metodologica più plausibile è che non esista affatto una contrapposizione tra un Cristo della storia e un Cristo della teologia, ma che al contrario, questi testi siano dotati di una considerevole attendibilità storica. La prima preoccupazione degli evangelisti non è scrivere un testo di storia. Tuttavia i fatti narrati si riscontrano tra loro e danno luogo a una serie di circostanze altamente credibili. Perfino gli errori sono prove a favore. Nei vangeli sinottici ci sono contraddizioni. Non c’è una perfetta coincidenza. Questo è una prova attestante la storicità, perché soltanto racconti completamente inventati e costruiti ad arte per dare una certa immagine potrebbero avere una perfetta coincidenza. Se devo inventare dei fatti storici e appartengo alla stessa comunità, la cosa più semplice è elaborare dei racconti che siano tra loro concordanti. Queste piccole differenze attestano che i racconti sono scritti preservando il punto di vista del narratore. Questo approccio critico ha aspetti utili, ma bisogna guardarsi da questa deriva che ha promosso la demitizzazione e ha una sua debolezza intrinseca: scinde in maniera arbitraria i fatti da ritenere attendibili da quelli che non lo sono.

L’altra forma di pensiero moderno che la Fides et Ratio dita come deviazione dal pensiero tradizionale è il positivismo scientifico. Si legge al n.° 46: “Nell’ambito della ricerca scientifica si è venuta imponendo una mentalità positivista che non soltanto si è allontanata da ogni riferimento alla visione cristiana del mondo, ma anche e soprattutto ha lasciato cadere ogni richiamo alla visione metafisica e morale”. Il positivismo è presentato come la dottrina per la quale la dimensione metafisica e la dimensione morale vanno eliminate. “La conseguenza di ciò è che certi scienziati, privi di ogni riferimento etico, rischiano di non avere più al centro del loro interesse la persona e la globalità della sua vita”. Se sono un professionista la mia preoccupazione è lavorare bene per lo scopo per cui sono stato pagato. In questo orizzonte manca una preoccupazione nel senso di quello che faccio. Manca anche la preoccupazione morale. Non ho nel mio orizzonte un problema di accettabilità morale delle azioni che mi accingo a compiere. Il positivismo ha generato questa degenerazione nel campo della tecno-scienza. Nel campo della tecno-scienza esiste questa zona franca dove la dimensione del senso e della morale non esiste più. Lo scienziato è uno che non si pone per definizione delle questioni morali. Vediamo due caratteristiche del positivismo. Da un lato c’è quest’orizzonte svuotato dalla dimensione morale; dall’altro lato c’è la separazione del mondo e dell’umano in compartimenti stagni. Ci potranno anche essere questioni morali ma si ritiene che esse debbano essere affrontate solo dal moralista o dal filosofo. La parola “università” indica proprio un sapere organico, integrale. Non è un sapere fatto a compartimenti stagni: “università” perché le discipline che si studiano hanno un senso se vengono ricondotte a un tutto. Il processo che si è insinuato nelle università moderne è un processo di frammentazione. Oggi si studiano le singole materie, ma non vengono ricondotte a una visione di insieme. L’uomo è un uomo in pezzi. L’orizzonte della cultura è frammentato, dove non si capisce più il motivo per cui si studia. Responsabilità di ciò la ha sicuramente il pensiero positivista.

Abbiamo visto il positivismo e la concezione che esso comporta nell’uomo e nella sua ragione. Abbiamo visto l’idealismo con il suo tentativo di ridurre la realtà e interpretazione della realtà. Positivismo e idealismo sfociano nel Novecento nel nichilismo. Il nichilismo è una filosofia del nulla che a dispetto di questa definizione suscita sempre un certo fascino verso i pensatori contemporanei. Una delle peculiarità del nichilismo è quella di descrivere la ricerca come qualcosa di fine a se stesso. Nella impostazione tradizionale l’uomo ricerca perché cerca la verità e il mondo intorno a sé. Questo lavorio è vanificato dal nichilismo che immagina la ricerca fine a se stessa e non ha possibilità di raggiungere la verità. Il nichilismo si alimenta di un certo pessimismo della ragione e ottimismo della volontà. “Pessimismo della ragione” nel senso che la ragione è colpita da una falsa modestia e si ritiene incapace di conoscere la verità. “Ottimismo della volontà” nel senso che si è coscienti di non poter mai scoprire la verità ma si ricerca ugualmente. Questa miscela (idealismo, positivismo, nichilismo) produce un cattivo rapporto tra la realtà moderna e le tecnologie prodotte dall’uomo. L’uomo entra in rapporto conflittuale non solo con altri uomini ma anche con il progresso tecnologico. Uno dei problemi prodotti dalla modernità è un rapporto problematico tra l’uomo e il progresso. Un rapporto problematico che ha conosciuto varie fasi (l’industrializzazione, lavoro e capitale, fordismo-sistemi di produzione, robot). In fasi diverse si manifesta di manifesta un malessere. L’enciclica dice: “L’uomo di oggi sembra essere sempre minacciato da ciò che produce, cioè dal risultato del lavoro delle sue mani, e ancor più del lavoro del suo intelletto. I frutti di questa multiforme attività dell’uomo sono non soltanto oggetto di alienazione quanto questi frutti si rivolgono contro l’uomo stesso” (pensiamo a Mary Shelley e Frankenstein). Frankenstein è il prodotto dell’uomo e si rivolta contro l’uomo stesso. “I manufatti fatti dall’uomo possono essere diretti contro l’uomo. In questo sembra consistere l’esistenza umana contemporanea nella sua più larga dimensione. L’uomo vive pertanto sempre più nella paura. Teme che i suoi prodotti possano essere rivolti contro lui stesso”. Anche la riflessione ecologica è una continuazione di questo problema. L’approccio è sbagliato perché si ritiene che il male della terra è l’uomo. Si attribuisce la colpa di tutto all’uomo. L’uomo ha la pretesa di modificare l’ambiente. C’è la presunzione che il tempo dipendano dall’uomo. L’uomo non è padrone dell’ambiente: ciò che accade sfugge al suo controllo. Il rapporto con la realtà deve far riconoscere la dignità della dimensione umana e il limite della dimensione umana. Al n.° 52 troviamo: non solo dal Novecento s’è diffusa una concezione che tradisce la vera natura dell’uomo. Questi errori del pensiero sono più antichi. In questo numero vengono citati esempi stessi di concezioni erronee. Una di queste è il fideismo. Il fideismo consiste in quell’atteggiamento che di fatto nega l’esistenza di una relazione tra fede e ragione. Ritiene che ciò che ha a che vedere con la fede non riguarda per niente la ragione. La fede deve essere abbracciata dall’uomo con un atto cieco di fides. Il fideismo è l’altro lato della medaglia che porta su una faccia il razionalismo (la negazione dell’esistenza di fatti che non siano sperimentalmente verificabili). Il fideismo non sottopone nulla a verifica della ragione. Si compie un atto di cieca credenza. Il protestantesimo e il luteranesimo nascono sulla scia di questa visione. Per queste correnti bisogna epurare l’atto di fede dall’elemento inquinante della ragione. Sei un buon cristiano solo se credi ciecamente. Il protestantesimo scinde fede e ragione, e la dimensione morale dalla dimensione della fede. Lutero dice “pecca fortemente”. Siccome l’uomo è salvato dall’atto libero di un Dio che va in croce per lui allora, per evitare di credere che tu ti salvi per i tuoi meriti, l’agire bene evapora. Ciò che salva è solo l’atto di fede. Più sei peccatore e più riconosci di aver bisogno di un atto di salvezza. Questa operazione che fa Lutero (egli aveva il terrore di essere dannato) trova questa operazione: è la fede che ti salva; le opere non contano nulla. Su questo aspetto il cattolicesimo ha sempre tenuto insieme la dimensione della fede e delle opere. S. Giacomo dice: “Senza le opere la fede è morta”. La fede è arricchita con le opere della vita. Le opere da sole non salvano nessuno ma diventano un modo per vivere la propria fede. Questo legame tra fede e ragione viene scisso dal protestantesimo. Fra queste dottrine erronee vengono citate il marxismo: esso non è solo una dottrina politica economica, ma è prima ancora una filosofia. Una parola a parte merita la concezione dell’evoluzionismo. Quando parliamo di evoluzionismo dobbiamo sempre tener presente che questa parola ha significati differenti a seconda del piano sul quale la collochiamo. Le teorie scientifiche sull’evoluzione sono una cosa, mentre l’evoluzionismo in senso filosofico è un’altra cosa. Le teorie scientifiche sull’evoluzione sono sorte nell’Ottocento. Essendo scientifiche vanno sottoposte a metodi propri della scienza. La teoria scientifica non è una legge ma è una tesi. Nonostante le teorie scientifiche sull’evoluzione sono diventate la teoria di riferimento che spiega lo sviluppo della vita nel nostro pianeta, dobbiamo sempre ricordarci che stiamo parlando di “teorie”. L’atteggiamento verso le teorie scientifiche che sostengono l’evoluzione deve essere equilibrato. Nel campo delle teorie sull’evoluzione c’è un dibattito. Se si parla invece di “evoluzionismo” si passa da un discorso meramente scientifico a un discorso che pretende di trarre dall’osservazione scientifica un giudizio di valore sull’uomo. Darwin, contrariamente a quelle che possono essere le apparenze, ha un’impronta evoluzionistica. Elabora non solo una teoria scientifica ma una dottrina sull’uomo. Affermare che l’uomo deriva dalla scimmia diventa non solo un fatto scientifico ma diventa un fatto significativo dal punto di vista antropologico: non esiste alcuna differenza sostanziale, dal punto di vista ontologico, tra l’uomo e le altre specie viventi. Il fatto che l’uomo abbia fra i suoi antenati una scimmia non è solo un fatto biologico ma è un fatto che si riveste anche di un significato morale e antropologico. L’uomo deve scendere dal suo trono di “immagine e somiglianza di Dio”, a animale simile agli altri. Secondo l’evoluzionismo questa rilettura dello sviluppo degli esseri viventi contiene anche un giudizio di valore. Allora l’uomo è primate più evoluto degli altri primati. Qui gioca un ruolo quella cultura positivista che ha un fortissimo approccio riduzionista. Gli evoluzionisti dicono che possiamo essere definiti solo dal Dna. Gli scienziati, quando hanno studiato il genoma, pensavano che questo genoma fosse molto diverso, invece non ci sono tantissime differenze. La peculiarità dell’uomo non è soltanto il suo genoma, ma c’è qualcosa di più. Il valore di una creatura non dipende dalla sua quantità. Da un punto di vista storico, sulle dottrine evoluzionistiche di Darwin si innestano due filoni: il razzismo e l’eugenetica. L’eugenetica dice che bisogna intervenire attivamente sullo sviluppo della specie umana per eliminare le mele marce dal punto di vista genetico. Queste dottrine nascono sulla scorta dell’evoluzionismo perché l’evoluzionismo fornisce l’alibi culturale a queste dottrine. Siccome l’uomo non è l’uomo di oggi non è un prodotto finito ma il prodotto di uno sviluppo. Noi possiamo intervenire in modo scientifico per aiutare la natura ad accelerare il processo. Affermare che da un punto di vista scientifico se c’è stata una evoluzione non vuol dire essere razzisti o eugenetisti. La dottrina evoluzionistica ha spesso rappresentato un alibi per questi modi di pensare. Mentre le dottrine delle teorie evoluzioniste sono dottrine scientifiche rispettabilissime e da studiare, non si può dire lo stesso dell’ideologia evoluzionistica, cioè di quell’approccio per cui l’uomo è qualitativamente identico alle altre specie. Così cade il valore ontologico della persona umana.

Filosofia teoretica Mag 10

Fides et ratio

L’uomo ha una missione che passa per la ricerca della felicità, del bene. lo strumento che l’uomo deve utilizzare è la ragione. Esiste un conflitto tra il pensiero contemporaneo e il pensiero classico. La contrapposizione nasce dal fatto che mentre la filosofia ha sempre riconosciuto nell’uomo la capacità di riconoscere la verità pur con tante difficoltà, con la filosofia moderna questa certezza è stata incrinata e spazzata via. C’è una falsa modestia per cui la ragione non può conoscere la verità. Oggi dobbiamo parlare di post-modernità: periodo culturale successivo alla morte delle ideologie (soprattutto del comunismo). Accade che le ideologie alle quali l’uomo aveva affidato un ruolo messianico sono implose in sé stesse. Di fronte a tale implosione entriamo nella post-modernità. Le caratteristiche della post-modernità sono quelle di un pensiero fortemente relativista che rifiuta di affermare qualsiasi cosa. Mentre nella modernità assistiamo all’avvento di intellettuali che affermano con forza qualcosa (Marx, Nietzsche), nella post-modernità non viene affermato nulla e si accontenta di negare tutto ciò che gli altri tentano di affermare con convinzione. Cacciari dice che “chiunque affermi che esiste un bene che è bene per tutti è un integralista”. Il pensiero post-moderno parte dal presupposto che l’importante è non affermare mai con forza e convinzione una oggettività. Si ritorna al problema “la verità non esiste”. Il dogma relativista si smonta con una semplice operazione logica. Se dico che la verità non esiste, affermo una verità oggettiva. Quindi, o la prima affermazione è falsa o è falsa la seconda. Il relativismo si fonda su un’affermazione assoluta. È esattamente come il non-cognitivismo: per affermare che non si conosce nulla, si deve ammettere che si può conoscere almeno una cosa, cioè che non si può conoscere. Il pensiero post-moderno ha una grande debolezza: afferma un vuoto che non è in grado di garantire, perché per l’uomo è impossibile non affermare mai nulla. Il libertarismo si fonda su delle asserzioni molto relativiste; ha dei dogmi. Assume alcune regole del mercato allo stesso modo in cui un cristiano assume i dieci comandamenti. Il liberalismo si presenta come una dottrina che dice “fa ciò che vuoi”, ma poi non permette un sistema monopolistico. Il liberalismo ha bisogno di fondarsi su assoluti. Il punto di debolezza di questo pensiero è la sua contraddittorietà e la sua impalpabilità. C’è anche un punto di forza: non affermando nulla di definitivo è molto difficile da contrastare. Se incontro un convinto assertore del nazismo posso cercare di contrastare dialetticamente ciò che dice. Il post-moderno sembra accontentarsi di dire: non so chi ha ragione, io posso dire che chiunque crede di poter affermare una verità oggettiva sta sbagliando. Da un punto di vista del supermercato delle idee questa condotta piace. Non obbliga a un confronto serrato con l’altro. Evita il confronto, il dibattito. Quello che la Fides et Ratio solleva è il dramma di una società che, svuotandosi sempre più di contenuti oggettivi, rischia di arrivare alla paralisi della ragione. Questi problemi sono pronunciati da molti filosofi. Non è possibile fondare un sistema democratico se si afferma come dogma che non esiste un bene per tutti. Il governo del popolo presuppone un bene comune. Il concetto di bene comune implica una oggettivizzazione dei valori. Se non si può scoprire il bene comune, è impossibile creare un governo. Queste considerazioni fanno cogliere il fatto che tutte quelle dottrine del Novecento vengono portate a maturazione nel periodo post-moderno.

Lo storicismo: per comprendere in maniera corretta una dottrina del passato è necessario che questa sia inserita nel suo contesto storico-culturale. La tesi fondamentale dello storicismo consiste nello stabilire la verità di una filosofia sulla base della sua adeguatezza a un determinato periodo e a un determinato compito storico. In questo modo si nega la validità perenne del vero. Ciò che era vero in un’epoca può non esserlo in un’altra. Lo storicismo è il relativismo applicato nel corso dei secoli. Si priva della possibilità di giudicare la realtà di un parametro univoco. Questo modello produce dei paradossi: i campi di concentramento sono una cosa buona per lo storicista.

Lo scientismo (positivismo scientifico): rifiuto di ammettere come valide forme di conoscenza differenti da quelle che sono proprie delle scienze positive. S’è appannata l’immagine dei leader politici e s’è creata un’aureola sull’immagine degli scienziati. Gli unici che ci dicono come stanno le cose sono coloro che lavorano tutti i giorni con il metodo scientifico. Nel vissuto dell’opinione pubblica lo scienziato è degno di fede, mentre non lo è il filosofo. Non ci si accorge che anche l’attività della scienziato ricade all’interno della morale e dell’errore. La scienza non è in grado di rispondere alle domande dell’uomo circa il senso della vita. Le domande più interessanti sono proprio le domande sul senso della vita. La scienza non risponde ai “perché” fondamentali. A ciò risponde solo la filosofia e la religione. La scienza deve fermarsi dinnanzi ai perché della vita. Per questo non c’è contrapposizione tra fede e ragione, tra scienza e uomo. L’importante è che nessuno pretenda di occupare lo spazio dell’altro.

Il pragmatismo: atteggiamento mentale di chi, nel fare le sue scelte, esclude il ricorso a riflessioni teoretiche o a valutazioni fondate su principi etici. Nel mondo del lavoro tutto è orientato al risultato e agli obiettivi. La logica del pragmatismo è raggiungere obiettivi e nuovi stimoli. È un sistema che si dimostra molto efficiente. Seleziona le persone ritenute idonee, espelle le altre, e ha il vantaggio: l’essere umano che sta in questa macchina non ha tempo di porsi quelle domande che ha appena citato. L’affanno e avere delle gratificazioni aiutano la mente dell’uomo a non pensare a questi problemi. Peccato che questa situazione di euforia prima o poi finisce (fallimento, pensione, licenziamento). Il problema esistenziale non è abolito, ma solo rimandato. Come diceva Pascal, può capitare di pensare che l’uomo ricco sia felice, ma aspettate che quest’uomo abbia cinque minuti di tempo in cui non abbia nulla da fare. Quell’uomo non sarò più felice del mondo. Questa realtà è intrinseca dell’uomo. Il pragmatismo è una falsa soluzione che porta molte implicazioni morali deteriori. Notevoli sono le pratiche derivanti da questa linea di pensiero. In particolare viene concepita la democrazia non contemplando riferimenti assiologici e perciò immutabili. Anche il sistema democratico si è assuefatto a una logica pragmatica. Quando si deve legiferare non ci si pone una domanda di tipo ontologica ma di tipo poietico: non ci si chiede cosa sia questa realtà, ma ci si chiede se si può fare o meno. Invece prima di decidere devo conoscere la realtà.

Il nichilismo: è l’esito di queste dottrine. Le tesi precedenti hanno preso congedo dal senso dell’essere. Si rifiuta di affrontare il problema dell’essere come problema della filosofia. La filosofia è ricerca della verità. La dottrina nichilista è il rifiuto di ogni fondamento e la negazione di ogni verità oggettiva. La conseguenza è che diventa impossibile parlare di natura umana. allora l’uomo è una realtà in continuo cambiamento. La parola naturale è viene abrogata o viene equivocata nel suo significato (intesa come ciò che accade). Natura significa il fine per cui si esiste. Si agisce secondo natura se si rispetta il proprio fine.

Il Male

Il male, prima di essere teorizzato, è vissuto. Il filosofo della realtà non fa della filosofia astratta, ma trae spunto dalla realtà che ci circonda. Contra factum, argomenta non valent. Una delle cose più ostinate nella realtà sono i fatti. Questo vincola anche Dio. Dio stesso non interviene sui fatti già accaduti. Il problema del male ha varie sfaccettature. Esso ha molti significati. L’uomo constata che esiste un male interno all’uomo, sia fisico che morale. Sono un essere limitato e sperimento situazioni in cui agisco bene e male. In me ci sono pulsioni verso una condotta malvagia. Da un punto di vista fenomenologico, il male si dice in molti modi. C’è un male non si provenienza personale, ma che esiste (le catastrofi naturali). C’è un male inteso come patologie, malattie, incidenti, morti. Male come deficienze morali (peccato). C’è un mondo morale che attiene al suo libero arbitrio. Vizi e virtù sono habitus che l’uomo ha nella vita. Ci sono mali sociali, collettivi, guerre. Ci sono errori della ragione.

1. Catastrofi naturali, sciagure

2. Mali fisici

3. Peccato, deficienze morali

4. Male sociale, collettivo, guerra

5. Errore della ragione

Il problema del male è molto reale. L’essere collocati in una società mediatica enfatizza la percezione di questo male. Solo se una notizia è cattiva è una buona notizia. Questo fatto porta alla nostra attenzione l’esistenza del male. Il male costituisce una potentissima prova contro qualsiasi forma di relativismo. Esso dice che non è possibile stabilire la verità, cioè il bene, né il male. Quando si leggono queste notizie non si può fare a meno di formulare un giudizio di queste notizie. Questo giudizio è la prova che l’uomo è in grado di dare un valore a quello che vede e quindi anche di conoscere l’esistenza del male. Questo male non è sempre quello che i mezzi di comunicazione riconoscono in maniera esplicita. Esiste una dimensione del male più sotterranea. Esiste anche un male che si consuma in maniera sotterranea, nel senso che è coperto da una patina di legalità. Portano l’opinione pubblica a non percepire più questi fatti come male ma non per questo sono mali di misura minore, anzi, proprio il fatto della legalizzazione lo rende ancora più sgradevole a un’osservazione della realtà (eutanasia, aborto, RU486, laboratori con embrioni umani). Il problema del male è un problema reale e perlopiù visibile. La filosofia da sempre si pone la domanda “perché esiste il male”, “quale è la causa del male”, “come si può conciliare il male con Dio provvidente”. Il male lancia all’uomo una sfida triplice:

1. Di carattere pratico-esistenziale. Mi obbliga a prendere una posizione di fronte al problema dell’esistenza del male. Questa posizione può essere di vario tipo: posizione fatalista, passiva (il male esiste, ne prendo atto); posizione di ribellione; posizione stoica, sprezzante del male, ma senza trovare una risposta umanamente soddisfacente; atteggiamento di resistenza fiduciosa (si confronta col male, non lo elimina, ma scopre che esiste un modo umano per affrontare il male).

2. Di carattere teoretico-teorico. Il male si presenta a noi con una domanda “perché esiste il male?”. Il male si manifesta in maniera fenomenica. Uno dei modi con la filosofia ha affrontato questo problema è la cosiddetta teodicea, cioè la riflessione filosofica che cerca di conciliare il Dio provvidente e il male.

3. Misterium iniquitatis. Esiste il male. Questo male conserva un carattere misterioso e incomprensibile a meno che non ravvisiamo una dimensione non solo empirica ma anche metafisica. C’è il male visibile. Il misterium iniquitatis rimanda all’esistenza di una volontà malvagia, che non è cieca ma che ha un obiettivo razionale, che spiegherebbe l’esistenza del male nell’uomo. Questa entità intelligente è all’origine del male che si verifica nella nostra vita. C’è n ruolo nascosto giocato da una volontà malvagia che spiega il grumo di male dell’universo.

Tutti i filosofi si sono scontrati con questo problema. Possiamo cercare di ricordarne alcuni. Leibniz nasce nel XVII secolo. Dà una risposta molto profonda su questa questione. Dimostra l’esistenza di Dio e conciliare l’esistenza di Dio con l’esistenza del male. Leibniz si poggia su due argomenti:

· Il male non è altro che la privazione dal bene (filosofia greca). La dimensione del limite spiega perché c’è il male.

· Il Dio di Leibniz è Dio dei filosofi, un capomastro che ha creato il migliore dei mondi possibili.

Il male metafisico esiste ed è però soltanto un limite. Il male fisico è spiegabile con l’ipotesi del migliore dei mondi possibili. Poi c’è il male morale, frutto della libertà dell’uomo. Leibniz dice che l’uomo soffre perché si imbatte nel male. Ma non ti crucciare molto perché il mondo è armonia ed è il migliore dei mondi possibili. C’è una forte dose di ingenuità: il fatto che io abbia a che fare col male non può essere lenito o risolto dal fatto che il mondo nel suo insieme funziona nel miglior modo possibile. Io sono importunato e danneggiato che subisco. Se ho un lutto il problema del male è mio e non mi consola l’idea che gli astri funzionano secondo una certa armonia. Questa concezione sottovaluta il ruolo che la libertà dell’uomo gioca nel generare il male nella sua complessità. Un altro filosofo è Teillard de Chardennes. È autore di una descrizione della realtà ispirata a una visione evoluzionistica del mondo. La spiegazione che egli dà del male si colloca nel modello evoluzionistico. L’evoluzionismo dice che lo sviluppo di una specie verso una specie più raffinata è il frutto del caso e della necessità. La specie si trasforma non perché qualcuno orienta quello sviluppo ma in base al caso. In virtù di questo ragionamento il male è una inevitabile necessità statistica, una specie di scoria dell’evoluzione del creato, che procederebbe per gradi verso il suo compimento definitivo. Questa definizione di Teillard sottovaluta completamente la dimensione morale del male. Il male ha molte sfaccettature. È una concezione che mortifica la libertà della persona. Il male è spesso la conseguenza di libere scelte dell’uomo.

Filosofia teoretica Mag 17

IL MALE

Le risposte a questo problema sono sempre parziali. Anche il marxismo l’ha affrontato e ha teorizzato che alla radice di tutte le forme del male ci sono situazioni di ingiustizia, con origine economica e sociale, data da una divisione della società in classi, problema da combattere ed una volta che sarà superato, la storia dell’umanità sarà senza che il male coinvolga l’uomo. Quindi questo problema viene portato dal singolo uomo a una questione collettiva. In questa concezione il male è totalmente separato dal libero arbitrio. Il male è un’esperienza economica ingiusta. E’ evidente che questa interpretazione è inadeguata. Ultima delle risposte da ricordare è quella fornitaci dal positivismo scientifico,che dice che l’unica via possibile per affrontare il male è la scienza. Ci sono molti errori

1) L’uomo risolve da solo questo problema

2) La conoscenza scientifica interpretata come la panacea di tutto il male.

3) Esistono alcune dimensioni del male che non sono sconfitte dalla scienza come ad esempio la morte.

Le risposte tentate dalle religioni:

INDUISMO. Il male è una conseguenza delle azioni che l’uomo ha compiuto nella sua vita. Per cui quando l’uomo nella sua vita si imbatte nel male, ha un passato che deve scontare. LA medicina che l’induismo propone è di condurre una vita virtuosa che può rompere le catene rappresentate dalla reincarnazione ( questo perché nell’induismo la reincarnazione è un fatto negativo) e si fonde con l’io cosmico. E’una prospettiva panteistica. Nella reincarnazione l’uomo è come se cominciasse da zero.

BUDDISMO. E’ basata sulla considerazione che la vita dell’uomo è sofferenza. Qual è la causa di questa sofferenza? È il desiderio, perché possiamo descrivere il dolore come la causa di qualcosa che vorremmo raggiungere, e la ricetta è l’annientamento del desiderio. Questo atteggiamento di indifferenza si raggiunge attraverso l’ascesi. Nel buddismo c’è proprio questa prassi che si raggiunge con una tecnica di posizione, di respirazione. Dove si vuole arrivare? Nel nirvana, che vuol dire una condizione di atarassia rispetto ai desideri del mondo.

MUSULMANO. Per evitare il male si devono evitare le azioni vietate e compiere i precetti rappresentati dal corano. Queste prescrizioni sono sia di carattere morale sia con implicazioni alimentari ed igieniche. E’ una religione di una sottomissione.

EBRAISMO. FA qui la sua comparsa il concetto di peccato come infedeltà all’alleanza con Dio. LA fedeltà all’alleanza con Dio trova una conferma nel modo in cui le cose vanno. Ci sono delle eccezioni, perché Giobbe è uno degli uomini più fedeli, ma a lui le cose non vanno affatto bene. Dentro questa prospettiva il male è ricondotto a un’esperienza personale con Dio. Qui la risoluzione al male è nel confermare a Dio la propria fiducia.

CRISTIANESIMO. Non elimina il portato della religione ebraica. Il cristianesimo supera l’antico testamento ma si innesta nella tradizione ebraica. Questa prospettiva si pone il problema della giustificazione della presenza della presenza del male stesso. Il male dipende dalla libertà dell’uomo, quindi il problema è connesso al problema del peccato originale. Questo peccato originale, è riassumibile nella volontà dell’uomo di essere come Dio. Il peccato quindi è la causa prima del male. Durante i primi secoli del cristianesimo la discussione di questo problema fu fonte della nascita del manicheismo, secondo i quali esiste un principio malvagio che si contrappone a Dio. C’è il male e il bene e quindi anche gli uomini si suddividono tra buoni e cattivi. LA chiesa dà una risposta diversa. Il catechismo si chiede, come mai esiste il male se Dio si prende cura di tutte le sue creature? IL catechismo dice, a proposito, nessuna risposta immediata potrà bastare. E’ l’insieme della fede cristiana che costituisce la risposta a questa domanda. La risposta non è una formula, ma è un vieni e vedrai.

Filosofia teoretica Mag 17 B

Il cristianesimo sottolinea il ruolo giocato da una realtà non umana. Il male è collegato al peccato. Il problema del male risulta inspiegabile in una lettura completamente orizzontale della realtà, immanente. A volte non si capisce perché l’uomo debba commettere un male. Purtroppo di questo male ce n’è in giro molto. Allora il male si spiega solo se ci si rifà a questo misterium iniquitatis, che è appunto il diabolico. Va ricordato come S. Paolo scrive a riguardo di questo problema: “Attingete forza nel Signore e nel vigore della sua potenza. Rivestitevi dell’armatura di Dio per poter resistere alle insidie del diavolo. La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di carne e di sangue, ma contro i principati e le potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”. Paolo dice che bisogna rivestirsi dell’armatura di Dio per combattere un nemico invisibile, che si nasconde, che usa gli uomini per compiere le sue nefandezze. Questo combattimento, l’idea della vita come militanza, è da intendersi come difesa di ogni persona da questo tentatore. Scrive Heinrich Schlier: “I nemici non sono questo o quell’altro. Il contrasto si rivolge contro una quantità innumerevole di nemici che sono instancabilmente all’attacco. Avversari non ben definibili che non hanno veri nomi ma solo denominazioni collettive. Sono anche a priori superiori all’uomo, e questo per la loro posizione nei cieli dell’esistenza, superiori anche per impenetrabilità e inattaccabilità delle loro posizioni”. Nel vangelo si dice che il suo nome sia legione. Il diavolo è un angelo decaduto, o meglio una minoranza di angeli decaduti che, esercitando la propria libertà, vanno contro Dio per atto di ribellione. Questo atto di ribellione determina questa contrapposizione permanente e questo tentativo di portare quante più anime possibili alla perdizione eterna. La dimensione quantitativa del maligno è un’espressione esplicitata nelle scritture. Gesù, parlando del diavolo, lo descrive come numeroso. Il diavolo è realtà personale, non è un modo pittoresco e colorito di rappresentare il male che esiste nel mondo, ma è una realtà personale dotata di volontà. E’ una realtà intelligente anche se è sempre una creatura di Dio. È infinitamente diversa è meno potente di colui che l’ha creato, però resta una realtà attiva nel mondo: il nemico. Il male è comprensibile in questa cosmologia come il prodotto di una volontà ribelle, avversa, intelligente, che vuole sottrarre a Dio e alla sua misericordia il maggior numero possibile di anime.

Riprendiamo il tema del rapporto tra fede e ragione per capire come fede e ragione sono collegate. Prendiamo le mosse da un autore italiano, Cornelio Fabro. È un filosofo tomista il quale nel 1968 scriveva: “il problema dei rapporti tra ragione e fede, nella cultura dell’occidente, può ben essere detto un nido di difficoltà senza fine e si presenta come il nodo di tutti i problemi sulla risoluzione ultima della verità dell’esistenza per l’uomo itinerante nel tempo”. Rispetto a questo discorso, è opportuno partire da un dato di carattere storico. Il fatto storico è che l’evento cristiano, fin dall’inizio, realizza un incontro fra la fede cristiana e l’espressione più alta del pensiero umano disponibile in quel tempo, quella greca. Paolo va ad Atene, il luogo dove si sviluppò la più grande concentrazione di filosofi dell’epoca. Questo incontro tra cristianesimo e ragione è un fatto storico di cui troviamo traccia splendida negli Atti degli apostoli, cap. 17, dove l’incontro di Paolo con gli ateniesi è così descritto: “Quelli che scortavano Paolo lo accompagnarono fino ad Atene, e se ne ripartirono con l’ordine per Sila e Timoteo di raggiungerlo al più presto. Allora Paolo, alzatosi in mezzo all’areopago, disse: <>” Questo è il discorso che Paolo fa agli ateniesi. Gli ateniesi sono l’espressione della cultura filosofica più importante dell’epoca. La struttura del discorso di Paolo non è ispirata al tema della credenza, ma è estremamente logico-razionale. Paolo parte dalla cultura greca, da una espressione razionale all’esistenza del divino ancora non conosciuto completamente. Questo Dio si è poi ridotto a uomo e risorto. Il cristianesimo è l’incontro tra fede e ragione. Quando i primi cristiani annunciavano il vangelo entravano nei luoghi di culto. Il vangelo si diffonde innanzitutto verso i giudei. Quest’annuncio avviene nelle sinagoghe, cioè è rivolto al mondo religioso del tempio. Quando invece Paolo va ad Atene non parla con i sacerdoti di Atena, ma parla ai filosofi. C’è fin dai primi passi del cristianesimo un confronto con la ragione. Paolo si rivolge al filosofo facendo leva sulla ragione. Infatti l’annuncio che Paolo fa è basato su una pretesa: che l’annuncio che fa è vero. Usa la categoria filosofica della verità. Il cristianesimo è vero. Paolo sta dicendo che quello che annuncia è vero, e quindi lo deve annunciare ad ogni persona che incontra. La verità mi farà libero, mi rende capace di annunciare la verità. Questo proposta intercetta il contenuto della filosofia classica, che è l’esercizio del pensiero, della volontà e dell’essere rivolto al acquisire la sapienza. La sapienza è un obiettivo difficile. Una proposta religiosa può storicamente essere presentata non per la sua veridicità, ma perché è socialmente utile, perché fornisce un supporto psicologico alla persona. C’è questa prospettiva sentimentale della fede che presenta un difetto: si fa dell’esperienza religiosa qualcosa di totalmente altro dal mondo della ragione. La religione è accettabile perché è vera. Altrimenti, se si naviga in questa logica di convenienza sociale, si corre lo stesso rischio che correrebbe la persona che ci domandasse: che colore è la sinfonia di Mozart? Lo strumento col quale si apprezza la musica non è la vista. L’incontro del vangelo col mondo greco è avvenuto in una dimensione totalmente diversa da questo esempio. L’incontro tra fede e ragione si basa sulla verità; quindi sul terreno della ragione che ha come compito fondamentale quello di aiutare l’uomo a distinguere ciò che è vero da ciò che è falso. Questo evento storico non è un evento casuale. Paolo va ad Atene per offrire un confronto duro tra la proposta cristiana e la ragione. È un incontro coraggioso perché gli ateniesi reagiscono in modi differenti. “Quando sentirono parlare di risurrezione dei morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: <>. Così Paolo uscì da quella riunione, ma alcuni aderirono a lui e divennero credenti. Fra questi Dionigi, membro dell’Areopago, una donna di nome Damaris. Dopo questi fatti Paolo lasciò Atene e si recò a Corinto”. Fin dall’inizio il Cristianesimo non fugge l’incontro con la ragione ma lo propone coma una sfida fondamentale. Il cristianesimo rimane profondamente impregnato nella sua dottrina del contenuto della ragione e della filosofia. Il cristianesimo non può essere studiato dimenticandosi della ragione. Il fatto storico di cui stiamo parlando non è accaduto per caso: costituisce il concreto realizzarsi di una esigenza strutturale intrinseca sia alla fede cristiana, sia alla ragione umana. La fede cristiana non si giustappone alla ragione, ma è dal suo interno pronta a richiamare la ragione. C’è l’ambizione di muoversi sia nel terreno della fede che in quello della ragione. Questa relazione interessa l’uomo di oggi sia che egli sia cristiano sia che ne sia estraneo. Questo rapporto con la ragione interessa il credente perché il patrimonio razionale del pensiero greco è una parte della fede cristiana. L’atto del credere è un atto ragionevole. Anche chi non è cristiano è interpellato da questo rapporto. La ragione non può astenersi dal formulare un giudizio. Il pensiero nominalista, non cognitivista ecc. condannano l’uomo a un destino tragico. Se la ragione non è competente a pronunciarsi sulle varie dottrine, perché queste sono solo espressioni delle preferenze soggettive, ne deriva che non esiste alcun bene umano comune, e se è vero ciò, può tenerci assieme solo l’utilità e l’interesse. La premessa da cui parte il pensiero contemporaneo: nessuno può stabilire ciò che è bene per me. L’unico che può farlo sono io. Sono io che decido che questa cosa è buona per me. Se un altro pretende di affermare cosa è buono per me, ciò non è accettabile perché nessuno può dire ciò. La premessa logica porta con sé l’affermazione che il bene per l’uomo non esiste in senso oggettivo. Ma se non esiste il bene per tutti, non è possibile per l’umanità definire cosa è bene per tutti. Allora crolla la categoria del bene comune. Oggi, avendo accettato l’idea del relativismo, la conseguenza finale è che non esiste più il bene comune. Allora gli stati di oggi si baseranno su criteri di utilità e di forza. Questa ragione mutilata diventa incapace di formare un dialogo con altre realtà. Ma come è possibile attuare un dialogo quando uno dei soggetti dialoganti ha smarrito la sa identità? La ragione mutilata non è più in grado di attuare il dialogo. Buttando via il concetto di verità è impossibile la discussione. La mutilazione si manifesta nel fatto che una delle caratteristiche della ragione occidentale post-moderna è escludere dall’orizzonte della ragione il problema “Dio”. Dio non è più un problema della ragione, ma è una questione di fede. Le vie di cui parla la scolastica sono considerate vecchie. Questa lettura comporta che per la ragione occidentale contemporanea Dio non c’entra con la ragione, e la dimensione pubblica della vita, e lo stato. L’interpretazione rende impossibile il dialogo con quelle culture che pongono al centro della vita sociale la questione “Dio”. Bisogna riconoscere che nella storia del cristianesimo, mentre il cattolicesimo è rimasto tetragono nel difendere la ragione, altre espressioni del cristianesimo hanno abbandonato la ragione, come la riforma protestante. Con esso il legame tra fede e ragione si spezza. Uno degli aspetti che si concretizzano è l’obiettivo di de-ellenizzare il cristianesimo. C’è il tentativo di ritornare a un cristianesimo che faccia a meno della tradizione greca, e quindi un cristianesimo anche de-occidentalizzato. Lutero afferma che la purezza della fede esige di non allearsi con il Logos umano, cioè con la ragione umana.

Filosofia teoretica Mag 24

La questione della fede non è qualcosa di estraneo alla ragione, ma ha a che fare con la ragione. Deve essere chiaro che la questione della fede, del credere non può essere ridotta a questione sentimentale, che riguarda le emozioni. Fede e ragione non sono contrapposte. Questa affermazione si scontra con preconcetti che rappresentano la fede come esperienza emotiva. È necessario affrontare il tema della fede anche dal punto di vista della ragione. Perché la ragione possa muoversi verso la fede cristiana è necessario che la ragione guarisca da alcune patologie: positivismo. Il positivismo finisce col costruire una prigione alla ragione: autolimita la capacità che la ragione normalmente avrebbe. L’uomo della strada è sempre più portato a pensare che qualsiasi conoscenza è vera se dimostrata scientificamente. Possiamo comprendere solo ciò che è scientificamente dimostrabile. Tutto ciò che non è dimostrabile scientificamente è soggettivo. La composizione chimica di un liquido è una realtà conoscibile (ed è vero). La moralità dell’atto è una questione che entra nel campo della soggettività (ed è falso). Questo paradigma è una malattia della ragione. Noi possiamo riflettere e capire se un atto è buono o cattivo. Ovviamente la riflessione morale porta a discussioni molto lunghe e impegnative. La nostra società ha bisogno di riscoprire che la verità oggettiva è possibile anche oltre la dimostrazione scientifica. Questo non è una deminutio della scienza, ma è possibile una oggettività anche con l’uso della speculazione logica. Il principio di non contraddizione è mezzo di speculazione logica. Questa obiettività aiuta a fare riflessioni morali ed esistenziali. Tutta questa ricchezza del pensiero occidentale è frutto del cristianesimo e della ragionevolezza. Il cristianesimo è sempre frutto della ragione. Questo ci fa capire che esiste una malattia della ragione che deve essere curata. La domanda è “come è possibile che una persona creda che l’unico modo di conoscenza sia il metodo scientifico?”. La causa più importante di questo è l’errore di metodo. Si crede che si possano trattare argomenti metafisici, etici e religiosi con lo stesso metodo che si usa in laboratorio. Questa metodologia erronea non fa nemmeno iniziare una ricerca metafisica seria. La conseguenza di questo metodo è che le persone avranno una considerazione del sapere scientifico assolutamente superiore di qualsiasi altro sapere. Se uso un metodo sbagliato per fare una riflessione metafisica sto ingabbiando la mia ragione. È un’autentica automutilazione della ragione. Se voglio vedere il mondo che mi circonda uso gli occhi. Ma non posso dire che quello che percepisco con gli occhi sia tutta la realtà. Per prendere contatto della realtà ci sono anche altri mezzi. L’uso dei sensi, e del metodo, è fondamentale in relazione a ciò che voglio scoprire. Se voglio gustarmi una sinfonia di Mozart non uso gli occhi. Esistono degli strumenti, legati alla ragione, per scoprire ciò che la scienza non può. Si è discusso sempre cosa fosse l’amore, ma mai s’era sognato di negare l’amore. Solo in questi tempi stiamo riducendo l’amore a istinto sessuale. Le cose più importanti dell’esperienza umana (amore, felicità, verità) sono categorie del vivere che non si possono misurare con strumenti scientifici. Un pensiero deteriore ha fatto in modo che questa realtà entrassero in un territorio soggettivo. C’è un brano di Musil, L’uomo senza qualità, nel quale il protagonista parla della morte della propria moglie. “Il marito piange disperatamente la morte della moglie, ed ecco la risposta scientificamente esatta ma drammaticamente priva di senso che riceve dallo scienziato: <>.” Questo brano mostra come la risposta che il medico dà non è sbagliata in senso scientifico, ma non c’entra niente, perché il senso della domanda del marito era diversa e chiedeva il motivo per cui, nel vivere dell’uomo, c’è la morte. Se l’uomo può solo conoscere ciò che si misura col metodo scientifico, di fronte alle questioni che lo interessano di più, rimane senza risposta. Per questo fare filosofia deve essere il modo per curarsi da questa deviazione che riduce il problema dell’esistenza alla misurabilità scientifica delle cose che stanno attorno a noi.

È stato capito bene lo scopo di questo corso. La riflessione filosofica deve essere orientata alla concretezza della vita. La riflessione deve essere fatta per agire. C’è un legame profondo con l’esistenza.

Blade Runner (robot uguali a uomini): le domande che si pongono questi robot non sono più poste dagli uomini. Sono alla ricerca del loro creatore. Non vogliono che la loro esistenza sia destinata a finire nel nulla. Questa macchina si sta spegnendo perché ha una vita predeterminata e dice: “Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare. Tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia”. C’è la speranza che la morte non sia la fine di tutto. C’è poi la lettera del musulmano convertito.

1 commento:

palermo comanda ha detto...

Ottimo nicco,ste sbobinature sono ossigeno puro...P.S se hai sbobinature di fondamenti te le accetto pure