lunedì 23 febbraio 2009

Titoli di credito per commerciale I

Commerciale Mar 14
TITOLI DI CREDITO
I titoli di credito sono disciplinati nel Libro IV del c.c., agli artt. 1992 e segg. Scorrendo le norme, non si trova una nozione di titolo di credito. Questa mancanza ha posto alla dottrina il problema di individuare il concetto di titolo di credito. Un primo tentativo di definire la nozione di titolo di credito è quello di Vivante. Vivante, prima ancora della codificazione del 1942, definiva il titolo di credito come “il documento che costituisce condizione necessaria e sufficiente per l’esercizio del diritto letterale ed autonomo ivi contemplato”. Questa definizione venne sottoposta a revisione critica da Ascarelli, il quale introdusse una distinzione fondamentale per il discorso giuridico tra concetto tipologico e concetto normativo. Questa distinzione è alla base di tutta l’esperienza giuridica. Il concetto normativo riassume una determinata disciplina. Il concetto tipologico esprime una tipologia fenomenica della realtà sociale. Esemplificando, per Ascarelli il concetto di atto giuridico è un concetto tipologico, nel senso che il legislatore lo trae dalla realtà giuridica. L’atto giuridico è un comportamento umano, dunque un fenomeno della realtà sociale. L’invalidità è invece un concetto normativo perché esprime in modo riassuntivo una disciplina. Altro esempio fondamentale per Ascarelli di concetto normativo è quello di persona giuridica, perché esprime una disciplina ma non esprime una realtà concreta. La differenza ai nostri fini tra concetto normativo e tipologico rileva perché mentre il concetto normativo ha una funzione essenzialmente descrittiva dell’esperienza giuridica ed aiuta a classificarla, il concetto tipologico funge da fattispecie per l’applicazione di una disciplina. Solo il concetto tipologico individua la fattispecie giuridica alla quale si applica una disciplina. Tutto questo discorso per concludere che nella descrizione di Ascarelli la nozione di titolo di credito è una nozione tipologica e non normativa. Questa è la critica che Ascarelli muoveva alla definizione di Vivante. Ascarelli muoveva questo ragionamento: Vivante, nel descrivere il titolo di credito come un documento che costituisce condizione necessaria e sufficiente per l’esercizio del diritto letterale ed autonomo ivi contemplato, sta di fatto utilizzando un concetto normativo. Sta semplicemente descrivendo le caratteristiche della disciplina dei titoli di credito, ma non dice a quale fattispecie si applica quella disciplina. Quando Vivante afferma che il titolo di credito come sopra descritto, non faceva altro che riassumere le norme degli artt. 1992, 1993 e 1994. Ascarelli diceva che non ha senso definire il titolo di credito come quel documento a cui si applicano gli artt. 1992, 1993, 1994. Art. 1992: “Il possessore di un titolo di credito ha diritto alla prestazione in esso indicata verso presentazione del titolo, purché sia legittimato nelle forme prescritte dalla legge”. Ascarelli diceva che non si può definire il titolo di credito come il documento al quale si applica l’art. 1992: è tautologico. Questa è la critica logica di Ascarelli: non si può definire il titolo di credito come il documento a cui si applica la disciplina dei titoli di credito. Dobbiamo prima ricavare la nozione di titolo di credito al di fuori della disciplina. Per definire la nozione di titolo di credito si attinge alla realtà sociale. Per questo Ascarelli identifica la nozione tipologica di titolo di credito con quella di “documento destinato alla circolazione”. Per Ascarelli la disciplina dei titoli di credito si applica a qualsiasi documento destinato alla circolazione.
Secondo Giuseppe Ferri per stabilire se il documento sia o meno destinato alla circolazione, è necessario assumere una prospettiva soggettiva, cioè la prospettiva di chi emette il titolo di credito. Questa impostazione di Ferri (“titolo di credito è qualsiasi documento che secondo la volontà dell’emittente è destinato alla circolazione”) è volta a tutelare l’interesse dello stesso emittente, del debitore, perché impone ogni volta di ricostruire la volontà del debitore. Esclude che il debitore possa risultare vincolato da un documento contenente una obbligazione che lui non ha inteso creare. Ascarelli replica anche a questa impostazione. Per stabilire se si tratti di un documento destinato alla circolazione, è necessario adottare una prospettiva oggettiva: quella del mercato. E’ titolo di credito qualsiasi documento destinato alla circolazione secondo la considerazione sociale. Cambia completamente la prospettiva: in questa impostazione l’interesse tutelato è quello del creditore, del potenziale acquirente.
Questa è la fattispecie alla quale si applicano gli artt. 1992 e segg. Possiamo fare una serie di distinzioni. Una prima distinzione si può fare in ordine alla natura della prestazione indicata nel documento. Abbiamo allora la seguente tripartizione:
1) titoli individuali
2) titoli di massa
3) titoli rappresentativi di merci
Il titolo individuale assolve ad una funzione monetaria, perché attribuisce il diritto a conseguire una prestazione pecuniaria. Esempi di titoli individuali sono la cambiale e l’assegno. Si dicono titoli individuali perché l’operazione sottostante riguarda un singolo creditore.
Il titolo di massa rappresenta una frazione fungibile di una unitaria operazione di investimento. La funzione dei titoli di massa non è quella di creare uno strumento monetario, ma è fungere da strumento di investimento. Esempi di titoli di massa sono le azioni e le obbligazioni. Presuppone una pluralità indeterminata di destinatari. Sono posizioni fungibili: l’operazione sottostante all’emissione è causalmente unitaria, ma questa operazione viene suddivisa in una serie di posizioni giuridiche tra loro identiche. Per esempio, l’emissione di obbligazioni sono emissioni di titoli di massa alle quali sottostà una operazione unitaria causalmente. La società che emette obbligazioni sta stipulando un contratto di mutuo con i risparmiatori. Ciò che viene frazionata è la posizione di creditore in questa operazione unitaria. Non può sorprendere che nel caso dei titoli di massa è normalmente presente e imposta dalla legge una organizzazione comune dei possessori di titoli di massa. Se si consentisse a tutti i possessori di titoli di massa un esercizio individuale dei diritti si ostacolerebbe il funzionamento della società emittente. Nel caso del titolo di massa è prevista una organizzazione comune dei possessori dei titoli nell’interesse del possessore ad un esercizio coordinato dei propri diritti e nell’interesse della società emittente a trovarsi di fronte un solo interlocutore. Esiste un organo che delibera (assemblea dei possessori) ed un organo che rappresenta i possessori nei rapporti con la società emittente (il rappresentante comune).
I titoli rappresentativi di merci sono disciplinati nell’art. 1996: “I titoli rappresentativi di merci attribuiscono al possessore il diritto alla consegna delle merci che sono in essi specificate, il possesso delle medesime e il potere di disporne mediante trasferimento del titolo”. C’è un collegamento inscindibile tra il documento e un rapporto sottostante. Esempi di titoli rappresentativi di merci sono la fede di deposito, la polizza di carico, il duplicato della lettera di vettura. Polizza di carico e duplicato della lettura di vettura sono documenti rilasciati nell’ambito di un contratto di trasporto. Invece la fede di deposito è un documento rilasciato nell’ambito di un contratto di deposito presso i magazzini generali. La fede di deposito viene rilasciata a chi deposita le merci nel magazzino. Ecco la funzione del documento nel caso in questione. Lo scopo è consentire la circolazione delle merci senza spostarle fisicamente da quel deposito, ma semplicemente trasferendo il documento che le rappresenta. Stessa cosa vale per i documenti rilasciati in un documento di trasporto. Tizio consegna ad un vettore un plico: si dispone del bene non chiedendo al vettore di restituirlo ma disponendo del documento rilasciato dal vettore.
Attraverso i titoli rappresentativi di merce è possibile introdurre una ulteriore distinzione:
a) titoli di credito astratti
b) titoli di credito causali
I titoli di credito astratti sono così definiti in quanto la loro creazione non si riconduce ad un rapporto giuridico particolare. Alla base della emissione di un titolo astratto possono esservi diversi rapporti giuridici. Un esempio di titolo astratto è la cambiale, che ha funzione monetaria o di pagamento. Il pagamento con cambiale non è riconducibile ad un solo contratto, ma a molti di più. L’emissione della cambiale non dice nulla su quale sia il rapporto giuridico che ha dato causa alla emissione. Per questo è definito titolo astratto.
Ne consegue che il titolo causale si definisce così perché l’emissione di questo titolo è sempre riconducibile ad una determinata causa. Le obbligazioni (titoli di massa) sono esempio di titolo causale perché alla base vi è una operazione unitaria con causa di mutuo, finanziamento. L’esempio di titolo causale che dà maggiori problemi è il titolo azionario. L’azione rinvia solo ed esclusivamente al rapporto sociale, di partecipazione ad una società per azioni. Ma nel momento in cui il titolo viene qualificato come causale, perché rinvia ad un rapporto specifico, il problema è stabilire in quale misura i principi del rapporto causale (che ha dato luogo alla emissione del titolo) possano riflettersi sulle vicende del titolo di credito. Sembra una questione teorica ma è invece questione di rilevanza pratica. Il titolo azionario è un titolo causale perché si ricollega al rapporto azionario. Questo vuol dire che alla base della emissione di azioni c’è un atto della società. La deliberazione della emissione delle azioni può essere viziato. Chiedersi in che modo, per i titoli causali, le vicende del rapporto sottostante si riflettono sul titolo di credito significa chiedersi, nel caso di specie, in quale misura il vizio della deliberazione di emissione delle azioni può riflettersi sul diritto di chi acquista quelle azioni. Una società quotata, emesse le azioni, le vede circolare. C’è un conflitto tra chi acquista le azioni e l’interesse della società a far valere il vizio della delibera di emissione. E’ possibile opporre a chi ha acquistato le azioni il vizio della delibera di emissione? Il vizio può essere opposto a chi acquista le azioni sul mercato? La delibera prevede l’emissione di N azioni. Gli amministratori commettono un errore e creano N + Y azioni. Ci troveremmo un rapporto sottostante che si fonda sulla delibera di emissione che prevede l’emissione di N azioni, ma il mercato recepisce N + Y azioni. Ci troveremmo Y soggetti che hanno in mano documenti che non trovano fondamento nella delibera di emissione. C’è un conflitto tra il rapporto causale e il rapporto cartolare. Questo conflitto si risolve in favore del mercato. Se la società emette 100 azioni ma materialmente ne emette 200, e raccoglie 100 milioni. Il conflitto tra la società (che crede di aver emesso 100 posizioni giuridiche) e quello del mercato (che vede 200 posizioni giuridiche allocate) come viene risolto? Non si può dire al terzo di non aver acquistato validamente. Bisogna in ogni caso tutelare la buona fede del terzo. La soluzione convincente consiste nel fare spazio ai terzi che hanno acquistato le 100 azioni in surplus. Non bisogna ritenere che siano in circolazione 200 azioni (perché questo non trova corrispondenza nella delibera di emissione) ma, ferme restando le 100 azioni, distribuirle fra un numero più ampio di soggetti. L’unica soluzione è ritenere che i terzi che hanno sottoscritto le 200 azioni sono portatori di una posizione che non è più pari a 10, ma a 5. Si dimezza il valore della posizione giuridica incorporata in ciascuna azione. E’ come se quelle 100 azioni fossero distribuite fra 200 soggetti. Prevale l’interesse del mercato rispetto a quello della deliberazione.
Principio dell’autonomia privata in materia di creazione di titoli di credito. Se ragionassimo in termini di contratti, il principio operante sarebbe quello dell’autonomia privata: le parti sono libere di concludere contratti diversi da quelli previsti dalla legge purché diretti a realizzare interessi meritevoli di tutela. Vige lo stesso principio anche in materia di titoli di credito? Vige un principio di autonomia privata in materia di creazione di titoli atipici? Una prima limitazione nel creare titoli atipici è espressa nell’art. 2004: “Il titolo di credito contenente l’obbligazione di pagare una somma di denaro non può essere emesso al portatore se non nei casi stabiliti dalla legge”. I privati non sono liberi di creare titoli al portatore (titoli che si trasmettono mediante la semplice consegna del documento) che rappresentano l’obbligazione di pagare una somma di denaro. La ratio dell’art. 2004 è evitare che i privati possano creare strumenti di pagamento alternativi alla moneta avente corso legale. Esistono limiti ulteriori? Una parte della dottrina ha ritenuto che un ulteriore limite all’autonomia delle parti nella creazione di titoli atipici risieda, almeno per i titoli di massa, nella esigenza che l’emittente sia un imprenditore o, addirittura, una società per azioni. Per alcuni il semplice privato non può creare titoli di massa perché tale libertà è riservata agli imprenditori o solo alle società per azioni. Questo perché solo le S.p.A. presentano una struttura organizzativa idonea a garantire adeguata tutela ai possessori dei titoli di massa. Ci stiamo chiedendo se ci siano limiti ulteriori oltre l’art. 2004. Parte autorevole della dottrina ritiene che tali limiti ci siano per i titoli di massa e vadano ricondotti alla struttura imprenditoriale di chi emette il titolo. Però questa tesi, sostenuta in Italia da Pavone La Rosa, venne sostenuta negli anni ’80, quando in Italia era frequente l’emissione di titoli rappresentativi di operazioni di investimento immobiliare e non era presente un quadro normativo di riferimento per le operazioni di sollecitazione del pubblico risparmio. In realtà la tesi di Pavone La Rosa aveva una precisa giustificazione storica: porre un freno ad operazioni pericolose di sollecitazione, nelle quali imprenditori emettevano certificati nell’Est Europa. I risparmiatori sottoscrivevano questi certificati rappresentativi di investimento immobiliare ma che non ci fossero gli immobili. Per evitare una conseguenza di questo tipo, in un momento storico in cui il nostro ordinamento non conosceva una disciplina della sollecitazione del pubblico risparmio, Pavone La Rosa sviluppò una tesi secondo la quale l’emissione di questi titoli di massa rappresentativi di operazione di investimento collettivo avrebbe dovuto reputarsi alle sole società per azioni, cioè a soggetti vigilati e con una struttura adeguata a garantire tutela ai possessori di questi certificati. Oggi il nostro ordinamento conosce una disciplina dell’appello al pubblico risparmio. La soluzione preferibile è che in materia di titoli di credito il principio dell’autonomia privata operi con la stessa pienezza con la quale esso opera in materia di contratti. La conclusione è che le parti sono libere di creare titoli diversi da quelli contemplati dalla legge con l’unico limite dell’art. 2004.
La funzione dei titoli di credito. Perché il legislatore ha sentito l’esigenza di dettare la disciplina dei titoli di credito? A che servono i titoli di credito? Quale è la loro funzione? L’istituto giuridico in materia commerciale risponde ad una esigenza economica. Il titolo di credito assolve ad una funzione di mobilizzazione della ricchezza. Per capire ciò dobbiamo partire dalla disciplina civilistica. Il titolo di credito rappresenta un diritto di credito. Il diritto privato conosce una disciplina della cessione del credito. Perché non si consente al diritto secondo le forme della cessione ordinaria? Perché la disciplina della cessione ordinaria del credito pone una serie di problemi e ostacoli ad una agevole circolazione del diritto di credito. Per esempio, (primo ostacolo) per poter cedere il diritto di credito a terzi è necessario la notifica al debitore ceduto. Questo onere di notifica ostacola la circolazione. Ancora: chi acquista il credito subentra nella stessa posizione giuridica del cedente. Ciò vuol dire che realizza un acquisto a titolo derivativo, e quindi l’acquirente è soggetto alle stesse eccezioni alle quali era soggetto il cedente. L’acquisto a titolo derivativo ostacola la circolazione del diritto di credito. Il titolo di credito consente di svolgere una funzione di mobilizzazione della ricchezza perché neutralizza gli ostacoli derivanti dalla disciplina della cessione del credito. L’accorgimento tecnico per raggiungere questo risultato è sottoporre la disciplina della circolazione del credito alla disciplina della circolazione dei beni mobili, riprendendo la regola dell’art. 1153: il possesso in buona fede vale titolo. Art. 1153: “Colui al quale sono alienati beni mobili da parte di chi non ne è proprietario, ne acquista la proprietà mediante il possesso, purché sia in buona fede al momento della consegna e sussista un titolo idoneo al trasferimento della proprietà”. La funzione di questo articolo è tutelare l’affidamento di chi acquista il bene mobile. Chi acquista il bene mobile si trova davanti ad un soggetto che ha la disponibilità materiale del bene. Questa norma consente all’acquirente di confidare sulla titolarità del diritto in capo a chi sta trasferendo il bene. Questo articolo tutela l’affidamento del terzo sulla corrispondenza della situazione di diritto (proprietà) alla situazione di fatto (possesso). Questa regola si applica alla nostra materia proprio con il documento cartaceo, cioè collegando il diritto di credito ad un bene mobile come il documento. Ecco attraverso quale congegno tecnico il titolo di credito consente di applicare la disciplina della circolazione dei beni mobili alla circolazione del diritto: collegando il diritto di credito al documento attraverso il fenomeno di incorporazione. L’incorporazione designa il fenomeno per cui trasferendo la proprietà del documento si trasferisce la titolarità del diritto rappresentato in quel documento. Se partiamo da questo presupposto, è possibile applicare alla circolazione del credito le regole dettate dall’ordinamento per la circolazione del bene mobile. Il fenomeno dell’incorporazione spiega per quale ragione il documento sia anzitutto condizione necessaria e sufficiente per l’esercizio del diritto. Questo collegamento non può essere spezzato e se si spezza l’ordinamento prevede della procedure per ripristinarlo. Dall’incorporazione derivano una serie di principi: il principio della letteralità e il principio della autonomia. Il principio di letteralità si traduce nel fatto che il contenuto della prestazione è desumibile dal documento. Questo vuol dire che se vige il principio della letteralità il creditore non può pretendere nulla di più di quanto è indicato nel documento. Il documento identifica ciò cui il possessore del titolo ha diritto. Desumiamo il principio della letteralità dall’art. 1993: “Il debitore può opporre al possessore del titolo soltanto le eccezioni a questo personali, le eccezioni di forma, quelle che sono fondate sul contenuto letterale del titolo, nonché quelle che dipendono da falsità della propria firma, da difetto di capacità o di rappresentanza al momento dell’emissione, o dalla mancanza delle condizioni necessarie per l’esercizio dell’azione”. Il creditore, possessore di una cambiale in cui è scritto “Tizio pagherà a Caio 100”, non potrà pretendere di riceve 120, anche se il rapporto sottostante prevedeva una obbligazione pari a 150. Il documento identifica il contenuto della prestazione. Con una precisazione. Dobbiamo dividere in:
1) titoli a letteralità piena (o completa)
2) titoli a letteralità incompleta
Fermo restando che il principio della letteralità vale per tutti i titoli di credito, nella ricostruzione del contenuto del diritto si opera in maniera diversa a seconda che si tratti di un titolo a letteralità piena o a letteralità incompleta. Nel titolo a letteralità incompleta il documento non individua integralmente la prestazione o la posizione giuridica rappresentata nel documento ma rinvia ad una fonte esterna che contiene la descrizione integrale di quella prestazione o di quella posizione giuridica. Un esempio di titolo a letteralità piena è la cambiale. Se la cambiale indica 100 il creditore non può pretendere 150. Un esempio di titolo a letteralità incompleta sono le azioni. Acquistando il certificato azionario e leggendolo, non si può in nessun caso conoscere i diritti attribuiti dalla partecipazione azionaria. Sarebbe impossibile sintetizzare in un certificato azionario tutti i diritti che attribuisce la partecipazione azionaria, ma ai sensi dell’art. 2354.3 il titolo azionario deve indicare “La data dell’atto costitutivo e della sua iscrizione e l’ufficio del registro delle imprese dove la società è iscritta”. Ecco il rinvio alla fonte esterna a cui è possibile attingere per integrare le informazioni del documento. Chi acquista un certificato azionario troverà sempre indicato nel certificato l’ufficio del registro delle imprese presso cui è iscritta la società. Potrà dunque consultare presso quel registro delle imprese l’atto costitutivo della società e rendersi conto della partecipazione azionaria che sta acquistando.


Commerciale Apr 4
Ci siamo fermati al concetto di autonomia. Sintetizzando i concetti precedenti, abbiamo definito il titolo di credito come concetto tipologico, che descrivono una realtà economico-sociale (contrapposto al concetto normativo, che descrive la disciplina applicabile ad un determinato istituto giuridico). Per noi il titolo di credito è un concetto tipologico, aderendo alla impostazione di Ascarelli. Abbiamo anche individuato la funzione del titolo di credito: facilitare la circolazione del diritto di credito. Ciò si comprende partendo dalla disciplina ordinaria della cessione del credito. Il diritto comune oppone ostacoli alla circolazione del credito (acquisto a titolo derivativo, obbligo di notificazione al debitore, che serve a risolvere il conflitto tra diversi acquirenti dello stesso diritto di credito). La disciplina della cessione ordinaria del credito è insicura e complicata. Per risolvere questo problema la prassi ha elaborato il concetto di diritto di credito e il principio dell’incorporazione del diritto di credito nel documento. In questo modo, si rende possibile applicare alla circolazione del documento, che è cosa mobile, la disciplina in tema di circolazione dei beni mobili ed essenzialmente della regola “possesso in buona fede vale titolo”. Il fenomeno dell’incorporazione, per cui il diritto di credito si identifica con il documento, si manifesta in alcuni profili: letteralità (titoli a letteralità piena e a letteralità incompleta), autonomia e legittimazione. La regola della letteralità è espressa nell’art. 1993, che identifica le eccezioni reali, cioè le eccezioni opponibili a qualunque possessore del titolo. Tra le eccezioni reali figura l’eccezione che consente al debitore di opporre quanto risulta dal contesto letterale del titolo. Art. 1993: “Il debitore può opporre al possessore le eccezioni […] fondate sul contesto letterale del titolo”. Ciò significa che il creditore non può pretendere dal debitore nulla di più di quanto è scritto nel titolo. Il documento identifica il contenuto della prestazione. Altra regola nella quale si esprime il fenomeno dell’incorporazione è quella dell’autonomia. E’ vista con riferimento al momento:
1) della circolazione del diritto
2) dell’esercizio del diritto
La regola dell’autonomia in sede di circolazione del diritto di credito incorporato nel documento è espressa nell’art. 1994, che è l’articolo corrispondente, in materia di titoli di credito, alla norma dell’art. 1153. L’art. 1994 esprime la regola che l’art. 1153 esprime in materia di circolazione dei beni mobili: possesso in buona fede vale titolo. Nel rispetto dei requisiti individuati dall’art. 1994 l’acquisto del titolo di credito è un acquisto a titolo originario, anche se il cedente non è titolare non è il cedente di quel diritto.
Il principio dell’autonomia in fase di esercizio del diritto si trova espresso nell’art. 1993. Aldilà delle eccezioni reali (opponibili a qualunque possessore del titolo) l’art. 1993 esordisce dicendo che “Il debitore può opporre al possessore del titolo soltanto le eccezioni a questo personali”. Una volta che il documento circola e perviene nelle mani di un terzo, le eccezioni personali sono opponibili solo a quel determinato portatore; ciò significa che il debitore non potrà opporre al terzo le eccezioni che avrebbe potuto opporre ai precedenti portatori, se non alle limitate condizioni indicate dal secondo comma dell’art. 1993. La posizione del portatore del titolo non risente delle eccezioni che il debitore avrebbe potuto opporre ai precedenti portatori.
Concetto di legittimazione. La regola della legittimazione è espressa nell’art. 1992. Questo articolo pone problemi di inquadramento. Art. 1992: “Il possessore del titolo di un titolo di credito ha diritto alla prestazione in esso indicata verso presentazione del titolo, purché sia legittimato nelle forme prescritte dalla legge. Il debitore, che senza dolo o colpa grave adempie la prestazione nei confronti del possessore, è liberato anche se questi non è il titolare del diritto”. La prima distinzione da fare è la seguente:
1) il primo comma dell’art. 1992 identifica la regola della legittimazione attiva
2) Il secondo comma dell’art. 1992 identifica la regola della legittimazione passiva
La prima sensazione che si ha con la lettura del primo comma è identificare il concetto di legittimazione con quello di diritto, come se la legittimazione attribuisse il diritto di credito. La norma sembrerebbe dire che chi ha il possesso qualificato del documento (cioè chi ha conseguito il possesso del documento in base alla legge di circolazione del documento) ha diritto alla prestazione. Sembrerebbe esserci identificazione tra legittimazione e titolarità del diritto cartolare. Confondere il concetto di legittimazione con quello di titolarità è un errore frequentissimo. Sono a tal punto diversi che secondo Pellizzi la legittimazione fosse concetto attinente al solo piano probatorio. Pellizzi riteneva che la legittimazione costituisse mera presunzione di titolarità del diritto. C’è un abisso tra la tesi che identifica titolarità e legittimazione e quella che fa scivolare il concetto di legittimazione al mero piano probatorio. Pellizzi attribuiva al titolo di credito una funzione analoga a quella attribuita dalla promessa di pagamento e dalla ricognizione di debito. L’efficacia della promessa di pagamento e della ricognizione di debito è una efficacia probatoria (ex art. 1988). Art. 1988: “La promessa di pagamento o la ricognizione di debito dispensa colui a favore del quale è fatta dall’onere di provare il rapporto fondamentale. L’esistenza di questo si presume fino a prova contraria”. L’art. 1988 esplica una funzione probatoria. La funzione dell’art. 1988 è quella di inversione dell’onere della prova: spostare sul debitore l’onere di provare che il possessore legittimo del titolo non è il titolare del diritto. La conseguenza di questa lettura di Pellizzi è che il documento non è condizione né necessaria né sufficiente per l’esercizio del diritto. E’ una conclusione opposta rispetto alla dottrina prevalente. Il possesso del documento è uno strumento probatorio del quale si può fare a meno. Il titolare del diritto di credito può dimostrare altrimenti la titolarità del diritto. Per Pellizzi il documento è condizione che facilita l’esercizio del diritto ma non è né necessario né sufficiente: non è necessario perché il titolare del diritto può provare altrimenti questa sua titolarità; non è sufficiente perché il secondo comma dell’art. 1992 prevede che il debitore che senza dolo o colpa grave adempie nelle mani del possessore legittimo sia liberato. Questo vuol dire che il debitore che è a conoscenza della non titolarità del diritto da parte del possessore legittimo non deve adempiere. In questa situazione il documento non è neppure condizione sufficiente per l’esercizio del diritto. La nostra dottrina assume una posizione intermedia. Ritiene che il concetto di legittimazione non si identifichi con quello di titolarità ma che il concetto di legittimazione abbia una funzione più intensa rispetto ad una mera efficacia probatoria. In sostanza, si deve pensare al rapporto che c’è tra possesso e proprietà. Il possesso e la proprietà sono situazioni reali: hanno come referenti un bene. Il possesso non si identifica con la proprietà. Il possesso è una situazione di fatto mentre quella di proprietà è una situazione di diritto. L’ordinamento tutela la situazione possessoria perché intende soddisfare una esigenza di certezza giuridica. In questo modo intende agevolare l’esercizio del potere di detenzione sulla cosa. Il possesso serve ad agevolare l’esercizio del potere di detenzione perché il possessore è tutelato dalla situazione di fatto, senza la necessità di dover provare di essere proprietario. Il nostro ordinamento riconosce il possesso perché poi lo tutela. Le azioni a tutela del possesso si fondano sulla situazione di fatto. Qualcosa di simile opera anche nella materia dei titoli di credito. La legittimazione è un concetto che si affianca a quello di titolarità; non si identifica con esso né lo lascia presumere. Il concetto di legittimazione si affianca a quello di titolarità per lo stesso motivo per cui il possesso si affianca alla proprietà: serve a facilitare l’esercizio del diritto di credito incorporato nel documento, per una esigenza di una maggiore tutela giuridica del creditore. Il concetto di legittimazione non si identifica con quello di titolarità per un motivo logico: se il concetto di legittimazione, ai sensi dell’art. 1992, si identifica con il possesso qualificato del documento, questo vuol dire che il concetto di titolarità deve esprimere una situazione più intensa. E questa situazione più intensa non può essere che la proprietà del documento. Possesso sta a proprietà come legittimazione sta a titolarità. All’argomento logico affianchiamo un argomento normativo, offerto dall’art. 1992. Esso ci dice che il possesso qualificato, cioè la legittimazione, facilita l’esercizio del diritto. Questo vuol dire che la titolarità non può identificarsi con il mero possesso legittimo, ma deve anche essa esprimere un intenso più intenso che si lega all’acquisto della proprietà del documento. L’art. 1992 non dice nulla sul profilo dell’acquisto del diritto. Si occupa solo dell’esercizio del diritto. Ecco perché serve il concetto di titolarità: il concetto della titolarità viene in rilievo al momento dell’acquisto del diritto cartolare. L’art. 1992 non ha niente a che vedere con il concetto di titolarità. Legittimazione non è titolarità, ma si affianca ad esso. Agevola il soddisfacimento dell’interesse del creditore perché il possesso legittimo del documento consente l’esercizio del diritto.
Legittimazione passiva. Il concetto di legittimazione passiva può essere compreso attraverso il confronto con la disciplina di diritto comune e, segnatamente, con la disciplina del pagamento al creditore apparente. Il concetto di legittimazione attiva è stato affrontato con il confronto con le categorie civilistiche della proprietà e del possesso. Il concetto di legittimazione si affronta con il confronto con la disciplina del pagamento al creditore apparente. Anche il concetto di legittimazione passiva risole un problema già noto al diritto comune: cioè il rischio al quale va incontro il debitore che paghi a chi non sia creditore. La disciplina di questo rischio è contenuta, per il diritto comune, nell’art. 1189. Se la disciplina dei titoli di credito tende a facilitare la circolazione del credito e l’esercizio del diritto di credito, non dobbiamo collocarci solo nei panni del creditore, ma anche in quelli del debitore. Questo perché più è facile che il debitore si liberi pagando e più e facile che il documento assolva alla sua funzione di incorporazione. Il legislatore non poteva limitarsi a disciplinare solo la tutela dell’interesse del creditore. Necessariamente s’è dovuto preoocupare dell’efficacia solutoria ed estintiva del pagamento effettuato dal debitore. Cerchiamo di capire in che modo il legislatore ha ridotto il rischio che il debitore sia costretto a pagare due volte. Per comprendere il titolo di agevolazione che la disciplina dei titoli di credito offre al debitore, dobbiamo effettuare un confronto tra l’art. 1189 e l’art. 1992.2. Art. 1189: “Il debitore che esegue il pagamento a chi appare legittimato a riceverlo in base a circostanze univoche, è liberato se prova di essere stato in buona fede”. Questo articolo presuppone due requisiti perché il debitore che paga a chi non è creditore sia liberato:
a) la buona fede del debitore
b) la sussistenza di circostanze univoche
Nel caso della legittimazione passiva, leggendo l’art. 1992.2, il debitore è liberato in:
a) presenza del possessore legittimo
b) assenza di dolo e colpa grave
Se dovessimo effettuare un confronto tra le due norme e i requisiti che le due norme pongono, il debitore è maggiormente tutelato dall’art. 1992.2, perché è sicuramente più facile accertare che si sia dinnanzi a un possessore legittimo (1992.2) piuttosto che esistano circostanze univoche (1189). Il debitore deve limitarsi a chiedere a chi pretende il pagamento l’esibizione del documento e che sia il possessore legittimo sulla base del documento. Questo è l’unico onere che l’art. 1992.2 pone in capo al debitore: accertare di avere di avanti il possessore legittimo del documento. L’art. 1189 invece richiede l’esistenza di “circostanze univoche” e non esiste alcuna definizione di circostanze univoche. La prova è molto più difficile nel caso dell’art. 1189. Il secondo elemento da tenere in considerazione è il seguente: mentre nel caso dell’art. 1189 l’onere della prova ricade sul debitore (“Il debitore […] è liberato se prova…”), nell’art. 1992.2 l’onere della prova, cioè di provare che il possessore legittimo non è il titolare del diritto, grava sull’effettivo titolare del diritto. Il primo elemento di differenza risiede nella diversità tra “circostanze univoche” e “possesso legittimo”; il secondo elemento di differenza risiede nel fatto che nel caso dell’art. 1189 l’onere della prova grava sul debitore, mentre nel caso dell’art. 1992 l’onere della prova grava sul titolare del diritto. Es.: Tizio è l’originario proprietario del documento. Lo smarrisce. Caio lo rinviene. Caio va da Sempronio e pretende il pagamento. L’onere di provare che Caio non è il titolare del diritto non grava su Sempronio ma su Tizio. Terzo elemento di distinzione: l’elemento soggettivo. Il debitore è liberato se adempie in buona fede. La buona fede in senso soggettivo è esclusa dalla malafede. La malafede è la conoscenza di una situazione di fatto o di diritto. La buona fede è esclusa anche dalla colpa grave, intesa come agevole conoscibilità. L’art. 1992 attribuisce efficacia liberatoria al pagamento effettuato dal debitore senza dolo o colpa grave. L’art. 1992 non fa riferimento alla malafede ma al dolo. Il dolo è una situazione soggettiva più intensa rispetto alla malafede. Il dolo presuppone l’intenzione di arrecare un danno. L’art. 1992, nel consentire la liberazione del pagamento effettuata dal debitore senza dolo o colpa grave, intende dire che il debitore è liberato qualora non avesse la prova che il possessore legittimo non era il titolare del diritto né potesse procurarsi agevolmente quella prova. Il riferimento al dolo e colpa grave del 1992 va inteso in come segue: il debitore che adempie nelle mani del possessore legittimo è in dolo o colpa grave qualora:
a) aveva le prove che il possessore legittimo non era il titolare del diritto (dolo)
b) avrebbe potuto agevolmente procurarsi quelle procurarsi le prove (colpa grave)
In questo riferimento al possesso delle prove, non c’è lo stesso livello di tutela dell’art. 1189. Nell’art. 1189 il debitore deve provare la propria buona fede. Nel caso dell’art. 1992 l’onere della prova grava sul titolare del diritto. Per il titolare del diritto non è agevole fornire la prova che il debitore avesse le prove o potesse agevolmente procurarsi le prove che il possessore legittimo non era il titolare del diritto. Questo vuol dire che è più facile che il debitore si liberi pagando nelle mani del possessore legittimo.
Documenti di legittimazione e titoli impropri (art. 2002). L’art. 2002, in chiusura della disciplina dei titoli di credito, prevede che “Le norme di questo titolo non si applicano ai documenti che servono solo a identificare l’avente diritto alla prestazione, o a consentire il trasferimento del diritto senza l’osservanza delle forme proprie della cessione”. I documenti di legittimazione sono quei documenti che servono a identificare l’avente diritto alla prestazione. I titoli impropri sono quei documenti che servono a trasferire un diritto senza l’osservanza delle forme proprie della cessione del credito. Un titolo improprio è la polizza di assicurazione: è un credito eventuale nei confronti della compagnia di assicurazione. Un documento di legittimazione è un biglietto del cinema, di viaggio, lo scontrino del guardaroba. L’art. 2002 dice che non si applicano a questi documenti le norme sui titoli di credito. Questi documenti di legittimazione e titoli impropri non incorporano il diritto di credito. Se non incorporano il diritto di credito questo vuol dire che, in sede di circolazione del documento di legittimazione o del titolo improprio, l’acquisto del diritto ha luogo sempre a titolo derivativo, mai a titolo originario. Non è del tutto vero che tutte le norme in tema di titoli di credito si disapplichino. In realtà trova applicazione perlomeno l’art. 1992, cioè la regola della legittimazione. La legittimazione si applica ai titoli di credito ma anche ai documenti di legittimazione e ai titoli impropri, con alcune caratteristiche particolari. La regola della legittimazione passiva vale in ogni caso. Il debitore che adempie nelle mani del possessore del documento di legittimazione o del titolo improprio è liberato se adempie senza dolo o colpa grave. Per la regola della legittimazione attiva c’è una differenza. Abbiamo definito il titolo improprio come quel documento che consente il trasferimento del diritto senza l’osservanza delle forme proprie della cessione. Per il diritto comune il credito si trasferisce con la notifica al debitore. Il titolo improprio consente di fare a meno della notifica. Ecco perché il titolo improprio facilita il trasferimento del credito. Questo vuol dire che, affinché il titolo improprio possa assolvere a tale funzione di sostituire la notifica, il documento è condizione necessaria e sufficiente per l’esercizio del diritto. Dunque c’è la legittimazione attiva, perché il documento è condizione necessaria e sufficiente per l’esercizio del diritto. E’ inimmaginabile l’assicurato che chiede all’assicurazione il pagamento dell’assicurazione senza esibire la polizza. Nel caso del titolo improprio la legittimazione attiva opera nella sua pienezza. Il documento di legittimazione serve in tutte le circostanze in cui, tra il momento della stipulazione del contratto e il momento della sua esecuzione, intercorre un certo lasso di tempo. La funzione del documento di legittimazione è facilitare l’identificazione di chi ha diritto alla prestazione. Per questo la regola della legittimazione attiva deve essere intesa nel senso che il documento è condizione sufficiente ma non necessaria. Questo vuol dire che se si acquista un biglietto ferroviario e si smarrisce prima di viaggiare, si può dimostrare altrimenti di aver acquistato quel biglietto e di aver diritto alla prestazione. Si può conseguire la prestazione anche in mancanza del documento, dando prova di essere i titolari del diritto alla prestazione. Non si applicano né la regola dell’autonomia che della letteralità. Si applica la regola della legittimazione passiva. Si applica la regola della legittimazione attiva ma con questa differenza: per il titolo improprio la regola della legittimazione attiva opera nella sua pienezza, perché il documento è condizione necessaria e sufficiente per l’esercizio del diritto; per i documenti di legittimazione opera in maniera parziale, perché il documento è condizione sufficiente ma non necessaria, potendo, chi ha stipulato il contratto, provare altrimenti di essere il creditore della prestazione. Se si smarrisce lo scontrino del guardaroba il cappotto non è perso perché la marca del guardaroba non è un titolo di credito, ma un documento di legittimazione.


Commerciale Apr 11
Fasi di vita del titolo di credito: creazione, circolazione, esercizio.
La prima domanda che ci dobbiamo fare è: quando nasce il titolo di credito? Quando sorge l’obbligazione cartolare (l’obbligazione di pagare o effettuare la prestazione descritta nel titolo di credito)? Un elemento essenziale a riguardo è la sottoscrizione del documento. Prima della sottoscrizione del documento non esiste alcun titolo di credito né alcuna obbligazione cartolare. Per sottoscrizione si intende il caso della firma materiale autografa. Ma la firma autografa non è necessaria per il sorgere dell’obbligazione cartolare. Nel caso dei titoli di investimento (titoli emessi in serie) la sottoscrizione del documento può essere anche meccanica, con apposizione di un timbro (riproduzione meccanica della firma del legale rappresentante). Questa possibilità è espressamente prevista nell’art. 2354. L’art. 2354, al comma 4, prevede: “I titoli azionari devono essere sottoscritti da uno degli amministratori (da un amministratore munito della legale rappresentanza). E’ valida la sottoscrizione mediante riproduzione meccanica della firma”. Immaginatevi l’emissione di centinaia di azioni se il legale rappresentante dovesse sottoscrivere le azioni tutte a mano! La sottoscrizione deve rispettare determinati requisiti. La risposta è offerta dall’art. 8 della legge cambiaria (regio decreto 1669/1933). L’art. 8 della legge cambiaria precisa che “ogni sottoscrizione cambiaria deve contenere il nome e cognome o la ditta di colui che si obbliga”. E’ necessario che ci sia il nome o cognome o la ditta (nel caso sia un imprenditore). Elemento essenziale è la sottoscrizione. Una parte della dottrina afferma che il rapporto cartolare nasce nel momento in cui, alla sottoscrizione, si aggiunge il c.d. rilascio del documento. Per rilascio del documento o emissione si intende la fuoriuscita del documento dalla sfera di disponibilità materiale (detenzione) del debitore. Seguendo questo orientamento, se Caio (primo prenditore) non immette in circolazione questo documento e decide di esercitare il diritto, Caio dovrà restituire a Tizio il documento, perché questo è l’unico modo per garantire Tizio (emittente e debitore) che quel documento non è stato messo in circolazione e non è pervenuto nelle mani di un terzo in buona fede che potrebbe costringerlo ad un secondo pagamento. Caio sarebbe titolare sia del diritto di credito secondo il rapporto fondamentale che del diritto di credito secondo il rapporto cartolare. Il rapporto cartolare è il diritto a pretendere la prestazione nel documento. Se Tizio rilascia il documento a Caio significa che Caio è il creditore della prestazione sottostante, sulla base del rapporto fondamentale. Ritenendo che ai fini dell’insorgenza del diritto cartolare sia sufficiente il mero rilascio, nel momento in cui Tizio consegna a Caio il documento sottoscritto, Caio è titolare del diritto cartolare (rapporto che si identifica con il diritto cartolare, a conseguire la prestazione del documento). Caio può esercitare tanto il diritto di credito fondato sul rapporto causale quanto il diritto di credito cartolare. E’ chiaro che Caio, creditore, per poter esercitare questo credito, debba restituire a Tizio il documento. Se si è verificata già con la consegna la dissociazione tra rapporto fondamentale e rapporto causale, se è sufficiente la consegna a Caio del documento per far sorgere il rapporto cartolare si corre il rischio che Caio venda a terzi il documento, che entra in circolazione, e poi pretenda dal debitore la prestazione fondata sul rapporto sottostante. In questo caso Tizio correrebbe il rischio di pagare due volte: una volta nei confronti di Caio sulla base del rapporto fondamentale; la seconda nei confronti del terzo acquirente in buona fede del titolo di credito. Secondo questa teoria Caio deve restituire a Tizio il documento. C’è una terza teoria che va oltre e ritiene che il rapporto cartolare sorga solo nel momento in cui il documento viene immesso in circolazione dal primo prenditore verso un terzo, estraneo al rapporto fondamentale. Questa teoria si fonda su una considerazione degli interessi protetti dalla disciplina dei titoli di credito. Per questa teoria non ha senso applicare la disciplina dei titoli di credito finché il titolo non circola. Abbiamo definito il titolo di credito come documento destinato alla circolazione secondo la considerazione sociale(Ascarelli). Finché non circola il documento neppure saremmo in presenza di un titolo di credito. Si spiega perché questa parte della dottrina dica che finché non il documento non è immesso in circolazione non esiste il rapporto cartolare: perché non esistono quelle esigenze di tutela sottese alla disciplina del titolo di credito. Seguiamo sempre lo stesso esempio in cui Tizio emette il documento in favore di Caio, primo prenditore, e Caio non lo immette in circolazione, esercitando il diritto di credito fondato sul rapporto fondamentale. In questo caso il documento non incorpora (secondo questa teoria) il diritto cartolare, ma assolve unicamente ad una funzione probatoria. Questo vuol dire che Caio, primo prenditore, potrà dimostrare anche altrimenti la sua titolarità. Secondo la tesi del rilascio, Caio deve possedere il documento per potere conseguire la prestazione da Tizio. Secondo la tesi che esige la circolazione, il documento assolve a una funzione meramente probatoria, cioè non è un titolo di credito. Non essendo titolo di credito Caio può dimostrare anche altrimenti il suo diritto a conseguire la prestazione. Ecco la differenza pratica tra queste due tesi.
Per comprendere il momento di nascita del titolo di credito, facciamo una utile distinzione tra titolo in bianco e titolo incompleto. Entrambe le figure hanno in comune che nel momento in cui il documento fuoriesce dalla disponibilità del debitore il documento non contiene tutti gli elementi che identificano la prestazione. Una cambiale sottoscritta che non indica la somma da pagare è un titolo in bianco o incompleto. La differenza fra titolo in bianco e titolo incompleto è che alla base del titolo in bianco c’è il c.d. accordo di riempimento, cioè un accordo con il quale il debitore attribuisce al primo prenditore il potere di completare il titolo, sulla base di quanto indicato nello stesso accordo di riempimento. Possiamo inquadrare questo accordo di riempimento nello schema del mandato in rem propriam, cioè di un mandato conferito anche nell’interesse del mandatario. Il primo prenditore potrebbe non riempire il titolo ed esercitare il diritto derivante dal rapporto causale. Nel caso del mandato, il mandatario è obbligato a compiere gli atti giuridici individuati nel mandato. Nel caso dell’accordo di riempimento, questi è nell’interesse anche del creditore. Il primo prenditore potrebbe decidere di non riempire il titolo, di tenerlo presso sé, di presentarsi a scadenza presso il debitore e chiedere l’adempimento della prestazione derivante dal rapporto sottostante. Tizio acquista merci da Caio, emette una cambiale in favore di Caio. Al momento della emissione della cambiale Tizio e Caio ancora non si sono messi d’accordo sul prezzo. Tizio e Caio concordano che il prezzo debba essere determinato sulla base di indici. Nel momento in cui viene emesso il documento, il contenuto del prezzo non è ancora stabilito. Di qui l’emissione del titolo in bianco e l’accordo di riempimento tra Tizio e Caio con la clausola che attribuisce a Caio il potere di riempire la cambiale sulla base di indici. Ma Caio potrebbe anche decidere di non riempire la cambiale e esercitare il diritto di credito sulla base del contratto di compravendita delle merci (mandato in rem propriam) perché il primo prenditore resta libero di riempire l’accordo. Il titolo incompleto è invece caratterizzato dalla mancanza di qualsiasi accordo di riempimento. Questo vuol dire che, nel caso del titolo incompleto, il documento esce dalla sfera di disponibilità del debitore contro la sua volontà. Classico esempio di scuola: Tizio sottoscrive una cambiale che gli viene sottratta. La cambiale sottoscritta dal debitore in bianco, nel momento in cui viene sottratta, fuoriesce dalla sua sfera di disponibilità, ma manca qualsiasi accordo di riempimento. Ecco perché nel caso del titolo incompleto non si usa il termine “emissione”, che si usa nel caso del titolo in bianco: perché l’emissione è un atto volontario. C’è una disciplina del titolo in bianco, offerta dall’art. 14 della legge cambiaria. L’art. 14 distingue il caso dell’abusivo riempimento, cioè l’ipotesi in cui il documento viene riempito in modo difforme dall’accordo, da quello del tardivo riempimento. Art. 14: “Se una cambiale, incompleta quando fu emessa, venga completata contrariamente agli accordi interceduti, l’inosservanza di tali accordi non può essere opposta al portatore, a meno che questi abbia acquistato la cambiale in mala fede, ovvero abbia commesso colpa grave acquistandola”. L’eccezione di abusivo riempimento è opponibile al terzo acquirente solo se questi sia stato in mala fede o abbia commesso colpa grave nell’acquistare il documento. Il secondo comma individua invece l’eccezione di tardivo riempimento: “Il portatore decade dal diritto di riempire la cambiale in bianco dopo tre anni dal giorno dell’emissione del titolo”. C’è una termine entro il quale la cambiale deve essere completata (3 anni). Decorsi questi tre anni, il debitore può opporre al terzo il tardivo riempimento, solo in caso di malafede del terzo. Questa norma è contenuta nella legge cambiaria ma opera per tutti i titoli in bianco. Questa norma potrebbe offrire una indicazione in favore dell’ultima delle teorie circa il momento di insorgenza dell’obbligazione cartolare (teoria dell’immissione in circolazione). L’art. 14 fa riferimento alla posizione del portatore, cioè del terzo che acquista la cambiale completata. E’ solo in relazione al portatore che l’art. 14 attribuisce rilievo allo stato soggettivo del terzo. Attribuisce rilievo al fatto che il terzo fosse in malafede o in buonafede. Finché il documento resta nelle mani del primo prenditore, il quale riempie in maniera difforme la cambiale dall’accordo di riempimento, il debitore non avrà alcun problema nell’eccepire al primo prenditore che la cambiale è stata completata in maniera difforme dall’accordo di riempimento. L’art. 14, quando si riferisce al portatore, presuppone che la cambiale sia stata immessa in circolazione presso terzi estranei al rapporto fondamentale e all’accordo di riempimento. Se questo è vero l’art. 14 sembra presupporre, ai fini della nascita dell’obbligazione cartolare, l’entrata in circolazione del documento. L’art. 14 sembra confermare la terza tesi. Se si segue questa tesi, prima della immissione in circolazione della cambiale incompleta, si ha soltanto un diritto extracartolare al riempimento del documento sulla base dell’accordo sottostante. L’art. 14 attribuisce rilievo allo stato soggettivo del portatore. Quando il documento rimane in mano del primo prenditore, il debitore può opporre al primo prenditore l’eccezione fondata anche sul difetto di abusivo riempimento indipendentemente dallo stato soggettivo del primo prenditore. Secondo questa parte della dottrina, l’art. 14 ci obbliga a pensare che l’esigenza di tutela propria della disciplina dei titoli di credito nasce soltanto quando la cambiale è in mano ad un terzo, cioè ad un soggetto estraneo al rapporto fondamentale e all’accordo di riempimento.
Allora che disciplina si applica al titolo incompleto (visto che l’art. 14 si occupa solo del titolo in bianco)? Secondo Giorgio Oppo il titolo incompleto sarebbe nullo per difetto di volontà. Oppo applica al titolo incompleto la disciplina del contratto. Tra gli elementi essenziali del contratto c’è la volontà. La mancanza assoluta della volontà determina la nullità del contratto. Se la volontà c’è ma è viziata siamo in presenza della annullabilità. Oppo dice che nel caso del titolo incompleto il titolo è nullo. E’ più convincente la dottrina che ritiene che il requisito della volontà, nella materia dei titoli di credito, abbia un rilievo assai inferiore a quello che ha nella materia dei contratti. E’ preferibile la dottrina che applica il via analogica al titolo incompleto l’art. 14 della legge cambiaria. Siamo in presenza di un fenomeno diverso dal contratto. Il titolo di credito si caratterizza per quello che è oggettivamente. Non dimentichiamo che è un documento che circola presso i terzi. Immaginate il terzo che ogni volta deve accettare che alla base del negozio di emissione ci sia la volontà del debitore! Per questo motivo è meglio applicare in via analogica l’art. 14 della legge cambiaria.
Natura giuridica dell’obbligazione cartolare. In diritto privato la parte introduttiva distingue il fatto giuridico dall’atto giuridico dal negozio giuridico. Se volessimo ricondurre l’obbligazione cartolare ad una di queste tre categorie la ricondurremmo all’atto giuridico. Il fatto giuridico è il ogni comportamento umano al quale l’ordinamento ricollega degli effetti. Nell’atto giuridico la volontà non si dirige all’effetto. Nel caso del contratto la volontà è diretta anche al raggiungimento di certi effetti. Il fatto giuridico ha alla base un comportamento umano al quale l’ordinamento ricollega degli effetti indipendentemente da ogni profilo volontaristico (es.: l’attività di impresa). Nel momento in cui ci sono una serie di atti che si inquadrano nell’art. 2082, l’ordinamento ricollega degli effetti, indipendentemente dalla volontà del soggetto di compiere quegli atti. Tant’è vero che nel caso in cui l’impresa sia esercitata nel conto dell’incapace (minore non emancipato, interdetto, inabilitato) da parte del curatore o tutore, è lo stesso incapace ad acquistare la qualità di imprenditore. Per questo la volontà non rileva. L’ordinamento qualifica l’evento senza preoccuparsi del fatto che quel comportamento sia voluto o meno. Atto giuridico: alla base deve esserci la volontà del comportamento e non dell’effetto. Contratto: alla base deve esserci la volontà non solo del comportamento ma anche dell’effetto. Dovendo inquadrare l’obbligazione cartolare, escludiamo che possa essere qualificata come un fatto giuridico. Art. 1993: “Il debitore può opporre al possessore del titolo soltanto le eccezioni a questo personali, le eccezione di forma, quelle che sono fondate sul contesto letterale del titolo, nonché quelle che dipendono da falsità della propria firma, da difetto di capacità o di rappresentanza al momento dell’emissione, o dalla mancanza delle condizioni necessarie per l’esercizio dell’azione”. Il difetto di capacità al momento dell’emissione è opponibile a qualunque portatore. Dunque rileva la capacità del soggetto. Il che ci rinvia quantomeno a una volontà del comportamento. L’obbligazione cartolare non è quindi un fatto giuridico, perché dall’art. 1993, che qualifica come eccezione reale il difetto di capacità al momento dell’emissione emerge che ci deve essere quantomeno la volontà del comportamento. L’obbligazione cartolare può essere qualificata come negozio? Sorge solo se il debitore ha voluto l’effetto di vincolarsi nei confronti di qualunque terzo? Assolutamente no. Vediamo l’art. 14 della legge cambiaria. Nel caso in cui la cambiale sia completata in difformità dell’accordo di riempimento ma pervenga ad un terzo di buona fede, il terzo può pretendere la prestazione dal debitore. Non possiamo certo dire che in questo caso il debitore ha voluto l’effetto dell’abusivo riempimento. In questo caso il debitore è vincolato ad effettuare la prestazione ancorché non abbia voluto l’effetto. Il debitore si vede recapitata una cambiale completata in difformità dell’accordo che aveva pattuito con il primo prenditore. E’ chiaro, in questo caso, che il debitore ha voluto la cambiale in bianco, ma certamente non ha voluto che fosse riempita in difformità dell’accordo sottostante. Pur tuttavia è costretto a pagare al terzo di buona fede. Dunque non è un negozio giuridico. Se perciò vogliamo ragionare in termini di categorie generali, dobbiamo classificare l’obbligazione cartolare come un atto giuridico, che richiede un comportamento cosciente e volontario, ma non la volontà dell’effetto. Questa è un equo contemperamento tra la protezione del debitore e quello del mercato.


Commerciale Apr 18
Profili relativi all’esercizio del diritto cartolare e fase della circolazione del titolo di credito. Stiamo scomponendo la disciplina del titolo di credito. Dopo averne individuato i principi generali (legittimazione, autonomia, letteralità) riassunti nel concetto di incorporazione, stiamo studiando la disciplina del titolo di credito nelle sue tre fasi: creazione, esercizio e circolazione.
Il tema dell’esercizio del diritto cartolare si ricollega alla problematica delle eccezioni che il debitore può opporre al portatore del titolo di credito. La disciplina delle eccezioni è contenuta nell’art. 1993. La fondamentale distinzione al riguardo è tra:
a) eccezioni personali
b) eccezioni reali
Le eccezioni personali sono opponibili soltanto a determinati portatori del titolo. L’eccezione reale è tale in quanto è opponibile a qualunque possessore del titolo di credito. Per certi versi l’eccezione reale incide sulla circolazione del titolo, a differenza dell’eccezione personale che non incide sulla circolazione del titolo di credito. A questa distinzione fondamentale tra eccezioni reali e personali, nella disciplina della cambiale si affianca una distinzione tra eccezioni soggettive e eccezioni oggettive. Nella cambiale non c’è una sola obbligazione cartolare, ma la cambiale è dominata dal principio delle pluralità delle obbligazioni cartolari. Questo principio è una conseguenza della funzione della girata. La girata è lo strumento per il trasferimento della legittimazione. Nella materia cambiaria la girata ha non solo funzione di trasferimento della legittimazione ma ha anche la funzione di garantire il pagamento da parte del debitore principale. Se questa è la funzione della girata nella cambiale (trasferimento di legittimazione ma anche garanzia di chi gira la cambiale in favore del soggetto al quale la cambiale è girata), vuol dire che per ogni girata si creerà una obbligazione di garanzia. Di qui il principio della pluralità delle obbligazioni cartolari nella cambiale. In generale il titolo di credito si caratterizza per l’esistenza di una obbligazione cartolare. Nella cambiale vige il principio della pluralità delle obbligazioni cartolari. Nella cambiale ci sono tante obbligazioni quante sono le girate. Questo perché la girata ha una funzione non solo di trasferimento della legittimazione ma anche una funzione di garanzia. Tornando alla distinzione tra eccezione oggettiva e soggettiva, l’eccezione oggettiva è l’eccezione opponibile da qualunque debitore. L’eccezione soggettiva è l’eccezione opponibile solo da un determinato debitore cambiario. La distinzione tra eccezioni reali e personali ha riguardo al portatore: individua il portatore al quale l’eccezione può essere opposta. La distinzione tra eccezione soggettiva ed oggettiva, propria solo della cambiale, ha riguardo al debitore che può opporre quella eccezione. Ciò posto, il primo problema che si ha nell’analizzare l’art. 1993 è stabilire se l’elencazione delle eccezioni reali al primo comma dell’art. 1993 sia o meno una elencazione tassativa. Art. 1993: “Il debitore può opporre al possessore del titolo soltanto le eccezioni a questo personali, le eccezioni di forma, quelle che sono fondate sul contesto letterale del titolo, nonché quelle che dipendono dal falsità della propria firma, da difetto di capacità o di rappresentanza al momento dell’emissione, o dalla mancanza delle condizioni necessarie per l’esercizio dell’azione”. Il primo comma dell’art. 1993 opera una netta distinzione tra eccezioni personali e le altre eccezioni (quelle reali). L’interesse protetto dalla disciplina dei titoli di credito è quello della facilità della circolazione. Se l’interesse protetto è la facilità della circolazione del titolo, la conseguenza è che questa elencazione debba considerarsi tassativa. Non è possibile individuare eccezioni reali ulteriori rispetto a quelle considerate dall’art. 1993. Questo principio di tipicità delle eccezioni reali non impedisce una interpretazione estensiva delle singole eccezioni. Un conto è dire che non vi sono eccezioni ulteriori; un conto è interpretarle in senso estensivo.
Eccezioni reali:
1) eccezione fondata sulla falsità della firma. In questo tipo di eccezione rientra senz’altro l’ipotesi di falsificazione della sottoscrizione. Non si ha però falsità della firma per il solo fatto che il soggetto che materialmente appone la sottoscrizione non sia colui il cui nome viene apposto sul titolo di credito. Se Tizio autorizza Caio ad apporre sul titolo di credito una sottoscrizione con il suo nome (con il nome di Tizio), non per questo siamo nell’ambito dell’eccezione di falsità della firma. L’eccezione di falsità della firma non presuppone che vi sia una coincidenza materiale tra chi appone la sottoscrizione e colui il cui nome viene speso nel titolo di credito, perché potrebbe esserci una autorizzazione alla base di questo comportamento. Allora come si deve intendere il requisito della falsità della firma? Non come non riconducibilità materiale del documento al soggetto che ne appare essere l’autore ma come non riferibilità in senso psicologico. E’ ovvio che vi rientra il caso di falsificazione. Ulteriore ipotesi di falsità della firma è l’omonimia. Se sul titolo di credito è appare la firma di Mario Rossi ma il possessore legittimo chiede la prestazione ad un altro Mario Rossi, quest’ultimo potrà eccepire la falsità della propria firma, per difetto di riferibilità psicologica del titolo allo stesso Mario Rossi. Se questo è vero possiamo ricondurre nell’eccezione di falsità della firma anche il difetto assoluto di volontà per violenza fisica. Questo è un tema controverso. Nell’art. 1993 non c’è nessun riferimento al concetto di volontà. Abbiamo classificato l’obbligazione cartolare come atto giuridico. E questa classificazione ci aiuta per capire che alla base una volontà del comportamento vi deve comunque essere. Se manca del tutto la volontà di creare il titolo non può dirsi esistente una obbligazione cartolare. In questo caso sarà opponibile l’eccezione di falsità della firma. Un’ulteriore conferma dell’ipotesi di violenza fisica è desumibile forse dallo stesso art. 1993 che pone tra le eccezioni reali anche il difetto di capacità. Se assume rilievo il difetto di capacità vuol dire che il nostro ordinamento attribuisce un qualche rilievo al momento volontaristico.
2) Eccezione di forma. Quando si parla di forma in materia di titoli di credito è chiaro che il senso nel quale il termine “forma” viene utilizzato è diverso da quello nel quale viene utilizzato in materia di contratti. In materia di contratti la forma è elemento essenziale del contratto. Nei contratti la forma assume la funzione di manifestazione della volontà negoziale. E’ chiaro che quando l’art. 1993 fa riferimento alla forma non può alludere alla forma intesa come manifestazione esteriore della volontà negoziale. Il titolo di credito si fonda sul meccanismo della incorporazione. Non è possibile concepire il titolo di credito senza un documento, senza una forma. Dunque è chiaro che quando l’art. 1993 fa riferimento al difetto di forma non fa riferimento alla mancanza di un pezzo di carta, altrimenti non saremmo semplicemente in presenza di una eccezione di forma, ma non esisterebbe proprio il titolo di credito. Allora, il senso del riferimento al concetto di forma dell’art. 1993 ha riguardo al contenuto del titolo. L’eccezione di forma sottintende la mancanza degli elementi essenziali secondo la legge per l’esercizio del diritto cartolare. Conferme normative: art. 2354. Questa disposizione individua il contenuto del titolo azionario. Dunque l’art. 2354 ci dice che l’azione è un titolo formale, cioè che esige la presenza di determinate azioni ai fini dell’esercizio dei diritti inerenti all’azione. Altra norma è l’art. 1 della legge cambiaria. La cambiale è anch’esso un titolo formale, che presuppone l’esistenza nel documento di determinate indicazioni prescritte dalla legge. Art. 1: “La cambiale contiene: 1) la denominazione di cambiale inserita nel contesto del titolo espressa nella lingua in cui è stato redatto 2) […]”. Dalla lettura di questo primo articolo ci si accorge che esistono una serie di indicazioni da contenere nel documento. L’eccezione di forma riguarda il contenuto e consente di distinguere tra titoli formali e titoli aformali o non-formali. I titoli formali sono i titoli che devono presentarsi al momento dell’esercizio con un certo contenuto previsto dalla legge. Abbiamo incontrato un tema che interferisce con quello del contenuto: titoli in bianco. Nel caso del titolo in bianco, prima del completamento del titolo, circola un diritto extracartolare al riempimento del documento. Il titolo in bianco, finché non viene riempito, non consente l’esercizio del diritto. Quindi, fino a quel momento circola solo un diritto extracartolare al riempimento.
3) Eccezioni fondate sul difetto di capacità o di rappresentanza. Difetto di capacità. Nel nostro ordinamento abbiamo tre nozioni di capacità: giuridica, di agire e naturale (di intendere o di volere). La capacità a cui fa riferimento l’art. 1993 sembra essere di formulazione generale, che copre qualsiasi tipo di difetto di capacità. Cerchiamo però di essere più precisi. Non può trattarsi di difetto di capacità giuridica, che è intesa come idoneità del soggetto ad essere titolare di situazioni giuridiche soggettive attive o passive. La capacità di agire è la capacità di modificare la propria sfera giuridica. La capacità naturale ha invece riguardo al pieno possesso delle proprie facoltà volitive ed intellettuali nel momento in cui si compie l’atto. La capacità di agire presuppone una situazione continuativa e stabile nel tempo. La capacità naturale si misura invece solo nel momento del compimento del singolo atto. Da questa netta distinzione il problema che abbiamo dinnanzi. Il difetto di capacità cui si riferisce l’art. 1993 è soltanto il difetto di capacità legale (di agire) o anche il difetto di capacità naturale? E’ soltanto il difetto di capacità di agire. Il difetto di capacità naturale non vi rientra. Avendo presente che lo funzione della disciplina dei titoli di credito è la protezione delle esigenze di certezza nella circolazione del diritto. Per poter capire se questo articolo 1993 copre o meno la capacità naturale dobbiamo interrogarci sull’unica norma che si occupa del difetto di capacità naturale al momento di compimento dell’atto: l’art. 428. Art. 428: “Gli atti compiuti da persona che, sebbene non interdetta, si provi essere stata per qualsiasi causa, anche transitoria, incapace d’intendere di volere al momento in cui gli atti sono stati compiuti, possono essere annullati su istanza della persona medesima o dei suoi eredi o aventi causa, se ne risulta un grave pregiudizio all’autore. L’annullamento dei contratti non può essere pronunziato se non quando, per il pregiudizio che sia derivato o possa derivare alla persona incapace d’intendere o di volere o per la qualità del contratto o altrimenti, risulta la malafede dell’altro contraente. L’azione si prescrive nel termine di cinque anni dal giorno in cui l’atto o il contratto è stato compiuto. Resta salva ogni diversa disposizione di legge”. L’art. 428 distingue l’ipotesi dell’atto compiuto dall’incapace di intendere e di volere (primo comma) dall’ipotesi del contratto concluso dall’incapace di intendere e di volere (secondo comma). L’annullamento è, nel caso dell’incapacità naturale, subordinato al requisito del grave pregiudizio (primo requisito che non può mancare nel caso di atto giuridico). Se poi si tratta di contratto, al requisito del grave pregiudizio si deve affiancare quello della malafede dell’altro contraente. Questa disciplina che consente al debitore incapace naturale di sottrarsi alla pretesa della controparte solo provandone la malafede o il grave pregiudizio non è una disciplina compatibile con il carattere reale dell’art. 1993. L’art. 1993 consente di eccepire il difetto di capacità indipendentemente dallo stato soggettivo del primo prenditore e dalle caratteristiche del contratto. Il difetto di capacità consente di formulare una eccezione a qualsiasi possessore del titolo indipendentemente dallo stato soggettivo del primo prenditore (cioè di colui con il quale è intercorso il contratto che ha dato luogo all’emissione del documento). Se dovessimo applicare il difetto di capacità naturale al nostro caso dovremmo far riferimento al rapporto fondamentale. Ma come potrebbe mai il debitore provare la malafede del terzo o la sua conoscenza del grave pregiudizio che la stipulazione del contratto gli ha procurato? Non potrebbe mai avvalersi della prova dell’art. 428, visto che il terzo è un soggetto estraneo al rapporto fondamentale. L’art. 428 va in senso contrario alla ricomprensione della capacità naturale. L’interesse alla stabilità e alla certezza dei rapporti giuridici va contro la ricomprensione della capacità naturale nell’eccezione in questione.
Difetto di rappresentanza. Nel difetto di rappresentanza dobbiamo sempre aver presente il fenomeno giuridico generale. La rappresentanza si caratterizza per una scissione tra il soggetto che compie l’atto e il soggetto nella cui sfera giuridica si producono gli effetti dell’atto compiuto. Sotto questo profilo la rappresentanza dà luogo ad un fenomeno organizzativo.
Excursus. Norme di organizzazione e norme di comportamento. Le norme di comportamento sono norme che fissano diritti ed obblighi. Le norme di organizzazione sono invece norme che consentono la produzione di effetti giuridici in capo ad altri soggetti qualora si tenga un comportamento conforme a quanto previsto da quella norma. Tutto il diritto societario è un complesso di regole organizzative. Tutta la disciplina dei contratti è un complesso di regole di comportamento. La violazione di una regola di comportamento dà luogo al risarcimento. Il fatto che il comportamento non sia conforme alle norme organizzative comporta l’inefficacia dell’atto (la sua invalidità). Tutto il diritto amministrativo è fondato su regole organizzative. Il diritto privato è costruito su regole di comportamento.
La disciplina della rappresentanza rientra tra le regole organizzative. Nel difetto di rappresentanza rientra l’ipotesi di difetto di potere rappresentativo. Il difetto di potere rappresentativo può essere originario o sopravvenuto. L’eventuale revoca del potere rappresentativo (sempre possibile; art. 1396) realizza il difetto sopravvenuto di potere rappresentativo. Tizio attribuisce a Caio il potere di rappresentarlo nell’emissione di un titolo di credito. In un momento successivo revoca la procura. Tizio potrà opporre a qualsiasi possessore legittimo il difetto sopravvenuto di potere rappresentativo. Tizio può anche ratificare l’atto compiuto dal soggetto sprovvisto del potere di rappresentanza. La ratifica successiva impedisce l’eccezione di cui stiamo discutendo. Il vero problema è se ricadano in questa eccezione le ipotesi di conflitto di interessi ed il contratto concluso con sé stesso (artt. 1394, 1395). Questi due articoli ragionano in termini di annullabilità del contratto concluso dal rappresentante in conflitto di interessi con il rappresentato (1394) o del contratto concluso dal rappresentante con sé stesso (1395). Nella materia dei titoli di credito se volessimo applicare queste norme dovremmo fare riferimento al contratto fondato sul rapporto fondamentale. Non è pensabile che il contratto concluso dal rappresentante nel nome del debitore in conflitto di interessi con il debitore sia annullabile e sia anche una eccezione opponibile a qualsiasi portatore del titolo. La fattispecie concreta è: Tizio conferisce a Caio il potere di rappresentarlo nella stipulazione di un determinato contratto (che prevede anche l’emissione di un titolo di credito), e Caio rappresentante di Tizio stipula quel contratto in conflitto di interessi con Tizio. Questa situazione non rientra nel difetto di rappresentanza dell’art. 1993 perché costringeremmo il terzo ad indagare la situazione esistente al momento della stipulazione del contratto. Dunque non rientra nel difetto di rappresentanza il conflitto di interessi. Adesso vediamo la fattispecie pratica del contratto concluso con sé stesso: Tizio stipula per conto di Caio un contratto assumendo contestualmente la posizione di controparte. Nel nostro caso la situazione concreta è la seguente: Caio conferisce a Tizio il potere di rappresentanza il ordine alla stipulazione del contratto e alla emissione del titolo, e tizio emette il titolo di credito in proprio favore. E’ una eccezione reale riconducibile al difetto del potere di rappresentanza? Si potrebbe rispondere affermativamente, perché qualsiasi terzo può rendersi conto semplicemente leggendo il documento che vi è coincidenza tra rappresentante e primo prenditore. In realtà la questione è più complessa. Il contratto concluso con sé stesso dal rappresentante non realizza sempre una fattispecie annullabile. Art. 1395: “E’ annullabile il contratto che il rappresentante conclude con se stesso, in proprio o come rappresentante di un’altra parte, a meno che il rappresentato lo abbia autorizzato specificatamente ovvero il contenuto del contratto sia determinato in modo da escludere la possibilità di conflitto di interessi. L’impugnazione può essere proposta solo dal rappresentato”. L’annullamento del contratto concluso con se stesso può essere evitato se il contenuto del contratto è stabilito in modo tale da evitare qualsiasi conflitto di interessi. Il rappresentante può essere specificatamente autorizzato a concludere quel contratto. Se questo è vero la disciplina del contratto concluso con se stesso non può rientrare nell’ambito dell’art. 1993 perché quel contratto potrebbe essere stato autorizzato dal rappresentante. L’eccezione da difetto di potere di rappresentanza non comprende né il caso del conflitto di interessi né il caso del contratto concluso con se stesso, perché in entrambe le ipotesi, se trattassimo queste due vicende alla stregua di eccezioni reali, costringeremmo il terzo a indagare la situazione esistente al momento della conclusione del contratto tra rappresentante del debitore e primo prenditore. Questo tipo di indagine è contraria alla certezza e interesse del traffico giuridico. Il difetto di potere di rappresentanza copre solo l’ipotesi del difetto o eccesso di potere, non le ipotesi degli artt. 1394 e 1395. Conseguenze del difetto di potere di rappresentanza in materia cambiaria (nel presupposto che il debitore possa eccepire a chiunque questo difetto di potere di rappresentanza). Il terzo che si vede opporre il difetto di potere di rappresentanza, che tutela ha? In questo caso i termini di riferimento sono due norme: 1398. L’art. 1398 disciplina l’ipotesi del falsus procurator. Art. 1398: “Colui che ha contratto come rappresentante senza averne i poteri o eccedendo i limiti delle facoltà conferitegli, è responsabile del danno che il terzo contraente ha sofferto per aver confidato senza sua colpa nella validità del contratto”. C’è una sanzione risarcitoria nei confronti del falsus procurator. L’art. 1398 individua, come forma di tutela del terzo, una pretesa risarcitoria contenuta nei limiti dell’interesse negativo. Il terzo può chiedere il risarcimento nei limiti dell’interesse negativo: il terzo chiederà il risarcimento delle spese che ha sostenuto durante la fase delle trattative ma non potrà chiedere il risarcimento del valore che avrebbe conseguito qualora il contratto fosse stato validamente concluso, perché questo è l’interesse contrattuale positivo. Caio spende il nome di Tizio senza averne il potere. Arriva Sempronio a cui il titolo è pervenuto in perfetta buona fede. Sempronio chiede a Tizio il pagamento ma Tizio dice di non aver mai conferito questo potere di rappresentanza a Caio. Ma Sempronio, che ha pagato per questo titolo, che tutela ha? Per capire in che modo l’ordinamento il terzo abbiamo l’art. 1398 (che tutela il terzo nei limiti dell’interesse contrattuale negativo) e l’art. 11 della legge cambiaria: “Chi appone la firma sulla cambiale quale rappresentante di una persona per la quale non ha il potere di agire, è obbligato cambiariamente come se avesse firmato in proprio, e se ha pagato, ha gli stessi diritti che avrebbe avuto il pretesto rappresentato. La stessa disposizione si applica al rappresentante che abbia ecceduto i suoi poteri”. Non è lo stesso principio dell’art. 1398. In materia cambiaria il falsus procurator risponde dell’interesse contrattuale positivo: deve pagare la cambiale. Questo è il modello che si applica alla nostra materia, per l’esigenza di protezione del traffico giuridico. C’è molta distanza tra la materia dei titoli di credito (interesse contrattuale positivo) e la materia della normale rappresentanza (interesse contrattuale negativo). Con l’art. 11 il terzo può chiedere il pagamento al falsus procurator che risponde come se avesse firmato il proprio. Un tema che si può porre è quello della interpretazione dell’ampiezza della procura. Poiché il difetto di potere ha queste conseguenze, dobbiamo essere in grado di stabilire in concreto se il rappresentante abbia o meno il potere di emettere un certo titolo di credito; abbiamo cioè un tema di interpretazione dell’ampiezza della procura. La risposta a questo interrogativo in materia cartolare è offerta dall’art. 12 della legge cambiaria: “La facoltà generale di obbligarsi in nome e per conto altrui non fa presumere, salvo prova contraria, la facoltà di obbligarsi cambiariamente. La facoltà generale di obbligarsi in nome e per conto di un commerciante comprende anche quella di obbligarsi cambiariamente, salvo che l’atto di rappresentanza, pubblicato a norma dell’art. 9 del codice di commercio, non disponga diversamente”. In materia di rappresentanza cartolare, c’è la necessità di distinguere tra il caso in cui il rappresentato sia un normale privato dal caso in cui sia un imprenditore commerciale. Nel primo caso (privato) la procura generale non comprende il potere di obbligarsi cartolarmente; nel secondo caso (imprenditore commerciale) la procura generale viene fatta al rappresentante (institore) il quale ha per definizione il potere di obbligare cambiariamente (cartolarmente) l’imprenditore, a meno che l’imprenditore non abbia espressamente limitato i poteri dell’institore. La procura generale che l’imprenditore conferisce al suo rappresentante copre anche l’emissione di titoli di credito. Questo è perfettamente coerente con quanto prevede in materia di preposizione institoria l’art. 2204: “L’institore può compiere tutti gli atti pertinenti all’esercizio dell’impresa a cui è preposto, salve le limitazioni contenute nella procura”. L’art. 12 della legge cambiaria è coerente con l’art. 2204. Un ultimo profilo su questa eccezione: l’art. 1993 non si limita a dire “difetto di capacità o di rappresentanza” ma continua “al momento dell’emissione”. Se leggiamo le altre eccezioni non c’è un riferimento al momento dell’emissione. Perché? Una prima risposta è che se seguiamo la tesi secondo cui il rapporto cartolare sorge solo nel momento dell’emissione, prima di quel momento non c’è alcuna pretesa che può essere fatta valere verso il debitore. Solo con l’emissione sorge il rapporto cartolare. Però c’è anche un’altra risposta di natura pratica. Può succedere che un soggetto sottoscriva un titolo di credito essendo minore di età (legalmente incapace) al momento della sottoscrizione. Ma nel momento in cui quel titolo di credito viene emesso (rilasciato) a distanza di mesi ha acquistato la maggiore età. Non serve a nulla riferire il difetto di capacità al momento della sottoscrizione se quella capacità può essere acquistata nel momento in cui il titolo è emesso in circolazione. L’esigenza di protezione del debitore (alla quale tende l’art. 1993) si pone solo nel momento in cui il titolo viene immesso in circolazione. A quel momento dobbiamo fare riferimento per valutare se il debitore fosse capace o se il rappresentante avesse il potere. Anche per il difetto di potere di rappresentanza il discorso è lo stesso: Tizio può sottoscrivere un titolo di credito in nome di Caio senza averne il potere, ma finché quel documento resta nella tasta di Tizio non c’è un problema di tutela di Caio, cioè dello pseudo rappresentato. E’ solo nel momento in cui il documento entra in circolazione che si pone un’esigenza di tutela del falso rappresentato. Tra il momento in cui il soggetto sottoscrive il titolo di credito in nome di un altro soggetto senza averne il potere e il momento il cui quel documento viene messo in circolazione il falso rappresentante potrebbe ratificare. Se il falso rappresentato ratifica l’emissione del titolo prima che venga immesso in circolazione, perché tutelare il debitore? Ecco perché la norma ha riguardo al momento dell’emissione. Ma si può aggiungere un ulteriore elemento a conferma di questa ricostruzione. Prendiamo il titolo in bianco. Abbiamo due momenti a cui fare riferimento per valutare se sia eccepibile il difetto di capacità o rappresentanza: il momento dell’emissione o il momento del riempimento. Per il debitore che intende eccepire il difetto di capacità o rappresentanza al terzo al quale il titolo giunge completo, è più facile eccepire il difetto di capacità o rappresentanza avendo riguardo al momento dell’emissione o al momento del riempimento? Certamente dell’emissione, perché il debitore quasi sempre non sa mai quando concretamente quel titolo è stato riempito. Che il difetto di capacità o rappresentanza debba essere valutato con riguardo al momento dell’emissione si spiega anche avendo presente la vicenda del titolo in bianco in relazione al quale sarebbe invece impossibile, se facessimo riferimento al riempimento, per il debitore eccepire il proprio difetto di capacità o rappresentanza. Il debitore non potrebbe mai dire che nel momento del riempimento (momento quasi sempre sconosciuto per il debitore) egli era incapace o il rappresentante non aveva il potere. Il riferimento all’emissione copra anche la fattispecie del titolo in bianco.
4) Eccezione fondata sulla mancanza delle condizioni necessarie per l’esercizio dell’azione. Questa ipotesi ha riguardo alle ipotesi in cui la legge subordina l’esercizio della pretesa al rispetto di determinate condizioni previste dalla legge. L’ipotesi tipica è quella della cambiale. Questi riferimenti continui alla cambiale non devono sorprendere perché cronologicamente viene prima la disciplina della cambiale (‘33) rispetto a quella dei titoli di credito (‘42). Il nostro legislatore del 1942, nell’individuare una disciplina generale dei titoli di credito non ha fatto altro che generalizzare i principi propri della cambiale. L’eccezione tipica fondata sulla mancanza delle condizioni necessarie per l’esercizio dell’azione si ha in materia cambiaria perché in materia cambiaria l’esercizio dell’azione di regresso (cioè dell’azione nei confronti dei giranti, detti anche “obbligati di regresso”, i quali hanno funzione di garanzia) è subordinato al c.d. protesto. Il protesto è un atto di un pubblico ufficiale che fa constare il mancato pagamento della cambiale da parte del debitore principale. Il protesto è una condizione necessaria per l’esercizio dell’azione. Questo significa che uno qualsiasi dei giranti, se il protesto non è stato levato, potrà eccepire a qualsiasi possessore la mancanza di una condizione necessaria per l’esercizio dell’azione.


Commerciale Mag 2
Eccezioni reali:
4) Eccezione fondata sulla mancanza delle condizioni necessarie per l’esercizio dell’azione. Questa ipotesi ha riguardo alle ipotesi in cui la legge subordina l’esercizio della pretesa al rispetto di determinate condizioni previste dalla legge. L’eccezione tipica fondata sulla mancanza delle condizioni necessarie per l’esercizio dell’azione si ha in materia cambiaria perché in materia cambiaria l’esercizio dell’azione di regresso è subordinato al c.d. protesto. Il protesto è un atto di un pubblico ufficiale che fa constare il mancato pagamento della cambiale da parte del debitore principale. Il protesto è una condizione necessaria per l’esercizio dell’azione. Questo significa che uno qualsiasi dei giranti, se il protesto non è stato levato, potrà eccepire a qualsiasi possessore la mancanza di una condizione necessaria per l’esercizio dell’azione.
C’è una condizione che vale per l’esercizio della pretesa cartolare in qualsiasi titolo di credito: il possesso del documento. In tutti i titoli di credito il possesso del documento è condizione per l’esercizio del diritto. Sotto questo profilo dobbiamo evidenziare una netta differenza rispetto al diritto comune. L’art. 1199 prende in considerazione il documento: “Il creditore che riceve il pagamento deve, a richiesta e a spese del debitore, rilasciare quietanza e farne annotazione sul titolo, se questo non è restituito al debitore”. Il diritto comune contempla il ruolo del documento nell’esercizio del diritto di credito, ma c’è una differenza netta. Nell’art. 1199 il debitore può chiedere il rilascio di una quietanza come conseguenza dell’adempimento della prestazione. Nel caso dei titoli di credito, invece, l’esibizione del documento è presupposto per l’esercizio del diritto. La norma che fa assurgere il documento a condizione per l’esercizio del diritto è la 1992. Studiando il ruolo del documento si raffronta l’art. 1199 con il 1992. Nel diritto comune l’esibizione del documento è una conseguenza dell’avvenuto pagamento. Si chiede quietanza dopo aver pagato. Nei titoli di credito il rapporto si rovescia: l’esibizione del documento è lo strumento per l’esercizio del diritto. Il debitore non adempie se non vede il documento. Perché c’è questa diversa rilevanza? In questo modo il debitore si sottrae al rischio che questo documento possa circolare e pervenire nelle mani di un terzo in buona fede che acquisterebbe a titolo originario quello stesso diritto cartolare. Il diverso ruolo del documento si spiega per il fatto che nei titoli di credito il documento incorpora il diritto. Se il debitore non conseguisse la restituzione del documento correrebbe il rischio di pagare due volte, perché il documento potrebbe essere immesso in circolazione e pervenire nelle mani di un terzo in buona fede.
5) Eccezioni fondate sul contesto letterale del titolo. Abbiamo già menzionato il significato delle eccezioni fondate sul contesto letterale del titolo. Dalla natura reale di queste eccezioni si evince il principio di letteralità dei titoli di credito: la pretesa che il creditore può esercitare è identificata dal documento. Questa affermazione esige una precisazione. Abbiamo identificato i titoli a letteralità incompleta (azioni e obbligazioni): per questi titoli di credito la pretesa viene ricostruita attingendo non solo alla lettera del documento ma ad atti esterni ai quali quel documento rinvia. Il principio di letteralità può essere inteso anche come letteralità incompleta. Ciò accade nell’art. 2354 (per le azioni) dove il titolo azionario deve indicare l’ufficio del registro delle imprese presso il quale è iscritto lo statuto della società che ha emesso quelle azioni. Chi acquista un’azione ricava il contenuto del diritto azionario non leggendo solo il titolo ma andando a consultare lo statuto. Un problema che s’è posto è il seguente: che accade se il documento viene alterato? in caso di alterazione fa fede il contesto originario o quello attuale? Il debitore risponde nei limiti dell’importo originario o alterato? Se ragionassimo unicamente sulla base di ciò che risulta dal documento, dovremmo affermare che il debitore risponde sempre nei limiti dell’importo successivo all’alterazione. C’è il solito interesse del terzo acché il suo affidamento sia protetto, c’è però un interesse del debitore a non essere vincolato oltre i limiti della promessa che ha effettuato. Una risposta è data dall’art. 88 della legge cambiaria: “In caso di alterazione del testo della cambiale chi ha firmato dopo l’alterazione risponde nei termini del testo alterato; chi ha firmato prime risponde nei termini del testo originario”. Questo articolo fa riferimento ad una pluralità di firme perché nella cambiale vige il principio della pluralità delle obbligazioni cambiarie (l’obbligato principale, cioè chi ha emesso la cambiale, e una serie di obbligati di regresso). L’art. 88, nel prendere in considerazione l’alterazione della cambiale, tutela il debitore originario o il terzo acquisrente? Chi ha firmato prima dell’alterazione risponde nei termini del testo originario; dunque il debitore originario risponde nei limiti dell’importo originario. Prevale l’interesse del debitore su quello del terzo che ha acquistato il titolo alterato. L’eccezione di alterazione è una eccezione reale perché il debitore può opporre a chiunque l’alterazione. E’ anche chiaro che l’alterazione deve essersi verificata dopo l’emissione del titolo, cioè una volta che il titolo di credito è stato emesso in circolazione. Il difetto di capacità e rappresentanza deve essere valutato al momento dell’emissione. La stessa cosa vale per l’eccezione di alterazione. Il debitore scrive sulla cambiale 80. Prima di emettere la cambiale cancella 80 e scrive 100. Il debitore in questo caso risponde per 100, non per 80. L’alterazione deve essere intervenuta dopo l’emissione. Chi ha alterato risponde nei confronti di chi ha acquistato il documento. Quando abbiamo affrontato il tema della creazione del rapporto cartolare, abbiamo detto che il rapporto sorge al momento della emissione in circolazione.
Abbiamo distinto le eccezioni reali e quelle personali, cioè le eccezioni opponibili solo a un determinato portatore. Lo stesso art. 1993 esordisce dicendo che “il debitore può opporre al possessore del titolo soltanto le eccezioni a questo personali…”. Quindi è lo stesso 1993 che individua le eccezioni personali. La dottrina distingue due tipologie di eccezioni personali:
1) eccezioni personali in senso stretto
2) eccezioni personali fondate su rapporti personali con il possessore del titolo
Le eccezioni personali in senso stretto sono anche definite come eccezioni da difetto di titolarità. Si ricollegano all’ipotesi in cui chi ha trasferito il titolo di credito al terzo non era titolare del diritto, cioè non era proprietario del documento. Ipotesi tipica è quella in cui il possessore legittimo subisca lo smarrimento o la sottrazione del documento ed il documento venga trasferito dal ritrovatore o da un ladro ad un terzo. Il trovatore e il ladro non sono proprietari del titolo. Trasferiscono al terzo un diritto che non hanno. Quando il debitore può eccepire al terzo il suo difetto di titolarità, che non ha acquistato alcun diritto? Questa è una eccezione personale, personale a chi ha acquistato il documento a non domino, subordinata a precise condizioni. Queste condizioni sono indicate nell’art. 1994, che individua il principio di autonomia del titolo di credito. Art. 1994: “Chi ha acquistato in buona fede il possesso di un titolo di credito, in conformità delle norme che ne disciplinano la circolazione, non è soggetto a rivendicazione”. Questa norma ha il suo immediato parallelo nella norma 1153 (possesso vale titolo). C’è una piena corrispondenza tra le due norme. Art. 1153: “Colui al quale sono alienati beni mobili da parte di chi non ne è proprietario, ne acquista la proprietà mediante il possesso, purché sia in buona fede al momento della consegna e sussista un titolo idoneo al trasferimento della proprietà”. L’art. 1994 dice la stessa cosa: chi consegue in buona fede il possesso del titolo di credito in base alle norme che ne disciplinano la circolazione non è soggetto alla rivendicazione, cioè una azione a difesa della proprietà, perché ha acquistato la proprietà del documento. L’effetto è identico: acquisto a titolo originario della proprietà del documento e acquisto della titolarità del diritto. Si potrebbe rispondere che, mentre l’art. 1153 parla di possesso, l’art. 1994 sembra figurare un elemento ulteriore, un inciso: “in base alle norme che ne disciplinano la circolazione”. Ma il concetto espresso è lo stesso. Nel caso dei beni mobili ciò che rileva è unicamente il conseguimento del possesso fisico, perché l’ordinamento ricollega alla situazione esteriore del possesso l’effetto acquisitivo della proprietà (possesso come presunzione di proprietà, come corrispondenza di una situazione di diritto con una situazione di fatto). Nel campo dei titoli di credito non rileva il semplice possesso del documento ma il possesso qualificato, cioè il possesso conseguito in base alla legge di circolazione. Che questo sia vero lo abbiamo già visto studiando la legittimazione attiva. L’art. 1992.1: “Il possessore di un titolo di credito ha diritto alla prestazione in esso indicata verso presentazione del titolo, purché sia legittimato nelle forme prescritte dalla legge”. Anche in questa disposizione c’è lo stesso rimando alla legge. Il concetto di legittimazione attiva presuppone il possesso qualificato del documento, cioè che il documento sia stato acquistato in base alla legge di circolazione. Stessa cosa che vale nell’art. 1994. Il possesso è tutelato se qualificato, cioè rispetta la legge di circolazione. Sintetizzando, l’acquisto del possesso del documento comporta l’acquisto a titolo originario della proprietà del documento quando c’è un negozio idoneo al trasferimento della proprietà; il possesso è qualificato; sussiste la buona fede dell’acquirente. Queste sono le tre condizioni essenziali. Come materia di possesso di beni mobili la buona fede si presume (art. 1147.3: “La buona fede è presunta e basta che vi sia stata al momento dell’acquisto”). Stiamo analizzando l’eccezione personale in senso stretto. Il debitore si vede arrivare il terzo. Sa che il terzo ha acquistato da un ladro o da chi ha ritrovato il documento. Il debitore vuole opporre al terzo questa eccezione personale. Dovrà provare la malafede o la colpa grave per eccepirgli il difetto di titolarità. Questo passaggio consente di distinguere questa eccezione dall’altra eccezione personale fondata su rapporti personali con il possessore del titolo, cioè le eccezioni considerate dall’art. 1993. L’eccezione da difetto di titolarità si fonda sull’art. 1994.
L’art. 1993 fa riferimento alle eccezioni fondate su rapporti personali. L’eccezione tipica fondata su rapporto personale è l’eccezione che nasce da un vizio del rapporto fondamentale. Il vizio del rapporto fondamentale si traduce in una anomalia del negozio di emissione del titolo di credito. Come tale quel vizio è opponibile al primo prenditore. Ipotesi tipica: c’è un contratto di compravendita. Il compratore emette una cambiale in favore del venditore. Il venditore non trasferisce la cambiale e si presenta per riscuotere la cambiale ma il debitore eccepisce al compratore l’invalidità del contratto di compravendita. Il vizio del rapporto fondamentale si traduce in un vizio del negozio di emissione opponibile dal debitore al primo prenditore (eccezione fondata su un rapporto personale del debitore con il primo prenditore). Questo non vuol dire che le eccezioni personali siano limitate ai rapporti tra debitore e primo prenditore. Altro esempio di eccezione personale: la cambiale perviene nelle mani di un terzo che per altri rapporti era debitore di chi ha emesso la cambiale. Il debitore che ha emesso la cambiale eccepirà al terzo la compensazione (modo di estinzione dell’obbligazione non satisfattiva). Il principio da tenere a mente è il seguente: in che limiti queste eccezioni personali (fondate su rapporti personali) sono opponibili al successivo acquirente del titolo di credito? Caso pratico: il debitore emette la cambiale a favore del primo prenditore sulla base di un contratto di compravendita nullo. Il primo prenditore trasferisce la cambiale al terzo. Entro che limiti il nostro debitore può eccepire al terzo il vizio del rapporto fondamentale e dunque del rapporto fondamentale? Entro che limiti può opporre al terzo le stesse eccezioni che avrebbe potuto opporre al primo prenditore? La risposta (e al tempo stesso la differenza con l’eccezione da difetto di titolarità) si può trovare nel secondo comma dell’art. 1993: “Il debitore può opporre al possessore del titolo le eccezioni fondate sui rapporti personali con precedenti possessori, soltanto se, nell’acquistare il titolo, il possessore ha agito intenzionalmente a danno del debitore medesimo”. In un confronto tra l’eccezione di difetto di titolarità (1993) e l’eccezione fondata su rapporti personali si rileva la differenza tra buona fede del 1994 e l’intenzione di nuocere nel 1993. La differenza sta nell’elemento psicologico, cioè in quell’ “intenzionalmente”. L’intenzionalità esprime un connotato psicologico più intenso della mera conoscenza. Abbiamo già visto la differenza tra dolo e malafede. Nell’art. 1994 il debitore, per sottrarsi al pagamento, prova la malafede del terzo. Con l’art. 1993 il debitore non si può limitare a provare la malafede ma deve provare il dolo, l’intenzionalità dannosa. Deve provare che il terzo, nell’acquistare il titolo di credito, ha voluto danneggiare il debitore. Subito dopo l’entrata in vigore del codice civile Bigiavi tentò di leggere l’art. 1993.2 attraverso l’art. 21 della legge cambiaria: “La persona contro la quale sia promossa azione cambiaria non può opporre al portatore le eccezioni fondate sui rapporti suoi personali col traente o con i portatori precedenti a meno che il portatore, acquistando la cambiale, abbia agito scientemente a danno del debitore”. La disciplina dei titoli di credito si è ottenuta per generalizzazione delle norme in tema di cambiale. Dopo il 1942 Bigiavi ha l’art. 21 della legge 1669/’33 e l’art. 1993.2, che risolvono lo stesso problema. Siccome la disciplina dei titoli di credito si ottiene per generalizzazione della disciplina della cambiale possiamo interpretare il requisito dell’ “intenzionalmente” alla stregua dello “scientemente”, cioè come mera consapevolezza. Questa interpretazione, pur autorevole, non è stata seguita per una serie di ragioni. La prima è che il nostro legislatore, al momento dell’emanazione del codice del 1942, era del tutto consapevole dell’esistenza dell’art. 21. Se ha utilizzato un avverbio diverso lo ha fatto in modo del tutto consapevole, per assegnare all’avverbio un significato del tutto diverso, per rafforzare l’elemento psicologico. Inoltre c’è una ragione di carattere sistematico: tra le due tesi quella più coerente con la funzione del titolo di credito di mobilizzare la ricchezza e di tutelare l’affidamento del terzo è quella interpreta “intenzionalmente” come dolo (non come mera consapevolezza), perché il dolo è più difficile da trovare. La differenza tra eccezioni persone fondate sul difetto di titolarità e quelle fondate sul rapporto persone con il possessore del titolo è principalmente probatorio. Per le prime il debitore si limita a provare la malafede del terzo; per le seconde deve provare l’intenzionalità dannosa. Il danno al quale allude l’art. 1993.2 è il danno che il debitore subisce come conseguenza dell’impossibilità di opporre eccezioni. Se la cambiale fosse rimasta nelle mani del primo prenditore, il debitore gli avrebbe potuto opporre il vizio del rapporto fondamentale e non avrebbe pagato. Poiché il primo prenditore ha trasferito fraudolentemente la cambiale al terzo, il debitore perde la possibilità di opporre il vizio del rapporto fondamentale. Ecco il danno che subisce il debitore: danno da perdita dell’eccezione. Questo vuol dire che affinché possa operare la norma, deve esistere, tra chi trasferisce il titolo e il terzo che lo acquista, un accordo fraudolento di natura speculativa. Perché speculativa? Supponiamo la cambiale con obbligazione di pagare 100 data nelle mani del primo prenditore che sa benissimo che il rapporto fondamentale è viziato. Egli lo dice al terzo, comunicandogli che così può riscuotere la prestazione del debitore per cento. Il terzo si fa trasferire quel titolo per un prezzo minore. Ecco il vantaggio del terzo e la natura speculativa dell’accordo. Il terzo guadagna la differenza (sperando che il debitore non gli opponga l’eccezione).

Profili della circolazione del diritto cartolare
La circolazione del diritto cartolare può essere:
a) volontaria (o regolare)
b) involontaria (o irregolare)
c) impropria
Si parla di circolazione volontaria quando alla base del trasferimento del titolo c’è un valido negozio di emissione o di trasferimento del titolo di credito. Quando si parla di negozio di emissione si fa riferimento ad un atto che è causalmente autonomo rispetto al negozio che fonda il rapporto sottostante. Questo vuol dire che il negozio che fonda il rapporto sottostante sarà un contratto, una donazione etc. Ci sarà poi un negozio autonomo (negozio di emissione) la cui funzione è quella di trasfondere l’obbligazione inerente al rapporto fondamentale in un documento cartaceo (Negozio fondamentale-> negozio di emissione-> documento). In questo modo nasce l’incorporazione. Il problema che si è posto nel caso della circolazione volontaria è il seguente: qual è la natura giuridica del negozio di emissione? Siamo in presenza di un contratto consensuale ad effetti reali o di un contratto reale? Un contratto consensuale con effetti reali si perfeziona con il raggiungimento dell’accordo, con il consenso: si aggiunge poi l’obbligo della consegna della cosa. La consegna assume il significato di adempimento di un obbligo già esistente. Il contratto reale invece presuppone una fattispecie complessa. Un contratto reale si perfeziona con la consegna della cosa. L’effetto traslativo si produce a seguito della consegna della cosa; non basta il consenso. La consegna in un caso assolve ad una funzione esecutiva (contratto consensuale ed effetti reali); nell’altro assume funzione di elemento perfezionativo del contratto (contratto reale). Il nostro negozio di emissione (posto che stiamo parlando di un documento che è condizione necessaria e sufficiente per l’esercizio del diritto; posto che senza documento non si riesce ad esercitare il diritto cartolare) è un contratto consensuale. Ipotizzate il caso del conflitto fra più acquirenti dello stesso titolo di credito. Tizio stipula con Caio un contratto di compravendita avente ad oggetto un negozio di emissione (una cambiale). Non consegna però a Caio la cambiale. La consegna a Sempronio sulla base di un successivo contratto di compravendita. Tizio ha ceduto lo stesso documento a due soggetti diversi: prima a Caio, non consegnandogli il documento, poi a Sempronio, consegnandogli il documento. Se seguiamo la tesi consensualistica, cioè la tesi secondo cui il negozio di emissione è un contratto consensuale, Caio avrebbe acquistato la proprietà del documento pur non avendone conseguito il possesso. Tuttavia ipotizziamo che Sempronio sia in buona fede. In questo caso si applica l’art. 1994. Sempronio, solo se in buona fede, acquisterà la proprietà del documento. Se si segue la tesi realistica, Sempronio prevale in ogni caso, anche se era in malafede al momento del conseguimento del documento. Altro esempio: il passaggio dei rischi. Il documento può sempre subire distruzione, smarrimento, sottrazione. Su chi grava il rischio? La soluzione è diversa a seconda della tesi alla quale si aderisce. Ipotizziamo che Tizio stipuli con Caio il negozio di emissione. Non consegni il documento e il documento si distrugge. Su chi grava il rischio? Dipende dalla tesi. Se si segue la tesi consensualistica, con il trasferimento della proprietà passano i rischi. Nel nostro ordinamento il principio è che res perit domino: il rischio grava sul proprietario. Se si segue la tesi realistica il rischio del perimento continua a gravare sul cedente (Tizio). La dottrina si è divisa. Martorano sposa la tesi consensualistica. Galgano sposa la tesi realistica. La tesi preferibile è la prima: quella della natura consensualistica del negozio di emissione. Galgano sposa la tesi realistica sulla base dell’art. 2003 (per i titoli al portatore): “Il trasferimento del titolo al portatore si opera con la consegna del titolo”. Galgano dice che l’art. 2003 ricollega il trasferimento alla consegna, e quindi conferma la tesi realistica. Per i titoli all’ordine art. 2011: “La girata trasferisce tutti i diritti inerenti al titolo”. Art. 2022 (titoli nominativi): “Il trasferimento del titolo nominativo si opera mediante l’annotazione del nome dell’acquirente sul titolo e nel registro dell’emittente o col rilascio di un nuovo titolo intestato al nuovo titolare”. Anche l’art. 2022 sembra ricollegare alla consegna il trasferimento del diritto. Sulla base di queste tre norme Galgano dice che la consegna è elemento essenziale per il perfezionamento della fattispecie. Altra parte della dottrina dice che è il negozio di emissione è un contratto consensuale per due ragioni. Quando queste norme fanno riferimento al concetto di trasferimento intendono riferirsi non al trasferimento della proprietà del documento ma al trasferimento della legittimazione. Titolarità e legittimazione hanno riguardo a due posizioni reali differenti. La titolarità ha riguardo al concetto di proprietà. La legittimazione ha riguardo al concetto di possesso qualificato del documento. Gli artt. 2003, 2011, 2022, sono articoli che individuano la legge di circolazione, cioè la legge il cui rispetto consente il trasferimento della legittimazione. Da queste norme non si può ricavare alcun indice in favore della tesi realistica. C’è una ragione di carattere sistematico per sposare la tesi consensualistica: nel nostro ordinamento il principio generale che sta alla base del trasferimento dei diritti è il principio consensualistico. Questo principio generale per cui è sufficiente il consenso è presente all’art. 1376: “Nei contratti che hanno per oggetto il trasferimento della proprietà di una cosa determinata, la costituzione o il trasferimento di un diritto reale ovvero il trasferimento di un altro diritto, la proprietà o il diritto si trasmettono e si acquistano per effetto del consenso delle parti legittimamente manifestato”. Questo principio è fondamentale e consente di distinguere l’ordinamento italiano da altri ordinamenti (da quello tedesco) in cui l’effetto traslativo si ricollega alla consegna del bene. In Germania si distingue il negozio obbligatorio dal negozio reale. Il negozio obbligatorio è la causa del trasferimento della proprietà. Il trasferimento della proprietà consegue soltanto alla consegna della cosa (negozio reale). In Germania la proprietà si trasferisce stipulando due contratti (un contratto consensuale ad effetti obbligatori e un contratto reale). Questa distinzione di piani è tratta dal diritto romano (formulare, solenne). Da noi opera il principio dell’art. 1376 (unico contratto). Non è che nel nostro ordinamento tutti i contratti siano consensuali. Esistono contratti reali ma la realità del contratto è espressamente indicata dalla legge. Per esempio, il contratto di riporto (art. 1549) “si perfeziona con la consegna dei titoli”. Quando il nostro ordinamento privilegia la soluzione realistica lo dice espressamente. Poiché in materia di titoli di credito non c’è una norma analoga, il principio resta quello dell’art. 1376 (tesi con sensualistica). La circolazione volontaria è fondata sul negozio di emissione, che è un negozio consensualistico ad effetti reali.
La circolazione involontaria si ha quando manca il negozio di emissione. Ad esempio quando il titolo viene sottratto. Quale norma applichiamo nel caso di circolazione involontaria, cioè quando manca il negozio di emissione, cioè quando il trasferimento avviene da parte di chi non è titolare? La 1994. La circolazione involontaria non è altro che un problema di applicazione dell’art. 1994 (principio di autonomia). Mentre nel caso della circolazione volontaria dobbiamo risolvere il problema tra tesi consensualistica e realistica, nel caso di circolazione involontaria dobbiamo applicare l’art. 1994.
La circolazione impropria si ha quando il documento viene trasferito senza l’osservanza della legge di circolazione propria di quel titolo. In questo caso si producono gli effetti della cessione ordinaria del credito. Cioè, l’acquisto del diritto avviene a titolo derivativo non originario. L’acquirente subentra nella stessa posizione giuridica del dante causa e il debitore potrà opporre all’acquirente le stesse eccezioni che avrebbe potuto opporre all’alienante. Che ciò sia lo ricaviamo dall’art. 2015: “L’acquisto di un titolo all’ordine con mezzo diverso dalla girata produce gli effetti della cessione”. Nel caso di circolazione impropria, oggetto della cessione non è il documento ma il diritto di credito. Quando ragioniamo in termini di circolazione volontaria, il negozio di emissione ha ad oggetto il documento. Soltanto acquistando la proprietà del documento si consegue la proprietà del diritto. Nel caso della circolazione impropria oggetto della cessione non è il documento ma direttamente il diritto, il credito.
Si trasferiscono con il diritto di credito gli accessori, cioè le eventuali garanzie che assistono il diritto di credito? In un credito con ipoteca chi acquista il credito vuole acquistare anche l’ipoteca. Non c’è dubbio che il trasferimento del documento importa trasferimento degli accessori, cioè delle garanzie. Tra le conferme normative l’art. 1263: “Per effetto della cessione, il credito è trasferito al cessionario con i privilegi, con le garanzie personali e reali e con gli altri accessori”. La cessione del credito importa cessione degli accessori. Non c’è bisogno ogni volta di stipulare un contratto di trasferimento del diritto di garanzia. Seconda conferma è l’art. 1995: “Il trasferimento del titolo di credito comprende anche i diritti accessori che sono ad esso inerenti”. Il trasferimento del diritto di garanzia è trasferimento di un diritto comunque extracartolare. Ciò significa che alla circolazione del diritto accessorio non si applica il principio di autonomia. L’acquisto è sempre a titolo derivativo. Questo vuol dire che il debitore potrà eccepire all’acquirente l’eventuale invalidità o inefficacia del negozio costitutivo del diritto di garanzia. Inoltre, ipotizzate un titolo di credito garantito da ipoteca. Una ipoteca si costituisce mediante annotazione nei registri immobiliari. Per far circolare l’ipoteca è necessario sostituire al nome del creditore in favore del quale l’ipoteca è iscritta il nome del nuovo titolare del diritto di ipoteca. In materia di circolazione dell’ipoteca vige il principio di nominatività dell’iscrizione ipotecaria; art. 2843: “La trasmissione o il vincolo dell’ipoteca […] si deve annotare in margine all’iscrizione dell’ipoteca”. Questo significa che ogni volta che si trasferisce il diritto di ipoteca ad un nuovo soggetto si deve annotarne il nome. Non è una regola coerente con il principio di facilitazione della circolazione. Una regola del genere è assolutamente di intralcio. La risposta dell’ordinamento è la norma 2831.2: “Per i titoli all’ordine l’ipoteca è iscritta a favore dell’attuale possessore e si trasmette ai successivi possessori; questi non sono tenuti a effettuare l’annotazione prevista dall’art. 2843”. Nella materia dei titoli di credito il principio di nominatività dell’iscrizione vale solo all’inizio, al momento di costituzione dell’ipoteca, non ai fini della sua successiva circolazione. Questo per quanto concerne il profilo della circolazione.
Leggi di circolazione dei titoli di credito. Per leggi di circolazione si intende il modo di trasferimenti della legittimazione. La titolarità si trasferisce solo con il contratto (con un titolo idoneo al trasferimento). La legittimazione si trasferisce mediante consegna e rispetto della legge di circolazione. La legge di circolazione ci dice come si trasferisce la legittimazione all’esercizio del diritto. Sotto questo profilo distinguiamo tra:
a) titoli a legittimazione reale (titoli al portatore). In questo caso la legittimazione si trasferisce mediante la sola consegna (art. 2003).
b) titoli a legittimazione nominale, cioè i titoli intestati a un dato soggetto (titoli all’ordine e titoli nominativi). Solo per i titoli a legittimazione nominale l’ordinamento prevede in ipotesi di smarrimento o sottrazione una procedura di ammortamento.
L’art. 2011 afferma che il trasferimento del titolo all’ordine avviene mediante girata. La girata è un ordine di pagamento che il trasferente rivolge al debitore, cioè con la girata il trasferente ordina al debitore di pagare a favore dell’acquirente. Il trasferente prende il nome di girante; l’acquirente prende il nome di giratario. Con la girata il girante ordina il debitore di pagare per il giratario. Possiamo accostare la girata, per qualche profilo, alla delegazione di pagamento. La delegazione di pagamento è definita all’art. 1269: “Se il debitore per eseguire il pagamento ha delegato un terzo, questi può obbligarsi verso il creditore, salvo che il debitore l’abbia vietato”. C’è una differenza fondamentale tra girata e delegazione di pagamento. Con la delegazione di pagamento il debitore autorizza il pagamento, cioè il delegato resta libero di effettuare o meno il pagamento. Nel caso della girata si tratta di un ordine di pagamento, cioè il debitore è obbligato a pagare al giratario. Questo per ciò che riguarda la natura giuridica della girata. Vediamo ora le funzioni della girata. La funzione che la girata esplica sempre è la funzione di trasferimento della legittimazione. Oltre a questa funzione la girata può assolvere, se lo vuole il debitore o se lo prevede la legge, a una funzione di garanzia. Con la girata il girante garantisce al giratario l’adempimento dell’obbligo cartolare. In via generale la girata assolve solo a una funzione di trasferimento della legittimazione. Art. 2012: “Salvo diversa disposizione di legge o clausola contraria risultante dal titolo, il girante non è obbligato per l’inadempimento della prestazione da parte dell’emittente”. L’unica funzione è il trasferimento della legittimazione. Non c’è una funzione di garanzia, a meno che non sia previsto dalle volontà delle parti o da una diversa disposizione di legge. Questa diversa disposizione di legge è nella materia cambiaria, cioè di un titolo all’ordine nel quale la girata assolve sia a una funzione di trasferimento della legittimazione che a una funzione di garanzia. Questo perché nella cambiale il girante assume, con la girata, la posizione di un obbligato di regresso. Questa funzione di garanzia è espressa nell’art. 19 della legge cambiaria: “il girante, se non vi sia clausola contraria, risponde dell’accettazione e del pagamento”. Il nostro codice contempla le girate ad effetti limitati. Le girate ad effetti limitati sono quelle forme di girata a cui guardano gli artt. 2013 (girata per procura) e 2014 (girata in garanzia). Nella girata per procura e nella girata in garanzia non si producono o si producono solo in parte gli effetti tipici della girata. Girata per procura; art. 2013: “Se alla girata è apposta una clausola che importa conferimento di una procura per incasso, il giratario può esercitare tutti i diritti inerenti al titolo, ma non può girare il titolo, fuorché per procura. L’emittente può opporre al giratario per procura soltanto le eccezioni opponibili al girante”. Nel caso della girata per procura non si ha alcun trasferimento della legittimazione perché il giratario è un mero rappresentante del girante. Questo vuol dire che il giratario esercita lo stesso diritto del girante. E’ un esercizio in nome e per conto. Il giratario esercita lo stesso diritto del girante. Proprio perché si tratta di mera rappresentanza, l’art. 2013 ci dà due regole: 1) il giratario non può trasferire il titolo (se non per procura), perché non ha acquistato alcuna legittimazione; 2) l’emittente può opporre al giratario solo le eccezioni opponibili al girante, perché il giratario è rappresentante del girante. Girata in garanzia; art. 2014: “Se alla girata è apposta una clausola che importa costituzione di pegno, il giratario può costituire tutti i diritti inerenti al titolo, ma la girata da lui fatta vale solo come girata per procura. L’emittente non può opporre al giratario in garanzia le eccezioni fondate sui propri rapporti personali col girante, a meno che il giratario, ricevendo il titolo, abbia agito intenzionalmente a danno dell’emittente”. Nel caso della girata in garanzia la girata costituisce un diritto di pegno sul credito cartolare. Il giratario, questa volta, è un creditore pignoratizio. Questo vuol dire che con la girata in garanzia nasce un diritto nuovo (il pegno), autonomo da quello del girante, ma limitato. Proprio perché nasce un diritto nuovo ma limitato l’art. 2014 detta due regole: 1) il giratario in garanzia non può trasferire il titolo (se non per procura), perché non ne ha acquistato la proprietà (è solo un mero creditore pignoratizio); 2) l’emittente non può opporre al giratario le eccezioni opponibili al girante, proprio perché il giratario ha un diritto autonomo (di pegno). E’ questa seconda la differenza con la girata per procura. Resta ferma l’eccezione di dolo, che si richiama all’art. 1993.2, che rende opponibile l’eccezione anche al successivo giratario in garanzia.
Ammortamento. La procedura di ammortamento è prevista solo per i titoli a legittimazione nominale (titoli all’ordine e titoli nominativi); non per i titoli al portatore. Per i titoli al portatore ci sono solo le norme degli artt. 2005 e segg. Sono norme che disciplinano il caso della sottrazione, del deterioramento, della distruzione del titolo. Solo per i titoli a legittimazione nominale la legge prevede, per il caso di smarrimento, sottrazione o distruzione che non sia provata, una procedura ad hoc. Se l’ex possessore prova la distruzione del titolo, avrà diritto al rilascio di un titolo equivalente. Questo lo dice l’art. 2007: “Il possessore del titolo al portatore, che ne provi la distruzione, ha diritto di chiedere all’emittente il rilascio di un duplicato o di un titolo equivalente”. Questa norma si applica analogicamente anche ai titoli all’ordine e nominativi. In questi casi applicare la procedura di ammortamento sarebbe un inutile spreco. Gli interessi che la procedura di ammortamento deve contemperare sono:
a) interesse dell’ex possessore che ha subito lo smarrimento, sottrazione o distruzione
b) interesse del terzo potenziale acquirente di quel documento
c) interesse del debitore a non essere costretto a pagare due volte
Se Tizio ha perso il documento c’è sempre il rischio che questo documento venga rinvenuto da Caio o venga trasferito a Caio che in buona fede ne acquista la proprietà, e allora si applicherà l’art. 1994. Questi interessi vengono tutelati con una procedura (l’ammortamento; art. 2016 e segg.) che si articola in due fasi:
1) fase (essenziale) tendente ad accertare la legittimazione
2) fase (eventuale) tendente a ricostruire la titolarità
C’è un possibile passaggio la cui portata giuridica non è chiara: la denunzia al debitore dell’avvenuto smarrimento o sottrazione. A questa denunzia fa riferimento l’art. 2016.1: “In caso di smarrimento, sottrazione o distruzione del titolo, il possessore può farne denunzia al debitore…”. Qual è il significato giuridico di questa denunzia al debitore? Perché l’ex possessore del titolo può denunziare al debitore l’avvenuto smarrimento? Si ritiene che l’effetto della denunzia sia quello di imporre al debitore un particolare onere nell’accertamento della legittimazione in capo al terzo che chiede il pagamento. Il nostro possessore subisce lo smarrimento. Contatta il debitore e gli comunica lo smarrimento. L’effetto giuridico di questa denunzia è porre sull’avviso il debitore, cioè di imporgli un particolare onere nell’accertare se il terzo che chiederà il pagamento di quel titolo sia o meno il soggetto legittimato, ma questa denunzia non incide sul dovere del debitore di pagare al legittimo possessore. Il debitore è comunque liberato se paga al possessore legittimo. Resta fermo il principio della legittimazione passiva di cui all’art. 1992.2, cioè il debitore è liberato se adempie senza dolo o colpa grave. La denunzia non incide sulla legittimazione passiva: il debitore può non pagare solo se ha le prove che il possessore del documento non è il suo titolare. Il debitore, anche se gli è stata denunziata la sottrazione, deve pagare se non ha le prove che chi gli chiede il pagamento non sia il proprietario del documento. Questo si ricava dall’art. 2016 ultimo comma. Il terzo di buona fede acquista la proprietà del documento in base al principio di autonomia (1994). Se il debitore non ha la prova che quel titolo è stato rubato e che il terzo era a conoscenza del furto deve pagare. Art. 2016.5: “Nonostante la denunzia, il pagamento fatto al detentore prima della notificazione del decreto (di ammortamento) libera il debitore” .
Fase necessaria tendente a ricostruire la legittimazione (art. 2016). E’ una fase di volontaria giurisdizione che si chiude con il c.d. decreto di ammortamento. Il decreto di ammortamento ha la funzione di privare il documento in circolazione della sua funzione di legittimazione. Prima del decreto di ammortamento il documento continua a svolgere la sua funzione di legittimazione. Il decreto di ammortamento stacca dal documento la funzione di legittimazione e la ricollega all’ex possessore. Questo decreto di ammortamento è soggetto ad una duplice pubblicità: deve essere notificato al debitore e deve essere pubblicato nella Gazzetta Ufficiale. Alla notificazione al debitore si ricollega una valenza di divieto, cioè negativa, perché a partire dalla notificazione del decreto di ammortamento il debitore non è più liberato se paga al detentore. Ecco l’effetto della notificazione al debitore del decreto di ammortamento. Secondo effetto che si ricollega alla pubblicazione del decreto nella Gazzetta Ufficiale è un effetto positivo: a partire da tale pubblicazione decorre il termine di 30 giorni per proporre opposizione al decreto. L’opposizione al decreto di ammortamento verrà proposta dall’attuale detentore, cioè dall’acquirente in buona fede del titolo. Questa disciplina si deve essenzialmente ad Alberto Asquini (maestro del prof. Gambino). Non è un caso che nell’art. 2016, quando si disciplina l’ammortamento, la norma non fa più riferimento al concetto di possessore, ma fa riferimento al concetto di detentore, perché con l’ammortamento il possesso del documento non legittima più l’esercizio del diritto. Difatti chi possiede lo fa con l’animus possidendi, cioè come se possedesse a titolo di dominicale. Il detentore invece sa di avere il bene non come proprietario. Il proprietario possiede; il conduttore detiene. Una condizione per proporre opposizione è il deposito del titolo ai sensi dell’art. 2017.2: “L’opposizione non è ammissibile senza il deposito del titolo presso la cancelleria del tribunale”. La legge esige il deposito del titolo perché con il decreto di ammortamento viene meno la funzione di legittimazione ma non viene meno la funzione di incorporazione. Questo vuol dire che il documento continua ad incorporare il diritto; può pervenire nelle mani di un terzo di buona fede che ne acquisterebbe la proprietà ai sensi dell’art. 1994. Ecco perché la seconda fase ha ad oggetto l’accertamento della titolarità.
Se c’è opposizione al decreto di ammortamento (entro 30 giorni) si apre la seconda fase (eventuale) di accertamento della titolarità, cioè della proprietà del documento, la cui funzione è privare il documento della sua funzione di incorporazione. Ecco perché la legge vuole che sia depositato il titolo. Questa seconda fase è una fase di cognizione, cioè retta dal principio del contraddittorio. Sul piano probatorio c’è una sorta di inversione dell’onere della prova. In base ai principi spetta all’attore provare i fatti a fondamento della pretesa. Nel nostro caso il giudizio si apre su iniziativa del detentore. Se applicassimo i principi in tema di prova dovremmo chiedere al detentore di provare di aver acquistato in buona fede la proprietà del documento. Ma sappiamo che la buona fede si presume. Dunque il nostro detentore depositerà il titolo, proverà l’esistenza solo il negozio di emissione. Graverà sull’ex possessore l’onere di provare la malafede del detentore. Graverà sull’ex possessore l’onere di contrastare l’applicazione del 1994. Dovrà provare non solo la malafede di chi si è opposto al decreto di ammortamento, ma dovrà provare (probatio diabolica) la malafede di tutti coloro che hanno, prima di lui, posseduto quel documento. Se nella catena circolatoria fosse intervenuto un terzo di buona fede avrebbe sanato il vizio di titolarità. Tizio ruba il documento e lo trasferisce a Caio. Caio è in malafede e lo trasferisce a Sempronio. Sempronio è in buona fede e lo trasferisce a Mevio che è in malafede. Il fatto che in questa catena sia intervenuto Sempronio in buona fede sana il difetto di titolarità. Chi ha subito lo smarrimento dovrà provare la malafede di tutti i precedenti possessori del documento. Se l’opposizione viene rigettata il titolo non ha più efficacia. Cessa di svolgere la sua funzione di incorporazione. Questo dice l’art. 2019. Se si dà ragione all’ex possessore il titolo non incorpora più il diritto. L’ex possessore, se il titolo è scaduto, chiederà il pagamento; se non è scaduto chiederà il rilascio di un titolo equivalente (art. 2019.2). L’art. 2019.1 ci dice che il titolo non ha più efficacia: “Trascorso senza opposizione il termine indicato dall’art. 2016, il titolo non ha più efficacia, salve le ragioni del detentore verso chi ha ottenuto l’ammortamento”. Il decreto di ammortamento viene pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Al 29esimo giorno il ladro trasferisce ad un terzo di buona fede che non ha materialmente il tempo per proporre opposizione. Dopo la scadenza del termine il titolo non ha più efficacia. Prima della scadenza il titolo conserva la sua funzione di incorporazione, dunque può pervenire nelle mani del terzo in buona fede che ne acquista la proprietà. Ecco che l’art. 2019.1 consente al detentore che ha acquistato il documento prima del termine di poter far valere le sue ragioni, cioè poter chiedere il quanto ha versato per l’acquisto di quel titolo, pur non avendo opposto opposizione. L’ammortante (ex possessore), scaduto il termine per proporre opposizione, chiede il pagamento di 100 se il diritto è scaduto. Medio tempore un terzo può aver acquistato la proprietà del documento, pagando 80. Il terzo potrà agire verso l’ammortante chiedendo 80, cioè farà valere le sue ragioni verso l’ammortante, perché prima del termine il documento svolge ancora la sua funzione di incorporazione.