giovedì 13 novembre 2008

Medievale

Medievale Ott 9
Prof. Andrea Errera
Manuali: Ennio Cortese, “Le grandi linee della storia giuridica medievale”. Sono esclusi i capp. 8 e 9 della prima parte (relativi al diritto bizantino e il Mezzogiorno, e aspetti della prassi)
Inoltre, Andrea Errera “Lineamenti di epistemologia giuridica medievale” Giappichelli Editore
I testi sono molto analitici. La frequenza alle lezioni permette di avere una chiave di lettura della storia. Lo studio sui manuali diventa allora più accessibili. All’esame si chiede prevalentemente quello che si è detto a lezione. Una presenza proficua a lezione è molto utile.
Nozioni di fondo introduttive. La presenza di materie storiche nella facoltà giuridica è forte. Perché studiare materie storiche? Per rispondere a questa bisogna prima sapere a cosa serve la facoltà giuridica. C’è chi risponde che serve per ottenere un tecnico del diritto. Il tecnico legge la norma, la interpreta e cerca di applicarla. Se l’obiettivo degli studi fosse formare un tecnico, già una persona in grado di leggere e scrivere potrebbe risolvere questo problema. Se il tempo speso all’università fosse solo sforzo mnemonico, tutto ciò sarebbe inutile. Ma in realtà questa facoltà serve a tutt’altro: formare il giurista. Il giurista ha conoscenza critica del diritto. Del diritto che studia, padroneggia l’intima ragione, natura, essenza. Mentre il tecnico del diritto si limita alla forma, alla veste esteriore, il giurista deve conoscere lo spirito della norma, la ragione per cui la norma esiste, la ratio, la sua utilità. Il giurista ha una conoscenza infinitamente più approfondita del tecnico del diritto. Per comprendere la natura della norma non c’è altra strada che conoscerne la storia. Le norme non sono concetti astratti, frutto di una visione innaturale, ma sono prodotte nella vita, per rispondere ad esigenze sociali. La conoscenza del diritto è critica solo se di quel diritto si comprendono le radici storiche. Esempio: le biblioteche universitarie sono vaste e dispongono di poco spazio. Anni fa il rettore di una facoltà scientifica ritenne che la cosa più normale da fare, per guadagnare spazio, fosse prendere le annate vecchie delle riviste scientifiche e buttarle. Questo discorso può esser fatto nell’ambito delle facoltà scientifiche, perché i testi attuali sono più accurati e più avanzati degli anni passati. Ovviamente questo discorso non può essere trasportato in una facoltà umanistica: nella facoltà di lettere non basta leggere la produzione del novecento. Tutto quello che è accaduto nel novecento è la conseguenza del passato. In questo modo la letteratura del Novecento non si capirebbe. Nelle facoltà umanistiche, studiare il presente e tralasciare il passato non è possibile: ciò comporta l’incomprensione del presente e perdere la visione critica di quello che si studia. Se isolo la conoscenza giuridica dal passato, mi privo della capacità di comprenderla correttamente. A questo punto non riesco a confrontarmi col diritto ma solo a subirlo. Non ho più la radice storica di quell’evoluzione. Il giurista è in grado di vedere dove va il diritto, di conoscere il futuro della norma.
Due articoli del codice civile dimostrano che tutto questo non è fantasia ma risponde alla vita quotidiana. L’art. 2712 dice che “Le riproduzioni fotografiche o cinematografiche, le registrazioni fonografiche e in genere ogni altra rappresentazione meccanica, formano piena prova dei fatti e delle cose rappresentate”. Il codice risale al 1942 e il legislatore di allora conosce solo queste riproduzioni meccaniche. Il legislatore del 1942 sa che la tecnologia è progressiva e quindi non esclude delle novità. Per non rendere questo articolo subito inutilizzabile, aggiunge anche la frase “in genere, ogni altra rappresentazione meccanica”. Basta questo inciso per aprire la strada a tutte le eventuali future riproduzioni meccaniche. Il legislatore prevede un’infinità di cambiamenti tecnologici. Nel 2713 c’è un testo normativo contro cui il tecnico del diritto sbatte senza possibilità di soluzione. “Le taglie o tacche di contrassegno corrispondenti al contrassegno di riscontro formano piena prova tra coloro che usano provare in tal modo le somministrazioni che fanno o ricevono al minuto”. Se un tecnico prova a dare una lettura dell’articolo già si trova in grosse difficoltà. Se gli viene chiesto perché questo articolo esiste nel codice, non vi sa dare risposta. Le tacche di contrassegno sono due pezzi di legno. Per secoli, nelle campagne italiane, dominava l’analfabetismo. Per provare somministrazioni (prestazioni periodiche) tra analfabeti, non si può fare una ricevuta. Allora si prende un tronco e lo si divide a metà. A quel punto quei due pezzi costituiranno un’unità solo una volta riaccostati. Un pezzo lo prende il somministratore e un altro il somministrato. Ogni volta che c’è la somministrazione i due pezzi di legno vengono accostati e si fa una tacca di contrassegno presente su tutt’e due i legni. È impossibile la frode. Questo è un mezzo estremamente efficace. Per secoli l’unico mezzo usato è stato questo; non altri. Il legislatore del 1942 si rende conto della situazione italiana di allora e prende in considerazione anche quello strumento. Questo non vuol dire che quell’articolo debba rimanere per sempre nel tempo. è una realtà storica, che subisce le vicende del tempo come tutte le realtà storiche. Il giurista può anche suggerire che questo articolo è diventato obsoleto. Illuminando la storia dell’art. 2713 abbiamo capito la sua ragion d’essere. Il tecnico del diritto è come se si trovasse dinnanzi a un singolo fotogramma, che potrà descrivere nel migliore dei modi. Ma non potrà mai dire altro, cioè sapere cosa accadrà, perché non ne conosce il passato, la storia.
Non basta studiare mnemonicamente tutti i dati. Si rischia di degenerare nel dogmatismo giuridico. Si prede la dimensione storica del diritto, che vede innaturalmente appiattito in un presente eterno. La fiducia cieca nel valore eterno della norma giuridica è dogmatismo. Questo è innaturale. La storia del diritto non deve servire a dare altre nozioni, ma deve servire a dare un vaccino contro il dogmatismo. Si deve studiare il diritto vigente, ma senza mai perdere la coscienza della sua dimensione storica. Ogni norma giuridica, per quanto importante, è destinata a cambiare. Questo perché cambia l’uomo, cambia la lingua, cambia la realtà sociale. È inutile pensare che l’unica cosa che non cambia sono le norme. Le norme sono funzionali alle esigenze degli uomini. Allora il compito della storia del diritto è sapere che la vicenda evolutiva non si conclude: qualsiasi norma, anche la più studiata, è destinata a cambiare e morire.

Alcuni concetti importanti: norma, istituzione, ordinamento
Norma. L’equivoco da sgombrare immediatamente è quello di fare una sovrapposizione tra norma e legge. La norma non è la legge. Siamo abituati da due secoli ad identificare in modo completo i due concetti. Questo è un errore. Per capire l’etimo di norma bisogna risalire ancora più indietro. Troviamo altre due parole: regola e canone. Queste tre espressioni sono omogenee. Si distinguono nella loro omogeneità dal concetto di legge. L’uomo ha cominciato nella civiltà occidentale a confrontarsi col fenomeno giuridico nella civiltà greca. La culla della civiltà è la Grecia. La prima parole da cui prendere le mosse è canone (). Letteralmente canone vuol dire canna, ossia l’arbusto naturale robusto e affusolato. I greci erano estremamente concreti. Se c’era bisogno di conoscere le dimensioni di un oggetto utilizzavano delle canne. La canna era un’unità di misura ideale e poi con essa si verificava se le misure reali corrispondevano con quella ideale della canna. Si passa dal concetto fisico di canna come arbusto al concetto di canna come unità di misura. La canna diventa uno strumento di misurazione della realtà. Il passaggio successivo è altrettanto evidente. La norma giuridica è una misura ideale. È una prescrizione astratta. Con essa verifico le fattispecie concrete. Il canone, come in natura misura le cose, nella scienza giuridica misura le vicende umane. Il canone normativo serve a valutare se ciò che è accaduto è conforme o meno al diritto. Questa parola (canone) diventa il fondamento di tutto il ramo del diritto canonico. L’altre due forme sono la conseguenza del passaggio di civiltà, da greco a romano. I latini si pongono lo stesso problema: come chiamiamo un principio giuridico? I romani fanno lo stesso percorso intellettuale dei greci. Usa la parola regola, in latino “regula”, cioè righello. Il righello è una piccola regula, una piccola riga, cioè una misura lineare. La parola norma svolge lo stesso percorso. Nella lingua italiana utilizziamo l’aggettivo “normale”, col significato non solo di “non stravagante o bizzarro”, ma anche con un significato tecnico. In geometria “normale” vuol dire “che formano un angolo retto”. L’idea di norma deriva da uno strumento quotidiano: la norma, cioè la squadra (strumento per disegnare). Ancora una volta si passa dal concetto di misura al concetto giuridico. In tutto questo nessuno ha parlato di un legislatore. Nessuno ha parlato di legge. Solo oggi si identifica la legge con la norma. In realtà la legge è un tipo di norma, una delle tante ipotesi di norma.
Istituzione. Siamo spesso portati a travisare questa idea in virtù dell’uso sbagliato di questa espressione. Spesso si sente parlare di istituzioni. Questo concetto sembra lontano; sembra descrivere solo organismi elefantiaci di poca utilità quotidiana. In realtà chi ha iniziato a parlare di istituzioni non aveva questo in mente. Santi Romano ha detto che “l’istituzione è ogni ente o corpo sociale ordinato a ottenere un fine comune”. Non si cono qualifiche di dimensione o importanza. Ogni ente sociale è un’istituzione, purché si riconosca nelle medesime finalità. Un’istituzione c’è anche con tre persone unite. Santi Romano dovette affrontare il problema per cui ci sono delle istituzioni che hanno il biasimo ma non per questo smettono di essere istituzioni (associazione a delinquere).
Ordinamento. Spesso si crede che l’ordinamento sia l’insieme delle leggi dello stato. L’ordinamento è la fusione concreta delle istituzioni e delle norme. Questi due termini nella realtà sono sempre unite. Solo nello studio sono separati. Nella realtà effettiva i due concetti funzionano in stretta osmosi. Non esiste norma senza istituzione e viceversa. Ancora una volta, tutto abbiamo tranne che la legge.
Da due ore gli studenti stanno ascoltando la lezione. Da due ore si sta osservando la norma del silenzio. Nessuno di noi, entrando, è andato a cercare un testo legislativo per sapere se questa norma esiste o meno. Nessuno s’è posto il dubbio se ci sia una legge che dica tutto questo, eppure il rispetto di questa norma è categorico. Si riconosce che questa è una norma. C’è un diritto che impone silenzio. Questa norma è vincolante. C’è una norma non contenuta nel testo legislativo ma che tutti riconoscono: una consuetudine. Questa consuetudine esiste perché esiste una istituzione finalisticamente orientata. Ecco l’utilità del concetto giuridico. Dal momento che queste due realtà (istituzione e norma) sono in stretto connubio, la presenza di questa norma non è astratta, ma serve a realizzare il fine. Al termine delle lezioni la consuetudine non avrà più senso. Separare l’istituzione e la norma è assurdo. Quando la norma non serve più, essa è stravolta dall’istituzione. L’ordinamento è il processo circolare tra istituzione e norma. I canonisti medievali avevano introdotto l’idea della lex non recepta, ovvero della legge non ricevuta. Il legislatore dispone con una prescrizione specifica un comportamento e nessuno lo applica. A essere diritto non è la legge non ricevuta ma ciò che veramente fanno i consociati. La lex non precepta è un corpo estraneo, non fa parte dell’ordinamento. Nei Promessi Sposi del Manzoni, le grida che il viceré di Milano fa contro i bravi è una lex non precepta, cioè una legge che viene continuamente (ogni anno) pronunciata perché continuamente non rispettata. Con questo Manzoni dice che la regola della Milano del ‘600 è quella del sopruso, del danno al più debole. Se devo studiare la Milano del ‘600 e conoscerne l’ordinamento, non posso pensare che siccome c’erano tante grida contro i bravi allora i bravi non esistevano. L’ordinamento viveva di una norma diversa: non le grida formali, ma una consuetudine diversa che cancellava l’effetto di quelle grida. La conoscenza storica del diritto deve permettere di percepire il fenomeno giuridico nella sua infinita ricchezza. Oggi, dopo i codici, tendiamo a cancellare ogni altra fonte normativa e a chiudere il nostro orizzonte nel concetto legislativo. In realtà il diritto è infinitamente più complesso e ricco della legge. Metà del mondo (quello di common law) non ha lo stesso nostro concetto di diritto. Per il sistema di common law il diritto non è la legge ma è la sentenza.

Medievale Ott 22
La storia deve avere per il giurista una funzione pedagogica. La storia è indispensabile al giurista, altrimenti si cadrebbe vittime di una visione distorta del fenomeno giuridico. E’ semplice per il giurista vedere il diritto come una struttura stabile, immobile. Ciò risponde ad esigenze di semplicità, certezza del diritto, comodità intellettuale. Però questa è una visione sbagliata. Il diritto necessariamente è una realtà mutevole, è flessibile. È soggetto a trasformarsi con l’uomo. Come è stato anche detto da alcuni ricercatori, come la lingua è espressione della civiltà ed è impossibile cristallizzare la lingua per sempre, la stessa cosa varrebbe per il diritto. Inevitabilmente bisogna rincorrere la realtà per aggiornare lingua (col dizionario) e diritto (con nuove leggi). Il diritto è calato nella storia. In quanto prodotto storico risente delle modificazioni della vita corrente. Il pericolo per il giurista è scadere nel dogmatismo, nel credere che il diritto si componga veramente in una serie di assoluti. In realtà il diritto non è questo. Un conto è crederlo per fictio iuris, un conto è cadere nella trappola di credere effettivamente che le regole che oggi utilizziamo siano le uniche e le migliori possibili. Questa è una prospettiva deformata, che impedisce di essere veramente giuristi, ma ad essere tecnici del diritto, cioè a subire passivamente il sistema giuridico, anziché conoscerlo concretamente. La storia ha questa funzione pedagogica. La storia insegna a vedere il diritto nella sua giusta dimensione storica, mutevole. Se questo è vero esistono anche alcune possibile deviazioni. La storia è stata piegata a legittimare il presente. La storia, anziché strumento critico, è stata utilizzata per dimostrare che il diritto è immutabile. Le strade sono due:
• Siccome alcuni istituti e concetti erano presenti anche nel passato e esistono anche oggi, questo vuol dire che quegli istituti sono eterni. Questa norma c’era prima, c’è anche oggi, quindi ci sarà anche un domani. Questo diventa una prova della bontà definitiva ed eterna di quel concetto giuridico. Si possono muovere delle obiezioni a questa idea: la storia non è una realtà oggettiva. Non esiste una storia obiettiva. Questo non vuol dire che nella storia non siano accaduti determinati eventi e che non sia acquisita l’esistenza di quegli eventi. Ciò che cambia è la ricostruzione intellettuale di quegli eventi. Una storia acquisita una volta per tutte non esiste. La storia dipende dagli storici. Può anche essere accaduto che in una certa data del passato si sia verificato un certo accadimento storico, ma storici di due scuole diverse daranno a quello stesso evento un significato completamente diversa. Per questo non si può dire che la conoscenza storica sia una realtà perfetta ed eterna. Gli storici fanno la storia. Il modo con in lo storico legge la storia crea la storia. La storia è prodotta dagli occhiali intellettuali dello storico. Uno storico di una età remota darà una lettura delle vicende storiche completamente diversa da quelle che potremmo dare noi oggi. Il tentativo di dire che siccome c’era prima e c’è anche oggi allora questa nozione giuridica è eterna e definitiva è sbagliato, perché del passato di volta in volta diamo letture diverse. Non esistendo una storia oggettiva, non si può dire che uno stesso istituto è esistito anche prima, perché la sua lettura dipende dal consenso degli storici. Ma c’è un’altra ragione. Cosa vuol dire “c’era anche prima”? Spesso di questi concetti, ritenuti eterni, rimangono solo gli involucri, le parole. Se prendiamo il concetto di “familia”, possiamo dire che la famiglia come concetto giuridico esisteva in età romana, esisteva in età medievale ed esiste ancora oggi. Ma da questo non possiamo ricavare che allora la famiglia è una costante della storia giuridica europea. Aldilà della parola “famiglia”, il contenuto è profondamente diverso. La famiglia romana si componeva di un’intera tribù. Era un aggregato che formato da centinaia di persone, non solamente tutti i parenti, ma anche gli schiavi facevano parte della famiglia. Quando in età medievale leggiamo in una fonte che una familia è stata coinvolta in una vicenda, dobbiamo pensare a centinaia di persone. Il concetto romano di famiglia è diverso dal nostro. Anche il concetto medievale di famiglia è differente. Esso aveva un significato legato molto all’economia. Le famiglie importanti erano quelle impegnate nel commercio, e ciò che contava era la spendita del nome della famiglia. Quando il mercante spendeva quel nome, chi contraeva con lui sapeva che aveva a che fare con una famiglia molto famosa. Nella realtà mercantile medievale il concetto di famiglia è indissolubilmente legato alla logica produttiva. Nel medioevo la famiglia è intesa come unità produttiva. Oggi per famiglia intendiamo solo pochi soggetti che compongono un nucleo familiare ristretto. È vero che la parola è rimasta, ma se non pretendessimo di dire che la stessa realtà giuridica è rimasta inalterata nei secoli, commetteremmo un colossale errore. La storia, in questo senso, non può essere legittimazione del presente, perché ogni vola bisogna andare a vedere all’interno dei concetti giuridici che cosa c’è, qual è il contenuto di questi concetti giuridici. La stessa impostazione vale per le norme. Per dire che un diritto è rimasto immutato non basta notare la durata di una norma sia per il passato che per il presente. Le norme romane sono arrivate intatte nel medioevo. È evidente che quelle norme pensate per Roma non avrebbero mai potuto funzionare nella realtà medievale. Allora i maestri medievali, non potendo toccare il testo, interpretano quel testo. I medievali danno dello stesso testo anche significati antitetici. Danno alle stesse parole un significato completamente diverso. Per questo non possiamo affermare che la vigenza della stessa norma in un passato lontano e nel presente indica l’eternità di quel diritto. La costituzione della repubblica italiana sta in piedi dal ’48 perché viene reinterpretata continuamente. Spesso il contenuto di una norma costituzionale viene letto in modo diverso. La semplice sopravvivenza delle parole di una legge non sta a dire che quella legge è rimasta immutata. Per questo vedere la storia come uno strumento di legittimazione del presente è palesemente una finzione. Ciò che rimane immutabile può essere il contorno, le parole, ma la sostanza cambia costantemente.
• Si vuole piegare la storia per legittimare il presente dicendo che la storia consiste in una scala progressiva e di crescita, e quindi, partendo da un’età remota di barbarie e di grettezza, progressivamente crescendo con l’apporto di tutti gli studi giuridici, possiamo ora affermare di essere arrivati all’apice dell’evoluzione. Il diritto che esiste oggi è quindi l’esempio della perfezione giuridica. Le obiezioni sono molte. Anche a voler ammettere la presenza di questa scala evolutiva, in realtà questa ricostruzione non fa altro che dire che noi siamo arrivati ad un determinato livello di questa crescita, ma non può negare che questa crescita è soggetta ad un’evoluzione successiva. Così come si è sviluppata fino ad oggi, è ragionevole pensare che debba continuare il suo progresso anche dopo di noi. Da questo consegue che noi non siamo altro che un gradino di questa scala. Dopo di noi ci sarà qualcuno posto a un livello più alto, e noi non saremo altro che un gradino di questa scala. Non possiamo considerare il nostro diritto definitivo. Il nostro diritto sarà superato, sovvertito da altre regole giuridiche. Anche a voler ammettere questa crescita, noi non siamo che un tassello di questa evoluzione. L’idea stessa che ci sia questa evoluzione non è accettabile. In fondo, se fosse così, dovremmo presumere che la nostra idea evolutiva di diritto debba essere la migliore possibile. Se vogliamo dire che il nostro diritto è il migliore possibile, allora solo la crescita intellettuale che ha portato al nostro diritto è corretta. Anche a voler trascurare esperienze giuridiche minori, basta semplicemente prendere atto che metà del mondo (common law)non usa il nostro sistema giuridico (civil law). Tutto il sistema anglosassone usa un criterio concettuale incompatibile col nostro. Il sistema anglosassone non usa codici. Dal momento che metà del mondo segue un sistema e l’altra parte ne segue un altro i due grandi sistemi hanno pari dignità. Nessun appartenente all’area del common law ha la necessità di unirsi all’area di civil law. Questa crescita non può far credere che il nostro sistema sia l’esempio della perfezione. È semplicemente uno dei sistemi. Lo stesso sistema giuridico è soggetto a tutti i cambiamenti della storia. Utilizzare la storia come strumento di legittimazione del presente non funziona.
Se la storia non ha questa finalità, quale può essere l’utilità dello studio dell’esperienza storia del passato? In realtà non dobbiamo cercare la continuità nelle norme, negli istituti. Se tutto consistesse nello sforzarsi per padroneggiare delle norme di codice, sarebbe uno sforzo vano, perché qualora cambiasse il codice tutto quello che è stato fatto è stato inutile. La formazione di giurista non serve per imparare norme, ma per ragionare da giuristi. Quello che possiamo cercare e trovare nella storia non è una continuità do norme, ma di griglie di lettura, utensili intellettuali. Quello che non cambia nel corso di secoli è il modo dei giuristi di ragionare. Sono gli strumenti intellettuali che non cambiano. Un giurista del medioevo e un giurista di oggi, aldilà delle regole che applicano, si capirebbero perfettamente perché una volta che il giurista del passato avesse imparato il diritto di oggi, sarebbe in grado di fare il giurista oggi. La sua formazione intellettuale andava bene allora e va bene anche oggi. Un giurista abituato a trattare i testi romani aveva una serie di macchine mentali estremamente raffinate. Quello che non tramonta nel corso dei secoli è il modo di ragionare dei giuristi. Oggi noi possiamo legge un’orazione di Cicerone ed apprezzarne il ragionamento giuridico. Ciò non significa che applichiamo le stesse norme, ma possiamo ripercorrere la sua strategia intellettuale. Quella sì che è fondamentale oggi, perché quel percorso intellettuale può servire ancora oggi. I meccanismi intellettuali non cambiano. Sono stabili. I giuristi hanno un modo di pensare radicato da generazione in generazione. Oggi il giurista si presenta sul mondo del lavoro senza avere neanche la formazione elementare di quali siano i ragionamenti, le macchine elementari che dovrà porre in essere per fare il giurista. Nel medioevo i giuristi prima studiavano il sillogismo e poi utilizzavano questa loro formazione per fare i giuristi. Il compito del giurista è saper far funzionare le proprie conoscenze, cioè capire come ragionavano i giuristi del passato. Alcune idee sono così importanti che anche la teologia si è basata su principi giuridici (es: il “giudizio universale”, cioè un processo). Un mondo come quello della teologia ha fatto ricorso a una categoria del diritto. Le regole che disciplinano il processo possono cambiare, ma il concetto di processo è lo stesso in tutte le epoche.
Per riassumere: il diritto ha natura dinamica. I secoli passati sono un insegnamento soprattutto attraverso l’apprendimento del modo di pensare dei giuristi del passato, conoscendo i meccanismi mentali di quei giuristi.
Il corso è storia del diritto medievale in Europa. Chiarifichiamo il concetto di medioevo. Ma prima di questo accentriamo l’attenzione sul fatto che l’operazione di periodizzazione è palesemente una finzione. Questi paletti cronologici sono frutto di una convezione. Sono niente altro che il tentativo da parte degli storici di rendere più comprensibile una realtà del passato che, senza un nome, rimarrebbe vaga, indefinibile. Gli storici danno dei nomi per conoscere e distinguere le epoche del passato. Questo chiarimento è solamente fittizio. Le date fornite, i limiti sono convenzionali. Nulla dice che non se ne possano scegliere altre. Per render chiaro tutto questo è evidente che per esempio uno storico del futuro che volesse conoscere la nostra epoca probabilmente si troverebbe di fronte all’evidenza che in questo periodo c’è stato un cambiamento radicale nella storia. Probabilmente chiamerà l’età che sta per iniziare come età informatica. Questa sarà una differenza determinante per gli uomini del futuro. Per esigenza di chiarezza storica gli storici del futuro si accorderanno nel trovare una data. Compito della storia è quello di dare chiarezza. Per semplicità troverà una data in cui è iniziata l’età precedente ed è iniziata l’età informatica. Ma se qualcuno chiedesse a noi di dire in che giorno è iniziata l’età informatica, nessuno di noi potrebbe rispondere precisamente. Per noi è stato un passaggio fluido. I confini cronologici sono puramente fittizi. La storia non conosce salti bruschi. Anche nelle ipotesi di rivoluzione, c’è sempre un processo precedente che porta alla crisi. Per noi un momento decisivo non c’è. Lo storico potrebbe scegliere di fissare la data dell’apparizione del primo programma di Windows. È una scelta, forse importante, ma nessuno oggi saprebbe dire qual è quella data. Per noi non è stata decisiva quella data. Per il futuro sarà probabilmente decisiva. Con questo spirito dobbiamo pensare alla periodizzazione seguente.
Detto questo, cerchiamo di capire cosa è il medioevo. Perché parliamo di medioevo? A un certo punto della storia a qualcuno viene in mente che i secoli precedenti sono un colossale errore. In questo punto della storia abbiamo l’umanesimo, un età in cui i filosofi ritengono che tutto ciò che di significativo è stato prodotto dalla civiltà umana va assolutamente ricercato nell’età classica (antichità latina e greca). Dopo, abbandonati quei modelli, non è successo nulla di positivo nella storia, degno di memoria. Noi ora umanisti abbiamo di nuovo capito che tutto era nella civiltà classica antica e per primi l’abbiamo riscoperta. Allora, dicono gli umanisti, tutto quello che c’è stato prima non deve essere definito con un termine positivo (che descrive un carattere importante). Allora hanno indicato quel periodo come età di mezzo, età che sta in mezzo tra la civiltà classica e l’età dell’umanesimo. Per gli umanisti il medioevo era solo un grande intervallo della storia. Questo termine è stato poi preso da tutte le lingue (mittel alter, moyen age, middle age). Tutte le tradizioni culturali hanno tradotto l’espressione medioevo. Per tutti è rimasto così anche se il giudizio dato di quei secoli dopo gli umanisti non è rimasto sempre uguale. Anzi, nell’Ottocento, nel romanticismo, i secoli che gli umanisti hanno definito del medioevo sono stati rivalutati perché lì s’è vista la base per la nascita dell’Europa. Nonostante questo il nome non è stato mai cambiato. Non parliamo più di medioevo in termini negativi, ma per mera convenzione storiografica. Qual è il medioevo? Quali secoli sono compresi in questo quadro? C’è una data convenzionale d’inizio (476) e di fine (1492). Le date che servono a fissare l’inizio e la fine di un periodo storico sono generalmente puramente convenzionali. Una data convenzionale è il 476. Formalmente nel 476 c’è la caduta dell’Impero Romano d’Occidente. Ma in fin dei conti accadde semplicemente che le truppe di un generale barbarico arrivarono in un palazzo dell’aristocrazia e uccisero una famiglia, e il figlio, nominato imperatore, fu rimosso dal titolo imperiale. Fu mandato al confino e non se ne seppe più nulla. Fatto sta che gli uomini del 476 di tutte queste vicende non seppero quasi nulla. Ormai erano molti decenni che l’impero di Roma era soggetto costantemente a congiure di palazzo, uccisioni di imperatori, liti costanti di imperatori barbarici. Il dissesto dell’impero faceva parte correntemente della vita quotidiana. Gli uomini non si stupivano più se un generale barbarico uccidesse l’imperatore per nominarsi tale. Di così straordinario accadde che Odoacre, re degli Eruli, invece di deporre Romolo Augustolo per proclamarsi lui imperatore, decide che queste insegne imperiali è il momento di rispedirle all’imperatore d’Oriente. L’impero romano, diviso in due blocchi, aveva due imperatori. Se veniva a mancarne uno dei due, le insegne imperiali dovevano essere riunite nell’unica sede superstite. Ma che gli uomini del 476 avessero capito che questo volesse dire la fine dell’impero romano d’occidente è molto difficile. Avevano problemi ben più immediati e importanti. Per loro, la data per noi sibolica del 476, non ebbe un risvolto decisivo. Fu una data vissuta senza trepidazioni. Noi sappiamo che da quella data in poi non ci furono imperatori dell’impero romano d’occidente. C’è chi ha detto che esistono altre date simboliche molto importanti. Nel 380 s’era verificato qualcosa che ebbe un’incisività notevole nella vita quotidiana e una portata considerevole sulle vicende dei secoli successivi. Nel 380 l’imperatore Teodosio, con l’editto di Tessalonica, impose il cristianesimo come religione di stato. Se il 476 fu una data che non ebbe riscontro effettivo per gli uomini dell’epoca, il 380 fu una data di immediata evidenza per tutti. era un ordine diretto a tutti i sudditi dell’impero a cui non era possibile esimersi dall’obbedienza. È una modifica che per la realtà romana, politeista, è stata veramente traumatica. C’erano dei culti che duravano da secoli. Nel palazzo del senato esisteva la statua della dea Vittoria, e i senatori erano i suoi sacerdoti. Quelli si identificavano con quel culto. I senatori perdono una delle ragioni della loro esistenza. E fanno resistenza a questa modifica dell’imperatore. L’imperatore li fa uccidere tutti. L’anno 380 fu veramente importante per i sudditi dell’impero. Oltretutto l’età successiva è un’età decisamente cristiana. Il 380 apre la strada al medioevo cristiano. C’è anche un’altra data importante: il 410. In quell’anno accade una vicenda che ha un’importanza fondamentale nella vita quotidiana e che soprattutto i romani non si aspettavano che accadesse. Qualche anno prima sono arrivati fragorosamente nell’impero i barbari. Questi barbari, rotto il limes, vincono le legioni di Roma. Ad Adrianopoli, nel 378, invece di essere annientati, sconfiggono l’esercito di Roma. Da allora in poi non li ferma più nessuno. Iniziano a fare razzia dei territori dell’impero romano fino a quando i Visigoti, condotti da Alarico, assediano e saccheggiano Roma. Questa era una vicenda che i romani non si aspettavano di vedere. I romani si scoprono deboli, così fragili da capire di essere incapaci di difendere persino la capitale, la culla dell’impero. Roma, dall’età della monarchia, non aveva mai avuto una cerchia di mura. L’unica cerchia di mura costruite intorno a Roma erano dell’antichissima età monarchica. Da allora Roma non aveva mai edificato una cinta di mura. Solo quando Roma sentì il pericolo dato dai barbari costruì le famose mura aureliane. Nonostante fossero fatte bene, i barbari riuscirono a farsi beffe di questa difesa ma la occuparono e saccheggiarono. I barbari non avevano esigenza strategica; volevano solo saccheggiare. I visigoti, razziata Roma, vanno via. Roma si scopre indifesa. Il 410 è una data più che decisiva: Roma si sente in balia dei barbari. Esistono quindi date molto più importanti del 476, ma, bene o male, intorno al V secolo si può fissare l’inizio del medioevo. Se il 476 è una data simbolica, lo è ancor di più la data che segna la fine del medioevo, il 1492. In quest’anno Colombo ha scoperto l’America. Ma che Colombo avesse scoperto l’America non lo sa neanche lui, e in Europa non succede quasi niente. Solo per sapere che Colombo non è morto in mare, l’Europa lo viene a sapere nel 1493. Prima di capire che in realtà Colombo non aveva “buscato il levante per il ponente”, ma ha trovato delle terre nuove, passeranno ancora decenni. Quindi questa data del 1492 è utile per noi, perché sappiamo quale rilievo ha avuto l’America poi per i destini del mondo. In realtà, per gli uomini dell’epoca, nel 1492 non accadde nulla. Anche in questo caso gli storici hanno suggerito l’utilizzo di altre date importanti. Per esempio, nel 1460 ca., accadde che un artigiano, in una bottega tedesca, stila il primo foglio di stampa a caratteri mobili. È la prima stampa della Bibbia da parte di Gutemberg. Questa data è assai decisiva: l’invenzione della stampa fu un cambio veramente radicale. Tutta la cultura dell’età medievale era una cultura trasmessa attraverso i manoscritti. C’era un amanuense che dedicava anni della sua vita a trasportare un testo da un esemplare a un altro. Visto che dedica così tanto tempo, questo lavoro non può andare smarrito. Il materiale su cui deve essere trasmessa questa laboriosa attività dell’amanuense deve essere resistente. Il foglio su cui scrive l’amanuense è pergamena, cioè pelle di animale trattata. È così resistente, che noi oggi possiamo leggere i testi scritti nel 1200. Il materiale era costosissima e l’attività altrettanto. L’opera era riservata a pochissimi. Solo chi aveva grandi mezzi economici poteva permettersi l’accesso alla cultura. Per tutto il medioevo la riproduzione dei testi è stato appannaggio di pochissime persone o di pochissime istituzioni. Per fare il maestro di diritto nel medioevo occorreva dimostrare di avere i testi. Senza il matrimonio ereditato di testi non si sarebbe mai stati scelti come maestri di diritto. Un manoscritto costava come una casa. Possedere una biblioteca di 10 manoscritti era un patrimonio sconfinato. Se questa è stata tutta l’impostazione dei secoli del medioevo, considerate quale novità nel 1460 rappresenta la stampa. La stampa è molto più economica. Con facilità si possono riprodurre infinite copie dello stesso testo. Se si possono riprodurre tante copie velocemente non serve più la pergamena; mi basta un materiale come la carta. Si può avere un’infinita quantità di testi a prezzi bassi. Quelli che prima non potevano avere accesso alla cultura ora lo possono avere. La cultura diventa diffusa, non più prerogativa di pochi ma possibile a tutti. Se considerate che sia qualcosa di secondario tenete conto che nel 1517 Martin Lutero affigge le sue tesi sulla porta di Wittemberg e può fare il suo movimento di riforma religiosa perché dirà che il cristiano deve leggere per suo conto la Bibbia. Se non fosse stata inventata la stampa, non sarebbe stato possibile ai cristiani possedere il testo della Bibbia da leggere. La novità della stampa consente a tutti di avere a casa il testo della Bibbia. C’è anche un’altra data importante: il 1453. In quest’anno cade l’impero romano d’oriente. Cade per mano dei turchi. Gli uomini del medioevo considerano quest’evento bellico molto importante. Fin dal momento della sua nascita l’Islam dilaga in tutta l’Asia, l’Africa e lambisce l’Europa per due strade, occidente e oriente. In occidente accade che nel 711 le truppe arabe varcano lo stretto di Gibilterra. Conquistano senza difficoltà la Spagna e superano i Pirenei, cioè arrivano in Francia. Nel 731 Carlo Martello li ferma a Poitiers. È una data fatidica: quella battaglia porta la salvezza religiosa dell’Europa cristiana. Se i musulmani avessero vinto probabilmente avrebbero dilagato in tutta l’Europa. Da allora in poi le Chansons des Gestes si costruiscono su quesa vicenda (il mito di Orlando, la rotta di Roncisvalle). Da allora in poi gli arabi non cercheranno più di riconquistare l’Europa dal quella parte, e nel corso dei secoli ci sarà la c.d. reconquista, cioè la progressiva riconquista della penisola iberica. L’ultimo califfato cadrà proprio nel 1492. In oriente la difesa era stata garantita per secoli, nell’indifferenza generale, da Costantinopoli. Costantinopoli non era mai caduta, anche se ne aveva subite tante (deviazione della IV crociata). Possiamo leggere quello che dice l’ambasciatore veneziano: “Oltre alla difesa con valore per tre giorni la città fu preda dei nemici saccheggiatori, sino a che questi, stanchi di accumulare ricchezze, la abbandonarono nella mano del sovrano turco, e tutti i cristiani, sessantamila circa, legati con le funi, vennero presi prigionieri. Ogni ricchezza e preda vennero trasportate alla tende; le croci strappate dalle cupole o dalle pareti delle chiese, furono calpestate in segno di supremo dileggio. Vennero violentate le donne, deplorate le fanciulle, oltraggiati turpemente i giovinetti, contaminate con atti di lussuria le monache e quelle che le servirono. Gettarono a terra le sacre icone di Dio e dei santi e su di esse compirono non solo orge, ma anche atti li lussuria. Poi portarono in giro per gli accampamenti il crocifisso e schernendolo gridavano ”. Tutto questo accadde. Non è una conquista militare. Una civiltà diversa ne conquista un’altra. La gravità di tutto ciò è nella lettera scritta dall’ambasciatore al Papa: “Noi abbiamo raggiunto in vario modo la sicurezza che il turco, proprio quello che perseguita la croce, appena passato il 28 maggio, dopo una cruenta battaglia, ha conquistato completamente la città di Pera, ha passato a fil di spada tutti i cristiani da sei anni in su e il giorno successivo il 29 si è impadronito del porto di Costantinopoli servendosi per terra e per mare di ogni tipo di strumento di guerra. Ha conquistato la stessa città e infine l’ha ridotta allo stremo dopo una battaglia eccezionale. Allo stesso modo ha perpetrato anche qui una strage di tutti i cristiani presenti dai sei anni in su con indicibile crudeltà. Un tal fatto, che sfugge alla nostra comprensione, clementissimo Padre, è da considerarsi straordinariamente importante e grave. Esso infatti riguarda la condizione e la sopravvivenza di tutta la cristianità e noi siamo più che certi che la Vostra Santità intenderà tutto ciò meglio di quanto non sia possibile a noi”. Siccome per secoli era stata data per scontata la presenza di Costantinopoli, non era mai stata costruita una linea di resistenza che proteggesse l’Europa. Una volta caduta Costantinopoli, non c’è nessuna difesa per l’Europa. Il turco arriva in qualche anno ad assediare Vienna, il cuore dell’Europa. Il turco pone severamente a repentaglio la sopravvivenza della cultura cristiana occidentale. Tant’è vero che qualche decennio dopo la sopravvivenza sarà garantita dal fatto che tutti i cristiani combattono uniti in una flotta contro la flotta turca a Lepanto nel 1571 e vincono. La conquista del Mediterraneo era fondamentale. Chi avesse vinto poteva esser certo di controllare l’Europa. Quella data è un sollievo dopo il trauma del 1453. Ecco che quindi date simboliche per ricostruire la storia del Medioevo ce ne sono anche altre. Anche in questo caso possiamo ritenere che negli ultimi anni del XV secolo si registri veramente il passaggio dal medioevo all’età moderna.
Il medioevo copre ben dieci secoli di storia. Un periodo molto vasto. Non è di utilità dire medioevo, perché l’uomo che esce dalla crisi di Roma non è l’uomo che vede le caratteristiche del ‘300 in un comune italiano. È ancora troppo generico il concetto di medioevo. Per comodità la storiografia ha diviso tra Alto e Basso medioevo. Effettivamente possiamo dire che in una prima fase si registra una maggiore difficoltà culturale, letteraria, scientifica, artistica. Ci sono dei secoli iniziali in cui il medioevo è caratterizzato da una maggiore arretratezza. C’è poi una seconda fase, il baso medioevo, in cui gli uomini superano l’iniziale difficoltà e sembrano produrre dei frutti di prima grandezza. In questo modo posso indicare con maggiore precisione l’età che mi interessa. Ma dove è il passaggio tra l’alto e il basso medioevo? Nell’Ottocento la storiografia romantica aveva voluto fissare in quel caso una data simbolica: l’anno 1000. La storiografia dell’Ottocento aveva immaginato che gli uomini del 999 attendessero con trepidazione l’arrivo dell’anno mille. Nell’Ottocento si credeva a questa ricostruzione. Ma non esistono fonti che documentino che gli uomini dell’epoca temessero di questo fatto. C’è una considerazione in più che scaccia l’idea di un timore dell’anno mille. L’anno mille non scoccò nello stesso momento in tutta l’Europa. La data è una pura convenzione. Che oggi sia il ventidue di ottobre del 2007 è convenzionale. È frutto di un accordo intervenuto solo negli ultimi secoli. Oggi non è la stessa data per tutti. Il giorno del cambio di data è differente da popolo a popolo. Nel medioevo non si era ancora minimamente registrato quell’accordo che porta ad indicare una stessa data per tutti gli uomini su tutto il suolo europeo. Nel medioevo non c’era accordo nemmeno su quale fosse la data da cui iniziare a contare. Secondo alcuni era la data della nascita di Cristo, secondo alcuni la data della morte di Cristo. Anche i conti non erano per tutti gli stessi. C’erano dei salti di 3-4 anni. Per giunta la data che segna il passaggio da un anno all’altro, non era minimamente lo stesso per tutti. Oggi lo fissiamo al 31 dicembre. Nel medioevo alcuni fissavano la data del passaggio di anno al 25 dicembre, altri al giorno di Pasqua, altri al giorno del patrono della propria città. Ogni collettività aveva una data diversa da quella dei vicini. Non ci fu la paura dell’anno 1000 perché esso arrivò in momenti diversi nel tempo. Non l’anno mille, ma l’XI secolo segnò un passaggio importante dall’alto al basso medioevo, ma non fu repentino. Accadde che nell’XI secolo una serie di trasformazioni tecnologiche, culturali, filosofiche portarono gli uomini ad affrontare diversamente il rapporto con la vita. Un cambio, se va ravvisato, avviene nel XI secolo. La descrizione della situazione, però, è ancora troppo brusca. Sembra come se ci fosse un alto medioevo di degrado e scarsa civiltà, poi un gradino nella storia, e dunque un basso medioevo di grande civiltà. Questo genere di ricostruzione è un po’ troppo semplicistico per poter essere credibile. È irragionevole che esistano questi salti così improvvisi nella storia e poi che si abbia sempre un basso medioevo di grande fioritura. Gli storici tedeschi hanno proposto una lettura di questo periodo più dinamica e aderente alla realtà: non tanto per blocchi, ma per archi temporali. Il medioevo nasce dalla fine dell’impero romano (anch’esso un arco discendente). Si parte dalle ceneri, da un’età di decadenza. Ci vorranno secoli perché si arrivi ad avere un medioevo in grado di esprimere al meglio le sue realizzazioni. Superate le fasi iniziali, si può pensare a una fase centrale di pieno sviluppo. Avremo la fase in cui il medioevo darà il meglio di sé. Il medioevo esprimerà nei secoli centrali il massimo sviluppo. Poi, come tutte le epoche storiche, il medioevo subirà il suo tracollo. Gradualmente la crisi, il tramonto, la crisi e il declino. Se fosse sempre al livello della sua fioritura non avrebbe senso parlare di una nuova età moderna.
Il medioevo nasce dalla morte dell’Impero romano. Per essere sicuri di non perdere niente, tracciamo le ultime vicende dell’impero romano. Roma è passata dal principato al dominato. È cambiato il concetto della maiestas imperiale. Nell’età del principato ciò che contava era la dignità del princeps. Gli imperatori romani di questa prima fase non hanno un potere diverso da quello delle altre magistrature. L’imperatore era solo il primo tra gli altri. In una prima fase tutti conservano il proprio potere e l’imperatore è semplicemente dotato di una dignità particolare. Questa fase tende gradualmente a tramontare e ad essere sostituita dalla nuova concezione, quella del dominato. L’imperatore non è princeps, ma è dominus, cioè padrone. Tutto questo si ha con l’età di Diocleziano. L’impero di Roma è andato sempre più spesso a scontrarsi con poteri orientali. In oriente Roma ha incontrato un tipo di governo diverso, i satrapi persiani. Essi sono portatori di una concezione del potere del tutto diversa da quella romana. Non è necessaria un’abilità particolare (condottiero, statista): il satrapo ha il potere perché è satrapo. Il satrapo ha potere assoluto. Questa concezione, gradualmente, permea anche il concetto romano di impero. Mentre per essere inizialmente imperatori occorreva avere la dignitas, una dignità per cui si veniva riconosciuti, poi la maiestas verrà riconosciuta e assegnata solo formalmente. Non ci sarà più un giudizio sull’opportunità che un personaggio sia o meno imperatore: se è rivestito dei titoli dell’imperatore è imperatore. Sempre di più si va a identificare il potere imperiale con i simboli esteriori che lo raffigurano. Non è più la persona ad essere importante; sono i simboli che individuano l’imperatore. Tra questi simboli c’è il colore: la porpora. Siccome nell’antichità il colore rosso era costosissimo, solo coloro che avevano grandi ricchezze si potevano permettere il colore rosso. Allora, per definizione si identifica il colore rosso col potere imperiale. Chi porta il mantello di porpora è l’imperatore. Anche l’anello è segno del potere che vediamo in ambito ecclesiastico (bacio dell’anello), ma che nasce a Roma. La proskynesis, ovvero la prosternazione di fronte all’imperatore. L’imperatore diventa sempre più un simbolo, e dinnanzi a lui bisogna prostrarsi. Nel principato questo non sarebbe mai accaduto. Adesso invece l’imperatore dominus diventa anche divus, cioè dio in terra. Non viene solo divinizzato dopo la morte, ma anche durante la vita vengono considerati divinità. Ecco perché le statue dell’imperatore debbono essere venerate. In questa fase nasce il crimen lesae maiestatis, il crimine di lesa maestà. Esso si ha non solo con l’offesa fisica all’imperatore, ma che danneggiare una statua imperiale, non venerare una statua dell’imperatore. La non venerazione della statua dell’imperatore viene considerata insubordinazione politica, diventa un crimine penale, qualcosa che compromette l’assetto pubblico. In questa fase il potere imperiale ha avuto una deriva verso il dominato di grande importanza. L’imperatore è sempre più assoluto. L’assolutismo è la capacità di essere legibus solutus da parte del principe. Il diritto che vale per tutti non vale per l’imperatore. Egli è l’unico soggetto dell’ordinamento non assoggettato al diritto. E’ libero dal rispetto del diritto. Siccome la crescita dei poteri dell’imperatore è arrivata alla sua pienezza, non c’è nessun potere dello stato che gli possa essere estraneo, compreso il potere normativo. L’imperatore è l’unico artefice del diritto. La sua è una plenitudo potestatis, una pienezza del potere. Il diritto è completamente sotto il controllo dell’imperatore. I giuristi indicano tutto questo dicendo che l’imperatore è la lex animata in terris, cioè la legge animata sulla terra. L’imperatore è legge vivente. Il verbum principis è lex. Le parole dell’imperatore sono legge: quod principi plaquit, legis habet vigorem. Se questo è vero che senso avrebbe sottoporre il principe all’obbedienza della legge? Se è vero che può fare qualsiasi legge, non ha senso dire che la legge fatta dall’imperatore vale anche per l’imperatore. La sua onnipotenza gli permetterebbe di stabilire una legge che gli permette di astenersi dal farlo. Non ha senso dire che l’imperatore è soggetto alla legge; può sempre eluderla. Le leggi valgono per tutti tranne che per l’imperatore. Ecco che abbiamo la nuova fase del dominato. Ci troviamo però di fronte a una situazione nuova. I primi imperatori non avevano abolito il sistema romano. Esistevano tutte le magistrature. Esisteva anche la giurisprudenza romana, ossia i giuristi di Roma. Ciò che caratterizza il successo del diritto di Roma è la classe dei giuristi. Dal I al III sec. d.C. c’è una categoria di persone in Roma che contribuiscono con la loro capacità scientifica a elaborare un diritto raffinatissimo. Ciò che identifica la civiltà romana come la migliore è la riflessione della scienza giuridica sulle fonti. Sono i giuristi che creano il diritto di Roma. Ma come avevano fatto a fare questa operazione? I giuristi venivano interrogati. Le parti si rivolgevano ai giuristi per avere la lettura giuridicamente più equa del diritto nel caso particolare. I giuristi romani partono sempre dal caso concreto (impostazione casistica). Ci sono delle parti che si rivolgono al giurista. Ed egli dice la sua. Dà la soluzione. Questa è l’attività del rispondere (ius respondendi). Quando l’impero arriva al dominato ha ormai troncato tutte le espressioni della vecchia repubblica. Non esistono l’autonomia, del pretore, del senato, dei consoli. I poteri di quelle istituzioni sono tramontate. Ormai queste fonti hanno smesso di produrre diritto. gli unici superstiti sono i giuristi. Quello che fa più preoccupazione a un imperatore dominus è quella libertà di coscienza del giurista. Se il giurista ha come unico obiettivo quello di dare il giudizio più equo in quella fattispecie, non è detto che questo sia conforme al volere dell’imperatore. Nonostante la plenitudo potestatis, la classe dei giuristi è pericolosamente libera di esprimere giudizi e decisioni. Non è ammissibile per l’imperatore che una fonte del diritto conservi questo grado di libertà e autonomia. Ecco che questo ius respondendi, prima libero, viene irreggimentato. Si passa allo ius respondendi auctoritate principis. Non tutti i giuristi possono rispondere, ma solo quelli autorizzati dal principe. Tutto questo progredirà fino ad arrivare nel 426 in quella che è la legge delle citazioni. L’imperatore Teodosio II impone che di tutti i giuristi del passato ne vengano citati solo cinque. Dal 426 in poi si possono citare sono cinque giuristi (Ulpiano, Papiniano, Paolo, Gaio, Modestino). In questa legge delle citazioni c’è un’altra menzione, segno di crisi. L’imperatore dice che è permesso citare i testi di altri giuristi citati da questi cinque, purché se ne alleghino i testi originali. Ormai l’imperatore deve riconoscere che la situazione dell’impero è così allo sbando che non esistono più tribunali, biblioteche dove siano ancora conservate le opere della giurisprudenza classica. Se cito a memoria la fonte di un altro giurista, devo dimostrare, portando il testo in tribunale, che la mia memoria sia corretta. Nessuno può controllare che quello che sto dicendo sia vero o no. Un impero, dove per tre secoli si sono sviluppati una montagna di testi di giurisprudenza classica, non può più garantire la conoscenza di quei testi.

Medievale Ott 23
La crisi dell’impero romano. Il dissesto delle istituzioni. Le conseguenze di ciò sul mondo del diritto. Gli ultimi imperatori, quelli del dominato, hanno una considerazione della loro potestà normativa infinitamente superiore a quanto avessero gli imperatori del passato. Da questo consegue la totalità dei poteri. Da essa discende l’ostilità per una giurisprudenza in grado di rispondere liberamente alle richieste di chiarimenti giuridici, e quindi l’intervento imperiale nel tentativo di restringere questa libertà della giurisprudenza. Dal I al III sec. d.C. l’elemento di vera forza del diritto di Roma è rappresentato dalla giurisprudenza. L’aspetto tipico della giurisprudenza di Roma è il suo approccio casistico: partire dal caso per arrivare al diritto. Non si fa il percorso inverso (il nostro), cioè partire dal postulato teorico e inserire la fattispecie reale in esso. Leggiamo un frammento dell’opera di Papiniano: “Fra il debitore e il creditore si era convenuto che il creditore non si assumesse l’onere del tributo del fondo ipotecato ma che spettasse al debitore la necessità di un tale adempimento”. Narra la vicenda che gli è stata sottoposta. Le parti chiedono al giurista qual è il diritto giusto per il caso in questione. Gli hanno prospettato il caso particolare. Quello che si attendono dal giurista è una risposta in termini di equità. Prosegue Papiniano dicendo: “Ho risposto che una tale convenzione non va osservata relativamente alle ragioni del fisco. Infatti non è parso bene che le disposizioni di diritto fiscale siano sovvertite tramite patti dei privati”. Le parti si sono fidate delle capacità giuridiche di un giurista. Non stiamo parlando di un magistrato o di una figura istituzionale dell’impero. Il giurista ha risposto, usando lo ius respondendi. Le parti chiedono al giurista e il giurista dà la risposta che liberamente crede di dover dare. Il giurista risponde in termini di giustizia, di equità. Per i giuristi romani il diritto è ars boni et aequi, non dell’imposizione o dell’obbligo. Il giurista, in questa sua attività, cerca di dare la soluzione più opportuna, più equa. Se questo è il quadro (una giurisprudenza libera) l’imperatore non può tollerare la presenza di una simile giurisprudenza dotata di libertà. E allora aggiunge lo ius respondendi audtoritate principis. Solo quelli legittimati a farlo possono continuare a fare i giuristi. Finché si arriva alla legge delle citazioni. Stiamo nel 426. La situazione è di vera crisi per l’impero. L’imperatore Teodosio II ritiene di dare una soluzione a questo problema delle citazioni attraverso la scelta autoritativa di cinque giuristi (Papiniano, Paolo, Ulpiano, Gaio, Modestino). Tutto il diritto di Roma, per quanto riguarda la giurisprudenza, deve essere ravvisato solo nelle opere di questi cinque giuristi. Alla fine della legge c’è una postilla: “Oppure anche di altri giuristi purché siano citati da quei cinque, purché se ne alleghino i testi originali”. Oggi vige il principio iura novit curia. Quando si va dinnanzi al tribunale non si deve dimostrare l’esistenza dei testi normativi citati. La curia conosce il diritto. Basta che si indica l’estremo normativo: sarà compito del tribunale verificare l’esistenza di quel testo normativo. Dal momento che in questa fase, nell’impero di Roma, è tutto allo sbando, il giudice non può più fare questo tipo di controllo che prima invece effettuava normalmente. Dal momento che i barbari hanno prodotto tante distruzioni che ormai non si trovano più i testi della giurisprudenza classica, l’imperatore dice che è pericoloso per il tribunale fidarsi della memoria dell’avvocato. Nessuno più può verificare l’attendibilità del ricordo giurisprudenziale dell’avvocato. Farlo sarebbe troppo pericoloso: il rischio delle frodi sarebbe alto. Lo stato del diritto di Roma è impressionante: ormai quasi tutto è scomparso. La giurisprudenza di Roma consisteva in molti libri prodotti in secoli di scienza giuridica. Sono bastati pochi decenni di invasioni barbariche per ridurre quasi alla scomparsa definitiva di tutta quella scienza. Una volta che sono andati persi quei libri, quella scienza non ha più la possibilità di trasmettersi alle generazioni successive. In questa situazione gli uomini dell’epoca sono costretti a ricorrere a strategie di sopravvivenza. Ciò che caratterizzava il diritto di Roma erano queste opinioni della giurisprudenza classica, delle iura. Come fanno gli uomini dell’epoca a vivere senza iura? Ci sono le leggi imperiali ma non bastano. Occorre sempre il riferimento agli iura. Ma se queste opere antiche sono tante e inaccessibili, gli uomini cosa possono fare? Alcuni maestri di diritto, ancora dotati di una qualche formazione giuridica, cercano di salvare il salvabile. Si arriva a quella fase chiamata del diritto romano volgare, cioè diritto romano del volgo, del popolo, della quotidianità. Non più il diritto romano classico aulico, antico. Quello è un sogno. Quello che si può fare è cercare di provvedere ad un diritto per la vita di tutti i giorni. Questi giuristi prendono i frammenti dalle opere della giurisprudenza classica è costruiscono dei piccoli riassunti, delle sintesi, delle epitomi di quello che occorre sapere del diritto. Per esempio, c’è un’opera che si chiama Tituli ex corpore Ulpiani, Titoli dal corpo di Ulpiano. Visto che ormai non è possibile conoscere tutto Ulpiano, al massimo, quello che si può fare, è estrarre quei pochi titoli che ancora servono nella vita quotidiana. Dopo questa selezione, si avrà un’operetta molto più concisa dell’immensa opera di Ulpiano, ci si dovrà arrangiare a sopravvivere con le poche informazioni contenute in questa opera di sintesi. Ma non è l’unica. Ci sono le Pauli receptae sententiae, cioè alcune delle opinioni scelte di Paolo. L’unica possibilità per salvare le opere (alcune) di Paolo è fare delle scelte, recepire solo alcune sententiae dall’opera di Paolo. Si fa un’antologia per salvare lo strettamente necessario. Ciò che non serve più deve essere abbandonato. Un’altra opera di questo tipo sono i Vaticana Fragmenta, i frammenti vaticani. Sono chiamati così perché per tanti secoli sono stati sepolti. Si trovavano in un codice della biblioteca vaticana e si sono conservati per secoli. È un’operetta romana di sintesi di fonti giuridiche del III-IV sec. d.C. Si è conservata perché l’opera era stata scritta su pergamena, materiale costosissimo. Gli uomini dell’epoca raschiavano e facevano il palinsesto: ripreparavano il testo della pergamena per la scrittura. Però Angelo Mai scopre che l’inchiostro usato contiene piombo e il piombo si lega permanentemente alla pelle della pergamena. L’inchiostro profondo si era legato alla pergamena e con la lampada di Wood si riesce a leggere quello che c’è sotto la scrittura successiva. Nell’Ottocento scoprono che sotto questo testo evangelico c’era questa raccolta di fonti del diritto romano per questa fase di crisi. L’ultima operetta del periodo di crisi è la Consultatio veteris cuiusdam iurisconsulti, cioè la consultazione di un certo qual vecchoi giureconsulto. Si finge di interpellare un certo qual vecchio giureconsulto, che conosceva veramente il diritto romano nella sua interezza. Il vecchio giureconsulto indica quali testi utilizzare e salvare, per non perdere completamente il diritto di Roma. La fase di crisi del diritto di Roma è questa. Tanti secoli per produrre una scienza giuridica eccelsa crollano in pochi decenni con l’arrivo dei barbari. L’unico modo per salvare il salvabile è fare dei riassunti. Questo è uno dei due aspetti della vicenda, cioè gli iura. Ma ci sono anche le leges. Esse sono costituzioni imperiali. Gradualmente il potere dell’imperatore cresce. Così come non tollera più l’esistenza di una giurisprudenza libera, sempre di più si afferma direttamente come fonte normativa. Per i giuristi l’imperatore è lex animata in terris, il verbum principis è lex. In questo contesto è evidente che l’imperatore comincia sempre di più a fare diritto con i rescritti. I rescritti sono una risposta dell’imperatore. L’imperatore riceveva una domanda dai suoi funzionari e riscriveva una risposta. L’impero ormai era una macchina amministrativa con a capo l’imperatore. Quando i funzionari non sanno quale diritto usare, per non sbagliare scrivono all’imperatore. Gli sottopongono il caso (sistema casistico); l’imperatore, in calce, sotto la domanda, scrive la risposta. Un esempio narrato da un giurista: “Gli imperatori Marco Aurelio Antonino e Lucio Vero stabilirono con rescritto che non è possibile rimettere da parte del curatore somme di denaro ad un debitore della comunità cittadina e che la remissione delle somme dovute dai filippesi è da revocare”. Un magistrato di Filippi rivolse un’istanza all’imperatore per sapere come si doveva comportare e l’imperatore gli dà una risposta. Questo è l’inizio del potere normativo dell’imperatore. Inizialmente viene sempre esercitato con questi rescritti; gradualmente si sviluppa anche un potere normativo autonomo. Non deve più attendere la sollecitazione da parte di un funzionario; comincia spontaneamente a produrre norme: si tratta delle costituzioni imperiali. Accanto agli iura nascono queste costituzioni imperiali (leges). Se c’erano le leges, non era più semplice utilizzare solo quelle e ignorare gli iura? No, non sarebbe stato possibile, perché le leges nascono in modo del tutto sporadico, fortuito. Questa non è una disciplina organica, una soluzione strutturata. È solo una risposta puntuale e specifica. In quel momento l’imperatore non sta spiegando cosa sono i vari istituti giuridici; anzi, li da per scontati. Per conoscere gli istituti si deve prima studiare la giurisprudenza. Solo dopo potrà essere possibile comprendere le leges dell’imperatore. Le leges non sono sostitutive degli iura. Se non si conoscono gli iura, anche la conoscenza delle leges è impossibile. La presenza sempre più intensa di leges non risolve il problema. Gli iura sono comunque indispensabili, così come le leges, che sono gli aggiornamenti del patrimonio tradizionale di conoscenza del diritto rappresentato dagli iura. Nella fase di decadenza dell’impero romano occorre salvare gli iura (con le operette riassuntive) e conoscere le leges. Nonostante la crisi, occorre conoscere sia leges che iura. Lo stesso imperatore che fa la legge delle citazioni, pochi anni dopo fa un’altra opera, il codice Teodosiano. Dal momento che sa bene quant’è difficile conoscere gli iura, sa bene che anche conoscere le leges è difficile. Le leges vengono inviate continuamente ai vari funzionari, ma dopo tanti anni e razzie non tutti i funzionari dispongono del patrimonio delle leges inviate dalla cancelleria imperiale. L’imperatore, con questo codice, raccoglie tutte le leges significative prodotte fino a quel momento (438). Mancano pochi anni alla fine dell’impero romano d’occidente. Teodosio II, quando fa il Teodosiano, può ancora trasmettere il codice a tutti i funzionari. Questo è l’ultimo atto imperiale che ha un valore esteso a tutto l’occidente. Questa raccolta normativa arriva a tutte le sedi. È l’ultima raccolta di norme che sia conosciuta da tutti sul suolo europeo. Il progetto iniziale era realizzare sia una raccolta di leges (riuscita) che di iura (non riuscita). Ma la cancelleria imperiale non ha le forze per effettuare la raccolta di iura. Gli iura sono ormai troppi, anche per le forze della cancelleria imperiale. Siamo arrivati alla crisi completa dell’impero di Roma. L’impero è allo sbando e sta portando con sé il suo diritto. Se in questo crollo viene coinvolto anche il diritto non ci sarà modo per conoscerlo nei posteri. Ma succede qualcosa successivamente, che ha permesso la salvaguardia del diritto romano.
Ora ci occupiamo di una istituzione che, all’interno dell’Impero di Roma, che si va spegnendo, invece cresce, e acquisisce sempre maggiore importanza: la Chiesa Cristiana. Le due vicende sono indissolubilmente connesse. Le prime vicende della storia della chiesa di Roma non possono essere separate dalle ultime vicende della storia dell’impero di Roma. Nel momento in cui si afferma in oriente in credo cristiano Roma reagisce in un modo che sembrerebbe incomprensibile. I cristiani vengono perseguitati. Roma non è portatrice di un culto, di una religione esclusiva, intollerante verso altri culti. Non lo è mai stata. Anzi, come tutte le civiltà del passato, era portatrice di un’ideologia politeista. Non c’era nessun dubbio che fosse possibile venerare molti dei. Nelle case dei Romani, sin dalla più lontana origine, c’erano gli altari del Lari e dei Penati. I romani hanno sempre avuto un culto animistico (gli antenati della famiglia proteggevano la famiglia). Roma, nel corso delle sue conquiste, quando sconfiggeva una popolazione, non si sognava di cancellare le loro divinità. I romani, superstiziosi come erano, avrebbero temuto l’ira di quella divinità. Se quel culto non fosse stata più professata, quel dio arrabbiato poteva vendicarsi contro Roma. Mai i romani quindi impediscono i culti. A maggior ragione quando arriva con le sue truppe in oriente. I culti orientali erano affascinanti nel loro mistero. Tanti sono i mitrei (sedi dedicate al culto del dio Mitra) che sono ancora a Roma. San Pietro fu sepolto ai margini di una necropoli romana. Se si visita S. Pietro ci si accorge che la necropoli romana è un esempio eccezionale di sincretismo, cioè di tolleranza dei culti religiosi. Ogni camera sepolcrale ha delle divinità diverse da quelle accanto (Iside, Osiride, Ra, Mitra). Il tempo per antonomasia della religione a Roma era ed è il Pantheon, il luogo di tutte le divinità. Se Roma ha questa impostazione, perché se la prende con i cristiani? Le perplessità ce le hanno anche i funzionari. Plinio il giovane, mandato dall’imperatore a fare il governatore della Bitinia, nel 112 scrive all’imperatore dicendo che non sa come comportarsi con i cristiani: “E’ mia abitudine, o signore, ricorrere a te per risolvere ogni mio dubbio. Io non ho mai assistito a processi contro cristiani, perciò non so che cosa e quanto si usi punire e ricercare in essi. Così non poco ho esitato se si debba usare diverso trattamento secondo l’età, se si debba perdonare chi si penta, se il nome di cristiano debba essere punito […]”. Plinio non sa che fare, e sulla logica del rescritto Traiano gli risponde: “Tu hai agito nel migliore dei modi. I cristiani non si devono ricercare. Se sono denunciati e convinti di essere cristiani devono essere puniti, ma sia perdonato a chi, sebbene sospetto in passato, neghi di essere cristiano e dia prova di ciò adorando i nostri dei”. Questo è il punto. I romani non ce l’hanno coi cristiani perché professano una religione diversa da quelle di Roma. Roma non ha una religione ufficiale, quindi non si sente offesa perché i cristiani hanno un culto diverso. La cosa che rende incompatibile il culto cristiano con l’impero di Roma è solo un elemento che finora non c’era mai stato: la religione cristiana è monoteista. Il primo comandamento dice che “Non avrai altro Dio all’in fuori di me”. Questo, per il sistema romano, è dirompente, perché nell’età del dominato c’è una identificazione completa e diretta dell’imperatore con il divus, con il dio. Il crimen lesae maiestatis, il crimine di lesa maestà, non è solo parlar male dell’imperatore, ma anche solamente omettere la debita venerazione della statua imperiale. La statua dell’imperatore rappresenta di per sé stessa una divinità. Secondo la logica politeista nella statua è raffigurata la divinità dell’imperatore, quindi tutti i sudditi dell’impero debbono venerazione sacrale all’imperatore. I cristiani non lo fanno perché sono convinti di avere un unico Dio. Se adorassero l’imperatore come divinità verrebbero meno al loro credo religioso. I cristiani non vogliono adorare l’imperatore e la mancata adorazione dell’imperatore rappresenta una contestazione del potere imperiale. È un problema di obbedienza politica. L’imperatore non può ammettere il fatto che i cristiani non l’adorano. Tutto questo progredisce con le persecuzioni. Inizialmente avvengono persecuzioni isolate, poi le persecuzioni acquistano sempre maggiore forza. I cristiani cominciano a diffondersi all’interno dei vari strati delle classi sociali. A tal punto che spesso i cristiani sono presenti nelle legioni di Roma, e gli imperatori romani, per dare un segnale di fermezza, arrivano a distruggere intere legioni. Questo è l’atteggiamento dell’impero verso i cristiani. Se questa è l’impostazione perché a un certo punto le persecuzioni finiscono? La vicenda storica è quella delle varie competizioni tra i vari Cesari e Augusti che derivano del tentativo di Diocleziano di organizzare l’impero in una tetrarchia. Siamo nella fine del III sec. d.C. Nel 305 il meccanismo della tetrarchia fallisce e i cesari e gli augusti con le loro truppe cominciano a farsi una guerra intestina. Questo scontro arriva alla fine con gli ultimi due superstiti: Massenzio e Costantino. Si confrontano poco a nord di Roma nella battaglia di ponte Milvio. Costantino, secondo la leggenda medievale, prima della battaglia ha un sogno. In questo sogno gli appaiono i suoi soldati con sullo scudo del cristianesimo e in alto un cartiglio che dice “in hoc signo vinces”, “in questo segno vincerai”. Simbolo del culto cristiano non era ancora la croce. Allora il simbolo era il chi-ro (ΧΡ), cioè le prime due lettere del nome greco di Cristo. Questo simbolo sarebbe stato ispirato da Dio, quindi Costantino avrebbe indicato ai suoi soldati di disegnarlo sui loro scudi, e in virtù dell’appoggio divino Costantino avrebbe vinto la battaglia. Non ci sono fonti che dicano che Costantino avesse una tale fede incrollabile nel cristianesimo. Fonti successive dicono che la madre di Costantino, Elena, riempie Roma di reliquie. C’è qualcuno che ha ipotizzato che la ragione per disegnare quel simbolo sugli scudi fosse in realtà più strategica che religiosa. Verosimilmente ogni soldato rischia la vita. è ragionevole che quello che fa la mattina è raccomandare la sua salvezza alla sua divinità. È improbabile che un legionario di Roma appartenesse a un culto misterico. I culti misterici erano per i ricchi. Era qualcosa di elitario. Il legionario, povero e disgraziato, si identifica più con il cristianesimo. Questo povero soldato molto spesso è un cristiano. Quella mattina buona parte dei soldati affidarono le loro sorti al dio cristiano. Nel momento della battaglia i romani combattevano con scudo e spada. Se la spada non va a segno vuol dire che l’avversario s’è difeso, significa che ha posto uno scudo. Questo vuol dire che tutte le volte che il colpo non va a segno, chi sta portando l’attacco colpisce uno scudo su cui è disegnato il simbolo del dio a cui lui, la mattina, ha assegnato la sua salvezza e la sua anima. Tutte le volte offenderebbe dio a ogni impatto. Immaginate lo scoraggiamento delle truppe che devono combattere contro nemici dotati di questa arma in più. Si perde la capacità di combattere se ogni volta che devo attaccare offendo il dio in cui credo. Gli scudi, nel medioevo, venivano utilizzati spesso anche con questa funzione. Le cose che venivano disegnate sugli scudi avevano un senso e un’utilità. Ancora oggi ci sono blasoni limitari che portano disegnati una mano con una spada. Questo perché nel medioevo quegli scudi venivano utilizzati in battaglia. Nel momento dello scontro, un momento di caos e polvere, non vedo bene chi mi sta davanti. Quando all’improvviso vedo il nemico, io controllo l’unica cosa che mi occorre sapere immediatamente: sapere se la persona che mi sta davanti è destra o mancina. Se è mancina sono guai, perché lo scudo viene portato a sinistra. Se quello è mancino il colpo è portato dalla parte in cui c’è solo la spada. Il tiro mancino è il tiro brutto, cattivo, che non si aspetta; è il tiro portato dalla parte in cui non c’è difesa. Se vedo una spada nella parte mancina, la mia reazione immediata è proteggermi dall’altra parte, ma così faccio il più grave errore: quello era solo un disegno, ma non me ne sono accorto, e l’altro ha il tempo per portare il colpo definitivo. Quello scudo parlante in realtà è stato determinante perché ha consentito a chi mi assaliva di prevalere. Le fortezze medievali sono costruite in modo tale da accedervi facendo un giro da sinistra a destra, perché entrando, tutti gli assalitori, quando arrivano alla porta principale, girando in questo modo, rimangono esposti al tiro delle frecce di difesa. Tutto è pensato per la difesa. Allora è ragionevole che lo stesso Costantino avesse fatto un ragionamento di indole militare. Questo disegno sugli scudi era anche una strategia militare. Come che sia, Costantino vince. Come conseguenza di questa vittoria, fa l’editto di Milano del 313. In questo editto fa una cosa molto chiara: legittima il culto cristiano, sancendo la libertà di culto. Costantino dice: “Concedere ai cristiani e a tutti la libera facoltà di seguire la religione che ciascuno voglia, in modo che qualsiasi divinità nella sede celeste possa essere benevola e propizia a noi e a tutti coloro che sono riuniti sotto il nostro potere”. Nel corso della sua vita, tranne forse solo in letto di morte, Costantino non si comporta da grande fervente cristiano. Fonda Costantinopoli e non vi crea chiese. A Costantino si deve l’organizzazione del calendario secondo la sistemazione moderna dei giorni della settimana. Questa sistemazione non ha la domenica (giorno del signore), ma il dies solis (il giorno del sole). Il giorno della festività era dedicato al sole. Gli imperatori identificavano il proprio culto con il culto del sole. Il sole era l’imperatore. Costantino non cancella gli altri culti, ma legittima i cristiani. L’imperatore continua a reputarsi, a mostrarsi un dio. L’impostazione della religione tradizionale rimane in piedi anche con Costantino. Almeno dal 313 in poi i cristiani possono professare il loro culto. La conseguenza di tutto questo è imprevedibile: i cristiani metaforicamente escono dalle catacombe. Le varie comunità che per ora hanno professato la loro religione isolatamente lo possono fare alla luce del sole, quindi si possono confrontare. Tutte le piccole comunità che nel corso di tre secoli hanno professato nel segreto il culto cristiano per la prima volta nella storia si guardano in faccia e si confrontano. Scoprono che nel corso di tre secoli, il messaggio cristiano è stato vissuto dalle varie comunità in modo diverso. Ancora non esistevano delle prescrizioni dettagliate. Ognuno ha fatto come ha potuto. Anche su questioni importanti di fede, le varie sedi hanno portato avanti una dottrina che si scopre diversa da zona a zona. Il cristianesimo non è lo stesso per tutti. Questo è un guaio anzitutto per l’imperatore. Costantino ha concesso la libertà del cristianesimo perché lui vuole la protezione della sede celeste. Se Costantino legittima i cristiani e non prosegue con le persecuzioni, è per non evitare di indebolirsi ancora di più. Da un punto di vista politico, la legittimazione dei cristiani serve a dare compattezza all’impero, serve a dare unità. I cristiani invece cominciano a massacrarsi (?) a vicenda. Questi dissensi religiosi non solo limitati a dispute teologiche tra vescovi all’interno di cattedrali, ma diventano delle competizioni feroci e cruente tra interi gruppi di cristiani. A Costantinopoli, tra diversi modi di concepire la trinità, si arrivava allo scontro armato. Tutto questo quadro, per l’imperatore, era inammissibile. Il cristianesimo doveva servire per dare unità all’impero, non a indebolirlo ancora di più. Perciò, questa frammentazione che si era verificata tra i cristiani andava assolutamente superata. Non era concepibile che sopravvivesse un tale contrasto tra i cristiani. Ogni comunità di cristiani si riconosce nella guida di un personaggio: il vescovo. Il vescovo è il successore degli apostoli. Anche i culti che non riconoscevano necessariamente l’imperatore nella qualità di Dio, però attribuivano all’imperatore la qualità di sommo sacerdote. L’imperatore si reputa sommo sacerdote anche dei cristiani. Afferma dunque che occorre riunire i vescovi affinché si mettano d’accordo su qual è la dottrina. Convoca allora un concilio. Il primo concilio nella storia della Chiesa è il concilio di Nicea del 325. Nicea è in oriente. Questo concilio è convocato e presieduto dall’imperatore, che sta a Costantinopoli (lì vicino). Questo concilio è ecumenico: deve riunire tutti i vescovi della cristianità. In questa fase l’occidente è pericoloso, perché è minacciato continuamente dai barbari. Far muovere tutti i vescovi della cristianità per riunirli a occidente può essere pericoloso. Quindi è normale che questo concilio si tenga in oriente. I vescovi si riuniscono e proclamano il dogma. Non a caso il credo che si legge attualmente ha la sua prima origine nel credo di Nicea. I vescovi, riuniti a Nicea nel 325 dicono qual è la dottrina della chiesa, ciò che è vero e ciò che è falso. L’errore, da allora in poi, sarà la scelta: l’eresia. Il vescono Ario sceglie di non credere alla verità fissata dal concilio e dà vita all’eresia ariana. Coloro che non sceglieranno la verità saranno eretici. Essere eretici non è solo un problema religioso: siamo di nuovo in un problema politico. Questo concilio è stato convocato dall’imperatore perché voleva chiarezza. Da adesso in poi le decisioni del concilio di Nicea sono protette dall’autorità imperiale. È l’imperatore a emanare quelle disposizioni. Chi non obbedisce ai dettami del concilio di Nicea non solo fa un dissenso religioso, ma diventa responsabile del crimen lesae maiestatis. È responsabile di fronte all’imperatore di violazione della sua autorità, e quindi subisce la stessa pena. La pena inflitta ai criminali di lesa maestà è la morte per vivi combustione (il rogo). Ecco perché la sanzione dell’eretico, dopo tanti secoli nella chiesa medievale, sarà il rogo dell’eretico. Questa sanzione apparteneva alla chiesa di Roma. I concili sono presieduti e diretti dall’imperatore e i vescovi arrivano alle loro deliberazioni in queste sedi orientali. Non a caso l’attività di mancata adesione alla fede si indica non un nome greco: eresia. Questo porta a riflettere sul fatto che le regole assunte in occasione dei concili saranno verosimilmente stilate in greco. È altrettanto ragionevole che il nome per designare queste regole sia un nome greco: canone. Non è un caso che tutto il diritto della chiesa che si fonda su quelle delibere assunte dai vescovi prenda il nome di diritto canonico. Si celebrano vari concili in oriente e i vescovi vanno progressivamente fissando le varie regole del dogma. In questi incontri si fissano i canoni della chiesa. Questa affermazione dei canoni consente ai vescovi di poter svolgere con più sicurezza il loro compito. I vescovi hanno un ruolo che è anche legato alla potestà di giudicare. Sono sì pastori ma hanno anche dei ruoli istituzionali. Uno di questi ruoli è quello di giudice. Sempre più spesso i fedeli si rivolgono ai vescovi come giudici, e non solo in materia spirituale, ma l’autorità morale del vescovo viene avvertita da tutti come una garanzia. Spesso accade che invece di sottomettersi a un magistrato imperiale molto spesso corrotto, le parti decidono di affidarsi direttamente al vescovo, anche per le vicende civili. Nasce così l’istituto della episcopalis audentia. Il vescovo diventa a tutti gli effetti un giudice. Anche gli imperatori riconoscono questo potere giudiziario del vescovo. Il vescovo, quando deve decidere una controversia di materia religiosa sottoposta dalle parti, applica i canoni dei concili. Ma i concili, specialmente quelli ecumenici, possono essere celebrati raramente. Non è semplice riunire tutti i vescovi della cristianità. I concili cercano di risolvere i problemi principali e quelli che si sono posti fino a quel momento. Spesso i vescovi hanno a che fare con problemi nuovi, che il concilio non ha affrontato. Allora che fare? Si decide di propria testa? È pericoloso, perché si corre il rischio dell’eresia. Allora il vescovo si guarda dal prendere autonomamente decisioni di fede. E a chi si rivolge? In oriente non hanno dubbi: l’imperatore è il capo della chiesa cristiana. In oriente si afferma il cesaropapismo: quella particolare struttura politica e religiosa per cui il capo del potere temporale si comporta anche da capo spirituale. Quando il patriarca di Costantinopoli ha un dubbio si rivolge all’imperatore. Questa logica non è apprezzata in occidente. C’è un personaggio che si contrappone a questa idea: il vescovo di Roma. Fra i vari patriarcati (cinque in origine), comincia ad avere un ruolo particolare il vescovo di Roma. Come sia accade sempre più spesso che quando i vescovi si trovano in imbarazzo si rivolgono sempre più spesso al papa, al vescovo di Roma. Il vescovo di Roma fa la stessa cosa che faceva l’imperatore. Quando un funzionario aveva dei dubbi scriveva all’imperatore e l’imperatore gli faceva un rescritto, rispondendo. I vescovi interrogano i papa e questi fa una epistula responsiva, una lettera di risposta. Questa risposta contiene un decreto, cioè un ordine. Il vescovo interpella il papa, il quale risponde non con un consiglio, ma con un ordine. È una epistula decretalis, una lettera decretale che contiene un preciso ordine. Per antonomasia, nei secoli successivi, cadrà il termine epistula e rimarrà il termine “decretale”. Tutte le decisioni in materia di diritto del pontefice verranno chiamate “decretali”. Ecco che abbiamo i due pilastri delle fonti del diritto canonico. C’è un diritto canonico di produzione divina, contenuto nei sacri testi, immutabile. C’è poi un diritto di produzione umana: per far funzionare la chiesa sono state prodotte delle norme valide all’interno della chiesa. Queste norme sono:
• Canoni, se prodotte dai concili
• Decretali, se prodotte dal pontefice
Queste sono le due grandi fonti normative che rimarranno inalterate nei secoli. Da allora in poi saranno le uniche due fonti normative ufficiali della chiesa. Il problema grave e mai risolto è sapere quale delle due fonti è superiore all’altra. Molto spesso è un problema che non viene posto. Queste due fonti sono i testi normativi della chiesa. Se il pontefice di Roma inizia ad affermarsi sempre di più come potere normativo, è chiaro che il papa, vescovo di Roma, non può ammettere l’idea orientale del cesaropapismo. Il capo della chiesa è il vescovo di Roma. Allora, nel 494, il papa Gelasio I scrive una lettera all’imperatore di Costantinopoli. Il nome di questo papa è importante perché da lui la dottrina contenuta in quella lettera si chiamerà principio gelasiano. In quella lettera il papa scrive che la pretesa dell’imperatore di guidare la chiesa è sbagliata. In realtà, ognuno ha le sue competenze e funzioni. Pretendere che lo stesso soggetto possa riunire le due cariche è sbagliato. L’imperatore si deve occupare delle cose temporali. Il papa si deve occupare delle cose spirituali. In quella lettera Gelasio dice all’imperatore d’Oriente che due sono le autorità, e devono rimanere distinte. Il papa in spiritualibus, l’imperatore in temporalibus. Non possono neanche entrare in conflitto perché ognuno dei due si occupa di faccende diverse. Nel momento in cui danno i loro ordini non entrano in conflitto. Il papa aggiunge che il papa ha una responsabilità maggiore di quella dell’imperatore. Mentre l’imperatore risponde solo delle sue condotte terrene, il papa risponderà non solo della sua condotta spirituale ma anche dell’operato dell’imperatore. Sta al papa dire all’imperatore quando Dio non è d’accordo con le scelte dell’imperatore. Esiste questo problema teorico di conflitto. Papa Gelasio presuppone due sfere distinte. Questo non significa libera chiesa in libero stato. Nella concezione medievale di papa Gelasio il fatto che l’imperatore si dovesse occupare delle cose temporali non voleva dire che potesse fare quello che gli pareva. Il papa si ritiene responsabile delle sue azioni. È come se l’umanità fosse come un treno (da non dire all’esame). Per poter procedere ha bisogno di due binari: il potere spirituale e quello temporale. Se i due binari si discostano troppo l’umanità deraglia. Se coincidono allo stesso modo deraglia. La linea del principio gelasiano sarebbe questa: due binari paralleli ma distinti. Ognuno si occupa delle sue cose. Secoli dopo Dante parlerà dei due soli. Questa concezione gelasiana riverrà l’elemento fondamentale di tutti i secoli successivi. Questa tendenza graduale dell’impero ad affidarsi sempre di più al cristianesimo, a considerarlo un mezzo di sopravvivenza dell’impero, porterà dopo pochi decenni a l’editto di Tessalonica del 380 dovuto a Teodosio. Editto: “Vogliamo che tutti i popoli a noi sottoposti seguano la religione che l’apostolo Pietro ha insegnato ai romani e che da quel tempo lì è praticata e che ora insegnano il pontefice Tamaso e Pietro, vescovo d’Alessandria. Cioè che, secondo la disciplina apostolica e la dottrina evangelica, si creda nell’unica divinità del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, in tre persone uguali. Chi accetti questa norma sarà chiamato cristiano cattolico, perché è in comunione con tutti gli altri. Gli altri invece saranno stolti eretici, né le loro potranno essere considerate come vere e riconoscibili assemblee. Essi ricorreranno pertanto nei castighi divini e anche in quelle punizioni che noi vorremmo infliggere loro”. La situazione è andata oltre Costantino. Teodosio sa che bisogna tentare il tutto per tutto. I confini sono rotti; i barbari dilagano da tutte le parti. l’impero deve fare il possibile per tenere assieme i pezzi. Non può permettersi un caleidoscopio di religioni che produce conflitti, incomprensioni, conflitti. L’unica cosa che si può fare è mettere tutti assieme sotto lo stesso credo. Sarà un tentativo disperato di cercare di salvare l’impero. Oltretutto questi barbari che arrivano dall’oriente sono già cristiani, ma ariani. Un mezzo dell’imperatore per cercare di proteggersi da queste invasioni è dichiarare i barbari eretici, poiché ariani. Quello del 380 è un tentativo di salvaguardare in tutti i modi l’impero. E’ un tentativo traumatico, perché si tratta di scardinare religioni che hanno secoli. I senatori erano sommi sacerdoti della dea Vittoria. Si ribellano all’imperatore e l’imperatore li uccide tutti. La religione cristiana deve essere imposta a tutti: è una delle ultime scialuppe di salvataggio dell’impero. Con questa decisione si ha l’estensione della religione del cristianesimo a tutto l’impero. Il problema è che l’imperatore sta cercando per legge di imporre una religione. Le religioni che c’erano prima avevano secoli di storia. Erano radicati nei costumi. Non è cosa semplice cambiare religione. Questa decisione del 380 fu attuata solo lì dove l’imperatore aveva la forza di attuarla, cioè nelle grandi città. L’imperatore non riesce a attuare l’editto nelle campagne. Nelle campagne la presenza imperiale è veramente remota. I villaggi in latino sono i pagi: ecco che nascono i pagani, quelli che nascono nei villaggi, e coloro che non obbediscono a Teodosio e conservano il loro vecchio culto. Ecco perché la chiesa medievale, nonostante questo ordine perentorio del 380, in realtà ci metterà secoli a convertire al cristianesimo una marea di popolazioni. La chiesa medievale ha poi tutto il problema della conversione dei pagani. L’impero ha lasciato un desiderio di unitarietà nel cristianesimo ma non è riuscito a completarlo. Ha solo messo le basi. Sarà la lunga opera della chiesa medievale che si eserciterà con i barbari a operare la conversione di tutti questi popoli.

Medievale Ott 30
Abbiamo visto le vicende storiche del dissesto dell’impero di Roma e della nascita di un’istituzione nell’impero che è la chiesa cristiana. Ora ci occuperemo del problema legato alla crisi dell’impero. Cosa aveva creato questa debolezza dell’impero? Gli storici hanno prospettato diverse ipotesi. La ragione prevalente è l’arrivo dei barbari. Sconfiggono le legioni romane; arrivano a minacciare l’Italia; saccheggiano Roma; sono i responsabili principali del dissesto dell’impero di Roma. Ci resta da capire la conseguenza giuridica del loro arrivo. Giungono in Europa, sconfiggono Roma, si stanziano in alcuni territori e creano i regni Romanobarbarici. Ogni popolazione crea il suo regno (Alemanni, Visigoti, Burgundi, Ostrogoti, Franchi). Cosa cambia rispetto all’impostazione romana? Quando i romani facevano una guerra di conquista, l’obiettivo era controllare completamente un territorio. I romani erano interessati a portare in quel territorio la lingua latina e il diritto romano. Ciò era fondamentale perché consentiva un’integrazione dei territori conquistati dall’impero. Possedere una comunità linguistica e una unitarietà di norme dava la possibilità di commerciare e avere contatti senza problemi. La guerra dei romani era una guerra di conquista. Le guerre dei barbari non erano così. I barbari sono popoli nomadi che stanno scappando dal pericolo che hanno alle spalle (altri barbari più feroci). Dietro questo non c’è la stessa strategia che hanno i romani. Da questo seguono conseguenze giuridiche importanti. Questi barbari, prima di arrivare nei territori romani, che diritto avevano? Qual era il loro patrimonio giuridico? La risposta è già nel fatto che i barbari non ci danno una testimonianza delle loro peregrinazioni. Non abbiamo una memoria scritta dai barbari delle loro vicende ancestrali perché non hanno una scrittura. I barbari non dispongono di una lingua scritta. Non si sono mai posti il problema. Per questo dei barbari sappiamo poco, solo quello che ci dicono i latini. Quando Tacito incontra i germani ci dà la prima descrizione dei germani. Dei miti nordici abbiamo un ricordo solo perché uno studioso del medioevo decise di mettere per iscritto tutte queste mitologie tramandate oralmente. Da tutto questo viene anche la risposta giuridica. Che diritto avevano i barbari? Se non hanno una lingua scritta l’unico diritto che hanno i barbari è una serie di consuetudini orali. Nel corso della loro storia si sono formate delle consuetudini che sono rimaste a livello orale. Perché consuetudini? Per l’impostazione tipica dei barbari. Possiamo leggere quello che ci racconta Tacito: “I germani eleggono re i più nobili, condottieri i più valenti. I re non possiedono un potere infinito e i condottieri governano più con l’esempio dell’esser pronti d’ andare innanzi per farsi ammirare che con il comando”. L’impostazione dei barbari è diversa da quella dei romani. I romani hanno sviluppato l’idea costituzionale del principato e poi del dominato. L’imperatore è superiore rispetto a tutti gli uomini: egli ordina e gli altri obbediscono. C’è una differenza sostanziale tra l’imperatore e i sudditi. Presso i barbari questo non è vero. I re sono alcuni dei nobili che vengono scelti per fare alcune funzione (guerra, pace interna). In realtà non sono come gli imperatori romani, portatori di una superiorità rispetto agli altri sudditi. Sono semplicemente come tutti gli altri nobili. Hanno delle funzioni particolari ma non una natura diversa. Questo perché presso i barbari la concezione è che tutti gli uomini sono uguali e liberi. Il re non può ordinare nulla perché il suo potere è limitato dalle sue funzioni. Deve essere un bravo condottiero in guerra e far rispettare la pace sociale interna. Tranne questo non ha ulteriori funzioni. Il re dei barbari ha delle prerogative ma lì si esaurisce tutto il suo potere. I barbari sono tutti uomini liberi. Se questo è vero tutti i barbari vogliono e devono partecipare al processo normativo. Se le norme devono riguardare la vita intera della collettività e se tutti i barbari sono uomini liberi, tutti i barbari devono contribuire a prendere quelle decisioni che riguardano tutti. la fonte per antonomasia che costituisce un esempio di partecipazione di tutti alla vita collettiva è proprio la consuetudine. La consuetudine esiste proprio perché tutta la collettività congiuntamente decide di tenere quel comportamento nella decisione che quel comportamento sia giuridicamente rilevante. Ecco che i barbari si identificano come fonte normativa nelle consuetudini perché la consuetudine è la fonte che esprime la partecipazione collettiva alla scelta delle norme. C’è poi l’elemento dell’oralità. Non avendo una lingua scritta l’unica cosa che possono fare i barbari è tramandare queste consuetudini orali di generazione in generazione. È la stessa situazione verificatasi con i poemi omerici. Per il diritto barbarico è la stessa situazione. Il popolo è nomade e vive tutto insieme. Tutto quello che riguarda il popolo viene trasmesso verbalmente di generazione in generazione. Questa impostazione andava benissimo fin quando questi popoli erano nomadi. Quando poi si sono stanziati nei territori, è ovvio che la vita collettiva da nomadi non ha più nessun significato. Se hanno conquistato un territorio e si stanziano su quel territorio è inutile vivere tutti assieme. Ottengono il massimo risultato della conquista solo sparpagliandosi. Ogni tribù si stacca dal gruppo del popolo e va a conquistare un determinato territorio. Il regno dei barbari costituirà il controllo garantito da tutte queste tribù: più grande sarà l’ampliamento del popolo sul territorio, maggiore sarà l’importanza di quel regno. Con la conquista dei territori romani, i barbari smettono di essere nomadi. Da qui segue una conseguenza gravissima. Fino a quando erano nomadi la trasmissione della loro cultura era garantita. Vivendo tutti assieme era ovvio che la narrazione continua delle tradizioni e del diritto arrivasse allo stesso modo a tutti i componenti. Ora invece il popolo si è diviso, ma non ha cambiato sistema normativo. Ci sono ancora consuetudini orali. Dopo qualche decennio di frammentazione, le varie tribù che non vivono più in stato di aggregazione ma sono ormai divise, cominciano a ricordare le stesse consuetudini in modo diverso. Il problema è che tutto questo è solo rimesso alla memoria. Non essendoci una redazione scritta, tutto quello che rimane di questa cultura giuridica è nella testa degli appartenenti a quel popolo. Se tribù diverse cominciano a ricordare le norme barbariche in modo diverso, non c’è alcun modo di risolvere il problema. La memoria dell’uno vale come la memoria dell’altro. Allora il re barbarico, che ha il problema della pacificazione del popolo, si trova di fronte a un problema grave. Se le tribù cominciano a ricordare in modo diverso il diritto barbarico, il rischio è che nascano delle faide. Per un re barbarico che ha come unico obiettivo garantire la forza di quel popolo, il fatto che due tribù si facciano guerra è un dramma: innanzitutto non c’è pace interna e poi i morti riducono il numero di forze dell’esercito. Invece di avere forze sicure il re vede compromessa la forza e la compattezza del popolo. Il fatto che nascano queste contese impone al re di intervenire. Come si fa a salvaguardare il diritto tradizionale di quel popolo? L’unico modo è metterlo per iscritto. Ma come abbiamo detto, i barbari non hanno una lingua scritta. Allora ci si rivolge agli unici che sanno leggere e scrivere: i romani. Ma anche i romani, dopo tanti secoli di conquiste barbariche, sono ridotti allo stremo. Allora ci si rivolge ai chierici, gli unici che comunque sia devono essere a contatto con la scrittura e devono saper leggere e scrivere. La religione cristiana è rivelata. Il sacerdote non inventa nulla, ma deve saper leggere le scritture. Anche nel momento di peggior barbarie, la chiesa non può fare a meno di mantenere questo contatto con la cultura. Anche se i barbari hanno prodotto queste distruzioni, nel regno dei barbari ci sarà sempre una cerchia di consiglieri formata da chierici. Quello che può fare il re dei barbari è rivolgersi agli uomini di chiesa perché mettano per iscritto le consuetudini dei barbari. Ma in tutto questo, ovviamente, c’è uno stravolgimento. I romani che devono scrivere le consuetudini barbariche, si trovano davanti a un’impresa quasi impossibile. Si fanno narrare dai barbari il contenuto di queste consuetudini e poi fanno un’operazione di travaso culturale: quelle cose vengono poi dette con parole latine e con categorie concettuali romane. Quando il barbaro spiega il contenuto della consuetudine, il latino che sta scrivendo anzitutto ha difficoltà a conservare anche il nome dell’istituto (launeguild, wadia, guidrigildo). Il chierico può al massimo conservare il risultato fonetico di quello che sente. Mette per iscritto in latino un nome che assomiglia a quello che il barbaro gli dice. Dopodiché, però, dichiara a cosa assomiglia quella consuetudine, altrimenti i latini che leggono non capiscono. Difatti sono poi altri latini quelli che devono rileggere il testo e comunicarne il contenuto agli altri barbari. C’è una necessità assoluta di mediazione culturale della lingua latina. Tutte queste consuetudini vengono poi trasmesse in forme intellettuali latine. Quando il barbaro descrive il contenuto della consuetudine, quello che fa il latino è ricordare quale istituto del diritto romano assomiglia a ciò che gli sta dicendo il barbaro. L’operazione di salvataggio che i barbari si propongono di fare del loro patrimonio culturale si risolve in una operazione di sopravvivenza del diritto romano. Leggendo uno di questi testi (ad es. la lex wisigothorum) si trova più diritto romano che diritto barbarico. Questo è quello che accade. I barbari arrivano, portano abitudini orali di tipo ancestrale ma ben presto, dopo la conquista, sono costretti a metterle per iscritto. Operazione che si trasforma in un dramma: la scrittura è in latino e le categorie concettuali di chi scrive sono categorie romane. Cosa accade ai romani conquistati? Quando i romani conquistavano, imponevano la lingua e il diritto. non c’era territorio conquistato non omogeneizzato con gli altri territori dell’impero. I barbari non fanno la stessa cosa per i romani. Non danno le proprie tradizioni per due ragioni fondamentali. Innanzitutto sono consuetudini orali. I romani conquistati non hanno la più pallida idea di quale sia la lingua di questo popolo. Quindi non solo non sanno parlare in quella lingua, ma men che meno capirebbero delle consuetudini espresse in una lingua che non conoscono. Sarebbe già un’impresa difficile a livello concettuale imporre a una popolazione che non parla una lingua delle norme scritte nella lingua che non parla. C’è un’ulteriore ragione decisiva. Come abbiamo visto, i barbari si identificano con la titolarità di quel patrimonio culturale, giuridico. Un visigoto è tale perché appartiene a quella cultura, perché segue quei comportamenti. L’identità di visigoto è strettamente legata alla conoscenza di tutto questo patrimonio culturale. Se i barbari dessero ai romani il loro diritto, sarebbe come elevare i romani vinti, sottomessi, a livello di barbari, quindi a livello di uomini liberi. Siccome i visigoti si identificano nel loro patrimonio culturale, il loro patrimonio culturale non è scindibile dal diritto. Se loro danno il proprio diritto ai romani, vuol dire che sono tutti considerati uomini liberi, vincitori, e questo non è ammissibile. I barbari, che vogliono conservare la loro identità, si vogliono distinguere dai romani. Per questo i romani non possono seguire il diritto dei barbari. Allora i romani che diritto seguono? Non hanno problemi. Tanti secoli di diritto hanno dato ai romani solide basi di diritto scritto. La scienza giuridica romana ha creato per i romani un chiaro patrimonio di fonti normative. I romani hanno delle norme scritte. Tutto questo genera una situazione nuova rispetto al passato: la personalità del diritto. I barbari osservano il proprio diritto, i romani osservano il proprio. La cosa è anomala perché fino a questo momento nell’impero di Roma vigeva il principio della territorialità del diritto: tutti coloro che si trovano in un determinato territorio osservano tutti le stesse regole. Oggi non ammetteremmo che uno straniero in Italia non rispetti il nostro diritto. Siccome i barbari hanno questa idea, per cui il loro diritto è esclusivamente loro, allora in queste territorio deve esistere questa differenziazione. Se questa idea della personalità del diritto in una prima fase non pone grandi problemi perché i due gruppi etnici stanno distinte e lontane, col passar del tempo e con l’inevitabile fusione dei popoli questa partizione tende a entrare in crisi. Se in una prima fase potevo esser certo se la persona era barbara o romana, dopo qualche decennio questa chiarezza viene meno. Allora, per me che sto stipulando un accordo con quella persona e non so se è barbaro o romano, per me ciò può fare una grande differenza. Vige il principio della personalità del diritto (dicono le fonti che “è come se il diritto stesse attaccato alle ossa”) quella persona applica il suo diritto. Se credo che sia romano ma invece è un barbaro, potrei rimetterci. Allora, per sapere se si ha di fronte un barbaro o un romano, i re impongono ai gabellioni (i notai di oggi) nel momento della stipula dell’accordo di chiedere la professio juris, cioè la professione del diritto. Per evitare spiacevoli incidenti le parti, quando decidono di arrivare ad un accordo, devono dichiarare il loro diritto. Non possono sorgere contestazioni in seguito. Ultimo problema: i romani hanno un diritto scritto, rappresentato dal diritto romano volgare (non ricorrono alle opere della giurisprudenza classica, ma ai trattatelli e riassunti). Accade però che la conquista barbarica ha reso ancora più difficile la conoscenza di quelle fonti. Anche se ridotte, quelle fonti sono pur sempre difficili da conoscere in un momento di così grave decadenza. I romani sono costretti a rivolgersi al re dei barbari perché anche in questo caso il re dei barbari faccia un’operazione di salvataggio. È diventato impossibile conoscere anche queste fonti minime. I romani chiedono all’ora al re di barbari di riorganizzarle, trascriverle, per conoscerle nuovamente. Il re dei barbari si rivolge agli uomini di cultura della corte, i chierici romani, e ordina loro di sistemare le fonti superstiti del diritto romano. Ecco che in questi regni barbarici, proprio in applicazione della logica del principio della personalità del diritto, da un parte abbiamo leggi barbariche (consuetudini orali barbariche trascritte in latino), dall’altra abbiamo leggi romano-barbariche (norme romane sistemate e riunite per ordine del re dei barbari; non norme fatte dal re dei barbari che non avrebbe mai potuto). Il re barbaro poteva solo sistemare il diritto precedente, quello rimasto della tradizione giuridica romana. Nei regni barbarici abbiamo questi due complessi normativi, entrambe presenti e vigenti: il diritto barbarico e il diritto romano, leggi barbariche e leggi romano-barbariche (prodotte dai barbari per uso dei romani). Questa è la situazione dopo la conquista da parte dei barbari.
Ma se è vero che il diritto di Roma è stato messo in crisi già durante la vita dell’impero, arrivando al diritto romano volgare, e poi sono arrivati i barbari, perché oggi conosciamo il diritto romano? In realtà, la fortuna del diritto romano è legata a Giustiniano, imperatore d’Oriente. Giustiniano sale al trono nel 527 e uno scopo, “riportare in auge l’impero”, scopo che può raggiungere in questi modi:
1. Riconquistare i territori dell’impero Romano d’Occidente, sotto dominio barbaro
2. Dare la religione cristiana ai territori riconquistati
3. Riportare il diritto nei territori conquistati e convertiti
Le prime campagna militari hanno facile successo. In realtà gli obiettivi iniziali erano la riconquista di alcune città importanti dell’Africa. Questo su cui si scontra Giustiniano è la riconquista d’Italia. In Italia gli ostrogoti fanno una feroce resistenza al tentativo di riconquista dei bizantini. Ne nasce la c.d. guerra greco-gotica (tra ostrogoti e bizantini). Dal 535 al 553 le truppe bizantine cercano di conquistare l’Italia. È una guerra sanguinosa che riduce l’Italia alla prostrazione. Non viene omesso alcun espediente per danneggiare l’avversario, anche ove questo comportasse la distruzione delle risorse. Questi venti anni di guerra distruggono quasi completamente la penisola. Nel 553 i generali bizantini consegnano l’Italia a Giustiniano, ma un’Italia distrutta. Non esiste quasi più nulla di funzionante. Almeno Giustiniano ha la possibilità di avere un controllo, sebbene parziale, dell’Occidente. Il secondo scopo è dare ai territori la stessa dignità imperiale del passato, attraverso la religione. Giustiniano appartiene a una fase in cui la religione cristiana è consolidata, però sono presenti forti eresie. L’obiettivo di Giustiniano, da sovrano cesaropapista, è estirpare le eresie. Non vuole solo conquistare l’Occidente, ma dare anche a tutti la religione cristiana cattolica. Il terzo scopo è riportare il diritto all’impero d’Occidente. Non c’è nulla di più autentico a Roma del diritto. Tutte le realtà del passato guardavano a Roma come ad un modello di civiltà giuridica. Non basta riconquistare l’occidente e convertirlo, bisogna anche riportarci il diritto. Giustiniano sale al trono nel 527. Tutto il disastro in Occidente è avvenuto. Le fonti sono difficilissime da conoscere. È eccezionale che qualcuno abbia un testo dell’antichità. Giustiniano, come prima cosa, individua una commissione. Trova dei giuristi che obbediscano ai suoi ordini e che abbiano la competenza necessaria per salvare il diritto di Roma. Il giurista più importante tra questi è Triboniano. Egli è l’artefice di questa grande operazione giuridica. Questo grande giurista ha i testi delle fonti. Dispone di quelle opere che sono andate altrove distrutte. Nella sua biblioteca personale ha raccolto buona parte delle fonti della giurisprudenza classica. Triboniano è l’unico che dispone di questo materiale. Per non cominciare da un’impresa troppo complessa, Giustiniano ordina come prima operazione da realizzare che questa commissione selezioni le leges, ossia le costituzioni imperiali. Questa operazione non è complessa. La commissione deve arrivare alla cancelleria imperiale e prendere le costituzioni prodotte nel passato; selezionare quelle che non sono state abrogate, e quelle che non sono troppo vecchie o inutili; cercare di dare una forma armonica. L’operazione che inizialmente deve fare la commissione è semplice. Nel passato (438) c’era riuscito anche un imperatore come Teodosio, che aveva meno mezzi di Giustiniano. Questo genera una raccolta che si chiama Codex Iustinianum.
Perché mai questa raccolta è chiamata “codice”? Codice, in latino arcaico, vuol dire legno. Perché si parte dal legno? I Romani, ben presto, utilizzarono il legno come materiale scrittorio. Non scrivevano sul legno, ma scavavano il legno e lo riempivano di cera. Si arriva alla tavoletta cerata. Questa tavoletta è utilissima per scrivere: utilizzando lo stilo (sorta di penna con punta) si graffiava la cera e si scriveva. Dall’altra parte lo stilo aveva una spatula, una specie di superficie liscia che poteva servire a spandere la cera. Se facevo un errore, potevo facilmente utilizzare la spatola per correggere. La tavoletta cerata è utilissima perché può essere utilizzata infinite volte riespandendo la cera. Però la tavoletta cerata, da un punto di vista giuridico, presenta un problema. Posso anche usare la tavoletta cerata per scrivere un atto giuridico, però è facilmente alterabile. Allora ci penso bene prima di scrivere un atto importante sulla tavoletta cerata. Allora i romani ricorsero a una strategia. Se prendo due tavolette cerate e le metto una contro l’altra e sigillo i margini, a quel punto il contenuto non è più alterabile. Potrò alterare in contenuto solo dopo aver rotto i sigilli, ma è chiaro che la rottura del sigillo comporta la perdita di valore del documento. Si passa dal legno, alla tavoletta cerata, a una forma scrittoria, cioè a qualcosa di simile a un libro moderno (tavolette cerate unite a margine e chiuse da un sigillo). Ma i romani non scrivevano sulle tavolette cerate. Il materiale normalmente utilizzato per la scrittura era il papiro. La tavoletta cerata viene utilizzata solo perché è più resistente del papiro. Il papiro, sostanza vegetale, è soggetto alle vicende del tempo. La tavoletta cerata dà maggiore sicurezza. Ma se devo scrivere un’opera lunga e complessa non posso usare le tavolette cerate, ma il papiro. Il papiro però è fragile. Nel punto di giuntura si rompe. Per questo l’unico modo per utilizzare il papiro è unire un foglio dopo l’altro. Una volta riuniti in un unico grande foglio, l’unico modo per conservarlo è avvolgerlo, arrotolarlo. I romani scrivevano così. Avevano dei rotoli di papiro. Nelle sinagoghe la Torà è conservata così. Per i romani questo sistema andava benissimo. Quando si deve leggere un’opera si va dall’inizio alla fine. Si è interessati allo sviluppo della storia. Quando si deve consultare un testo giuridico, questa forma si rivela inutile e scomoda. Si cerca una sola norma, non si intende leggere tutta l’opera. Questo forma, per i testi giuridici, è sconveniente. La forma ideale è quella invece delle tavolette cerate cucite sul dorso. In questo modo, sfogliando le parti dell’opera, si trova immediatamente il testo normativo cercato. Ecco che nella lingua romana si passa da legno, a tavoletta cerata, a forma del libro, al contenuto di quel libro. Il codice è il libro che contiene diritto. Ecco perché Teodosio utilizza questo termine e perché Giustiniano riprende la stessa espressione. Quando la commissione sistema le costituzioni imperiali dà a questa raccolta il nome di codice. Di questo codice però non sappiamo quasi più nulla: abbiamo solo un frammento di indice conservato per puro caso. Di questo codice non abbiamo niente. Alla commissione viene poi chiesta una enorme fatica da Giustiniano: sistemare gli iura, le opere delle giurisprudenza classica. Roma aveva prodotto una montagna di opere di dottrina. Era evidente che non era possibile trasmetterli tutti ai secoli successivi. Le vicende storiche avevano dimostrato che ormai questo patrimonio era troppo ricco. Giustiniano dà a Triboniano un ordine chiaro: scegliere. Non si può salvare tutta la giurisprudenza di Roma. Se si vuole cercare di salvare il salvabile si devono fare delle scelte. Triboniano ha di fronte a sé l’immane mole della giurisprudenza classica e deve togliere le ripetizioni, contraddizioni, incongruenze. Triboniano deve studiare tre secoli di storia di scienza giuridica e scegliere l’essenziale. Gli storici oggi non sanno neanche come ci sia riuscito. Anche se organizza il lavoro in commissioni, il patrimonio che doveva selezionare era immenso. Per i pochi giuristi di Costantinopoli era un’impresa titanica. In tre anni (tempi brevissimi) fanno un’operazione di scelta complessa. Possiamo leggere Giustiniano: “Era in vera cosa meravigliosa porre in perfetto equilibro la legislazione romana, malferma a causa delle guerre civili, a partire dalla fondazione di Roma fino ai tempi del nostro impero, comprendendovi anche le costituzioni imperiali, cosicché non vi si rinvenisse sulla di contraddittorio, di ripetuto, di somigliante e che non vi incontrassero per nessun motivo leggi duplicate sotto la rispettiva materia. Fu questo certamente un risultato singolare della provvidenza divina, irraggiungibile dalla debolezza umana. Perciò noi, secondo la nostra abitudine, ci rivolgemmo al presidio dell’immortalità, e invocata la protezione del sommo Iddio chiedemmo che Egli stesso fosse in un certo modo l’autore e la guida dell’intero nostro lavoro. A Triboniano affidammo l’impegno e il peso del coordinamento, affinché egli, con altri illustri e dottissimi uomini realizzasse i nostri comuni desideri. Tutto fu compiuto con l’energia che il Signore Dio nostro infuse a noi e ai nostri collaboratori. Dapprima nel codice che si onora del nostro nome, il codice giustinianeo, comprendemmo le costituzioni dei principi divisi in 12 libri. Poi, ponendo mano alla più grande delle imprese, affidammo allo stesso illustre personaggio Triboniano di raccogliere e di coordinare con un ordine preciso le opere più dotte dell’antichità, ormai confuse e frammentarie. Quando esaminammo il tutto Triboniano ci fece presente che erano stati scritti dagli antichi quasi 2000 libri e oltre tre milioni e diecimila righe, e che sarebbe stato indispensabile leggerli, approfondirli e trarne il meglio. Si raccolse così in 50 libri quanto vi era di più utile e furono risolti tutti i dubbi senza che ne restasse alcuno. […] In tanto la nostra maestà, con l’osservanza attenta e continua di ciò che essi compilavano, scioglieva qualunque dubbio o incertezza di si rinvenisse; emendava con l’aiuto divino e redigeva il tutto in forma conveniente”. Circa 1400 anni di storia di legislazione. La commissione fu così oculata da eliminare le ripetizioni. Quest’opera fu poi fatta grazie all’intercessione di Dio. L’opera fatta dalla commissione è un’opera divina. Gli uomini del medioevo prenderanno queste fonti come la volontà di Dio. La commissione di Triboniano sta selezionando il meglio. Si confronta per la prima volta con queste 2000 opere lette tutte insieme. Viene fuori non solo che ci sono ripetizioni, però accade talvolta che nel corso di tre secoli i giuristi non siano d’accordo. La lettura degli stessi principi può non essere omogenea. Fatto sta che la commissione di Triboniano si trova di fronte a un problema insolubile. In molti casi sono state espresse dottrine diverse ugualmente valide e autorevoli sullo stesso punto giuridico. Non si possono conservare tutte e due, perché altrimenti questa commissione di Triboniano non farebbe chiarezza. Il compito di Triboniano è consegnare ai secoli successivi una raccolta normativa sempre, facile e immediata. Se Triboniano conservasse i dubbi del diritto romano classico rischierebbe di rendere inutile la sua opera. Deve per forza risolvere questi dubbi. Questi dubbi possono essere risolti non dalla commissione, ma dall’imperatore. Questo perché nell’epoca di Giustiniano vale il principio dello ius respondendi autoritate principis. L’unica fonte del diritto è l’imperatore. La giurisprudenza ha smesso di essere fonte normativa. Se è così, i dubbi della giurisprudenza vengono sciolti dall’imperatore. Tutte le volte che la commissione si scontra su un conflitto tra le fonti, Triboniano interroga l’imperatore. L’imperatore, tutte le volte, risponde prendendo una decisione. Questi dubbi sollevati all’imperatore sono cinquanta. Non a caso, per realizzare il Digesto l’imperatore prende le quinquaginta decisiones. Sono 50 decisioni su punti decisivi che consento alla commissione di arrivare a completare il suo lavoro. Solo perché l’imperatore fa queste scelte la commissione è in grado di selezionare le fonti e organizzarlo in un tutto armonico. Dopo tre anni la commissione consegna a Giustiniano l’espressione più alta possibile dell’epoca: una raccolta di iura in 50 libri che prende il nome di Digesto (digerere, esporre ordinatamente) o Pandette (pan dekomai, guardo tutto assieme). Con quest’opera posso avere una visione complessiva del diritto di Roma. La commissione ottiene un risultato incredibile: la scelta del meglio della giurisprudenza romana. Tutto nel Digesto.
Quando è stata fatta la prima scelta delle fonti delle costituzioni imperiali, queste cinquanta decisioni imperiali necessarie per creare il Digesto non erano state ancora prese. Siccome l’imperatore, in queste 50 scelte, ha dato vita a una selezione fondamentale su punti molto controversi del diritto romano, decidendo che un tipo di ricostruzione doveva essere tenuta come valida e l’altra doveva essere abbandonata, risulta che la scelta fatta prima, quella sulle costituzioni, deve essere rifatta e deve tener conto delle novità contenute nella redazione del Digesto. Ecco che nel 534, dopo la promulgazione del Digesto, la stessa commissione deve fare una nuova scelta delle fonti normative. Crea quello che viene chiamato Codex repetitae prelectionis, codice di scelta ripetuta. Il primo codice viene abbandonato; l’unico ad essere trasmesso è il codice di scelta ripetuta. Nel 534 abbiamo da una parte il Digesto (iura), dall’altra il Codice (leges). Giustiniano ordina alla stessa commissione di fare un’opera più semplice ma altrettanto utile. Gli studenti di primo anno che si iscrivono alle università di Bisanzio non riescono ad affrontare direttamente il Digesto. È un testo troppo complesso e vasto. Allora Giustiniano ordina di creare il testo delle Istituzioni. Le istituzioni vengono concepite come un discorso fatto dall’imperatore alla cupida legum iuventus. Le istituzioni contengono lo stesso contenuto del Digesto ma in forma molto più semplice. A quel punto lo studente, invece di iniziare con l’esame delle fonti del Digesto, studia nel suo primo anno le istituzioni. Avrà così una formazione minima però sufficiente per avere quell’idea complessiva necessaria per leggere il digesto senza rimanere schiacciati dalla mole dell’opera. Giustiniano pensa anche agli studenti che devono cercare di acquisire quella conoscenza giuridica. A questo punto l’opera di Giustiniano è finita. Abbiamo la raccolte delle leges (codex), la raccolta di iura (Digesto) e ci sono pure le istituzioni. Nel 534 tutta la fatica è completa. Qui nascono due ordini di problemi. Nel 534 non è neanche iniziata la guerra per la conquista dell’Italia. Giustiniano ha ottenuto l’obiettivo che cercava (salvare il diritto romano) ma no può trasmetterlo a Roma.Tutti questi iura sistemati in Oriente sono nati a Roma. L’opera militare deve ancora iniziare. Occorreranno ancora venti anni. Il primo problema di Giustiniano è attendere a lungo prima di ripristinare l’impero. Solo nel 553 potrà sperare di trasmettere la sua raccolta in Italia. Nel 554, con la pragmatica sanctio, riuscirà nel suo scopo. Giustiniano finge questa pragmatica sanctio pro petitione Vigilii. Giustiniano finge che Papa Vigilio chieda all’imperatore la trasmissione della raccolta all’Italia. L’imperatore estende la raccolta anche per partis occidentis. Purtroppo, l’occidente si restringe alla sola Italia. La trasmissione della compilazione bizantina avviene nel 554. Giustiniano muore nel 565. Giustiniano è un personaggio esuberante: è contento di questa raccolta, però per preservare la raccolta nel migliore dei modi dovrebbe evitare di fare nuovo diritto. Se anche lui fa una norma nuova, la raccolta invecchia. La norma nuova non sarebbe contenuta nel codex. Allora Giustiniano, per un po’ di tempo, rinuncia a creare nuove norme. Però, a un certo punto della sua vita, riprende a dare costituzioni. Anzi, quest’attività normativa diventa sempre più intensa. Al momento della sua morte, dal momento che non è possibile inserire le nuove costituzioni nel codice, viene fatta una raccolta aggiuntiva. Queste nuove costituzioni sono le Novellae constitutiones, le Novelle. Non tutte le raccolte di novelle sono uguali. Ne esistono due, che avranno molte fortuna nei secoli seguenti. La prima è la raccolta autentica: Autenticum. Contiene i testi normativi esattamente come pensati e scritti da Giustiniano. Ma ce n’è anche un’altra: l’Epitome Iuliani, il riassunto di Giuliano. Questo Giuliano fa una selezione delle novelle di Giustiniano e scrive questa epitome. Nel corso dei secoli successivi le novelle di Giustiniano avranno due diverse redazioni: l’Autenticum e l’Epitome Iuliani. A seconda di quale delle due raccolte verrà utilizzata nei secoli successivi, noi potremmo stabilire la profondità giuridica di quel periodo. Questo chiude il quadro della raccolta di Giustiniano. Queste quattro parti costituiscono complessivamente quello che nei secoli successivi verrà chiamato Corpus Iuris Civilis (Codex repetitae prelectionis, Digesto, Institutiones, Novellae). Questo quadro normativo verrà nei secoli successivi chiamato corpus perché verròà considerato proprio un corpo; non solo una raccolta, una somma, ma un corpo. La convinzione che quest’opera sia stata realizzata per intervento divino, farà sì che nel futuro chi leggerà questa raccolta saprà di trovarsi di fronte a un insieme di testi che devono essere per definizione omogenei. Non possono in nessun modo essere contraddittori. Dio non si contraddice. Siccome quest’opera è stata realizzata per intercessione divina, tutto quello che è contenuto all’interno è espressione di Dio. Ciò che è all’interno è come un corpo, in cui ogni parte è indispensabile per il funzionamento dell’insieme. Non è una semplice somma di parti. Non era possibile isolare un solo frammento. Giustiniano ottiene questo risultato meraviglioso. Il diritto romano stava per essere definitivamente perso, ma Giustiniano fa una scialuppa di salvataggio per il meglio dei giuristi di Roma. Questo poco è già tanto rispetto alla situazione dell’epoca. Se non si fosse fatto così non sarebbe rimasto niente del diritto romano. Però la storia gioca un brutto tiro a Giustiniano. Egli, con quest’opera, crede veramente di aver risolto i problemi giuridici della sua epoca. Giustiniano è solo uno dei tanti imperatori che si succedono sul soglio imperiale. Bisanzio cadrà solo nel 1453. Questo vuol dire che gli imperatori successivi a Giustiniano inizialmente tengono in gran considerazione questa raccolta, la utilizzano e la rispettano, ma poi se ne distaccano, ne fanno altre. C’è una raccolta che diventa fondamentale per l’oriente che è la raccolta dei Basilici (le cose imperiali, le norme imperiali). Questi Basilici, due secoli dopo, soppianteranno completamente la raccolta di Giustiniano. Giustiniano pensava di aver creato un’opera definitiva nella storia, destinata ad attraversare i secoli, e invece gli imperatori successivi se ne discostano completamente. Anche in Occidente la raccolta di Giustiniano vigerà poco. La conquista dell’Italia, avvenuta nel 553, non dura a lungo. Giustiniano muore nel 565 e tre anni dopo arrivano in Italia i longobardi, barbari ancora più feroci, che producono una distruzione ancora maggiore rispetto al passato. L’Italia cade nelle mani dei longobardi e i bizantini rimangono confinati in pochi territori di margine. Anche il diritto romano, ripristinato da Giustiniano, segue la stessa sorte del dominio bizantino. In oriente gli imperatori successivi abrogano la raccolta di Giustiniano, in occidente l’arrivo dei longobardi distrugge la memoria di Giustiniano. La beffa della storia sarà che questa opera sarà veramente fondamentale. Noi, come attuale cultura giuridica, siamo basati sul corpus iuris civilis di Giustiniano. Dipendiamo strettamente da quell’opera. L’arrivo di quell’opera a noi non dipenderà dalla forza di Giustiniano, ma da un puro caso fortuito della storia. Dopo il 604, data in cui c’è l’ultima citazione del Digesto, in occidente di quest’opera non si saprà più niente. Quest’opera rimarrà dimenticata. In quei secoli, le poche copie prodotte subiscono una sorte ingrata. Se queste opere no vengono trascritte, inevitabilmente muoiono, perché il materiale su cui sono scritte deperisce. Per un puro caso della storia, nell’XI sec. questa raccolta tornerà ad essere riconosciuta. Forse era rimasta solo una copia. La copia viene riscoperta e quel testo diventa la base per lo studio del diritto. Dall’XI sec. in poi lo studio del diritto sarà impostato sulla conoscenza dell’opera di Giustiniano. Conoscere il diritto vorrà dire conoscere l’opera di Giustiniano. Però c’è questo singolare intervallo della storia (604-XI sec.).

Medievale Nov 6
Giustiniano ha cercato di far sopravvivere il mito di Roma con la riconquista dell’Occidente, con il mantenimento del cattolicesimo e del diritto (Corpus Iuris Civilis). Questo suo impegno fu destinato all’insuccesso, almeno per quanto riguarda le sue speranze di riconquista dell’occidente. Infatti, nel giro di poco tempo, dopo tre anni, l’Italia venne invasa dai Longobardi. Dobbiamo occuparci di questo popolo. Nel 569 il popolo dei Longobardi, guidato da Alboino, varca le Alpi e arriva in Italia. È un popolo molto più feroce dei precedenti. Il fatto che queste popolazioni arrivinino da territori sempre più lontani rispetto alla civiltà dell’impero romano porta il fatto che queste popolazioni non hanno avuto il tempo di abituarsi alla civiltà romana. Portano con sé un modello di civiltà molto più arretrato. Non a caso i Romani danno a questa popolazione il nome di Longobardi (uomini dalle lunghe barbe); una popolazione considerata diversa già nell’aspetto esteriore. Si tratta di popolazioni considerate pericolosissime. I Longobardi arrivano, come tutti gli altri popoli nomadi, con tutto l’assetto del popolo. Non viene solo l’esercito, ma un popolo-esercito (uomini, donne, bambini, masserizie, armenti). Questo porta a un tipo di conquista non di indole strategica. Fanno una guerra esclusivamente per trarre a loro vantaggio dei territori sufficienti per insediarsi. Il loro obiettivo non è dominare l’intera penisola, ma garantirsi lo spazio vitale, i territori migliori. In particolare, questi barbari, che hanno per tutta la loro esistenza combattuto a cavallo nelle steppe dell’est, non hanno mai avuto esigenza di affrontare il problema della navigazione. Quindi i longobardi evitano a priori i disagi, i problemi della navigazione. È questa la ragione per cui quando i longobardi arrivano nel Veneto (prima provincia romana), i romani, impauriti e preoccupati, pensano che la cosa più semplice sia mettere del mare tra sé e gli invasori. I romani, stanziati nel Veneto, vanno a colonizzare alcuni scogli in mezzo al mare: nasce così Venezia. I romani preferiscono fuggire in mezzo al mare che rischiare la dominazione longobarda. I longobardi non hanno alcun interesse a conquistare quelle isole. Allo stesso modo questa invasione dei longobardi non tocca tutta l’Italia. Come abbiamo detto, non solo Venezia rimane salva, ma ci sono delle zone dell’Italia che i Longobardi non hanno la forza di conquistare. Siccome i longobardi sono un popolo-esercito, la loro forza di conquista si esaurisce man mano che procedono nella conquista della penisola. Gradualmente i barbari vedono alcuni pezzi del loro popolo staccarsi e colonizzare alcuni territori. Per esempio in Veneto una tribù del popolo si isolò dal resto del popolo è conquistò quella terra. Questi gruppi di conquista longobardi prendevano il nome di farae. Non a caso, ancora oggi molte città italiane conservano il nome di Fara (per es. Fara Sabina). Mano a mano che il popolo si ferma nell’attività di conquista, la forza di penetrazione dei longobardi diminuisce. Tanto è vero che i longobardi finiscono la loro attività di conquista con gli ultimi due ducati: il ducato di Spoleto e il ducato di Benevento. Sotto Benevento non scendono. Lasciano questi territori ai Bizantini. A questo punto l’Italia viene divisa tra Longobardi (nella parte centrosettentrionale) e Bizantini (nella parte meridionale). Per lunghi secoli ancora il territorio meridionale subirà l’influenza greca. La Puglia, la Calabria, la Sicilia rimarranno ancora a lungo sotto questo controllo da parte di Bisanzio. Bisanzio conserverà anche quei territori che sono più difendibili. Dal momento che i longobardi non hanno dimestichezza con la navigazione, i territori più difendibili saranno quelli lungo le coste, saranno le città portuali, dove, in caso di attacco longobardo, sarà facile imbarcarsi, fuggire, e tornare con nuove armi per conquistare il territorio. Ecco perché la presenza bizantina in Italia continua ad essere concentrata a Ravenna. A Ravenna le chiese più importanti sono di bizantine. I bizantini rimangono a Ravenna e nella Pentapoli (cinque città). Altre sopravvivenza sono in Liguria, a Roma e a Napoli. Si genera questa singolare situazione di compresenza di forze. I longobardi, in questa loro attività di conquista, gradualmente si sgretolano nel territorio. Fino al momento dell’arrivo in Italia erano un popolo-esercito, quindi erano compatti, con l’arrivo in Italia devono distribuirsi in tribù che vanno a prendere collocazione nelle varie zone, formando quelli che loro chiamano i ducati. Tutta l’Italia è divisa in ducati longobardi. Dal punto di vista giuridico, anche i longobardi si trovano a affrontare lo stesso problema che abbiamo visto caratterizzare le altre popolazioni barbariche. Il loro diritto è un diritto consuetudinario orale. Con lo stanziamento in un territorio, con la dispersione del popolo in vari ducati, con la divisione delle tribù si pone il problema della memoria del diritto. A quel punto, un diritto che era garantito solo dalla memoria individuale degli anziani del popolo, comincia ad essere affidato a tribù che non vivono più assieme. È ovvio che questa memoria, nel corso dei decenni, tenda a subire diversificazioni nei vari territori. In buona o in mala fede, può darsi che le varie tribù comincino a ricordare in maniera differente il diritto del popolo. A noi interessa soprattutto questa vicenda. C’è una celebre e importante attività di produzione normativa che va attribuita a un re longobardo di nome Rotari. Rotari, nel 643, si trova di fronte a un problema grave per risolvere un episodio del suo popolo. Il diritto barbarico ancestrale prevedeva per il diritto penale una precisa indicazione: la sanzione da infliggere al reo è la pena del taglione (occhio per occhio, dente per dente). È un meccanismo di punizione del crimine brutale ma anche estremamente chiaro. Si applica al reo il medesimo comportamento che ha prodotto verso la vittima. Il re longobardo, come tutti i re barbarici, ha fondamentalmente due compiti: mantenere la pace interna e garantire la difesa dall’esterno. Rotari, come re longobardo, non può ignorare il fatto che questa pena del taglione, efficace per tanti secoli fino a quando il suo popolo era stato un popolo nomade, dopo lo stanziamento in Italia ha cominciato a non funzionare più. Con lo stanziamento in Italia le varie tribù hanno cominciato a identificarsi con il luogo in cui si sono dislocate. Le varie tribù hanno cominciato anche a diversificarsi anche per quanto riguarda la loro importanza, potere, ricchezza, forza. Inizialmente erano tutte parte dello stesso popolo, poi con il radicamento in un territorio alcune hanno avuto la possibilità di crescere meglio di altre, e quindi alcune sono diventate più potenti. Quando un membro di una tribù commette in crimine e crea un danno a un membro di un altro tribù, per la pena del taglione bisognerebbe prenderlo e infliggergli la stessa pena. Ma se fa parte di una tribù ricca e potente, è inevitabile che questa tribù si schieri a suo favore per impedire che venga assoggettato a una pena così brutale. Questo genera la reazione rabbiosa della tribù che non vede punito il colpevole. C’è una tribù che protegge il reo e un’altra che pretende la sua punizione. Se la tribù che protegge il reo è più potente, può impedire questa punizione. Questo non vuol dire che l’altra tribù dimentichi ciò che è accaduto. Allora è inevitabile che tra le varie tribù nasca quella che oggi chiamiamo con termine barbarico faida. Invece della semplice soluzione di indole penale, tra le due tribù nasce una guerra che si protrae per generazioni. Le due tribù continueranno a covare rancore reciproco e in tutte le occasioni possibili cercheranno di danneggiarsi vicendevolmente. In re, che deve salvaguardare la pace sociale e la difesa dall’esterno, vede la faida come la peggiore delle situazioni possibili. La faida impedisce la pace sociale e comporta il fatto che i più giovani, invece di essere pronti alla guerra, si trovano a uccidersi tra loro. Allora il re deve assolutamente evitare la faida. Rotari, nel 643, decide di cambiare il diritto ancestrale del suo popolo: la pena del taglione non è più adatta. Come risolve questa difficoltà, e quale strumento usa? Al posto della pena del taglione quale pena poteva sostituirsi? A nessun sovrano del passato sarebbe mai venuto in mente una pena come la reclusione. La reclusione, che costituisce per noi la normalità, è nata da poco più di un secolo. Allora Rotari inventa un sistema di composizioni pecuniari: una serie di tariffe corrispondenti ai vari reati. Ogni comportamento delittuoso, nell’editto di Rotari prevede uno specifico pagamento. Per ogni reato è prevista una somma da pagare. L’editto di Rotari è una meticolosa analisi di tutti i comportamenti possibili e tutti i pagamenti relativi: “Se qualcuno taglierà il naso ad un altro, pagherà la metà del suo valore, se qualcuno taglierà in labbro ad un altro pagherà un patteggiamento di 16 soldi…”. Il pagamento della somma è considerato accettabile perché non prevede che il responsabile sia sottoposto a una sanzione crudele come quella commessa. È meglio pagare 16 soldi che vedersi rompere un dente. Anche il gruppo familiare del criminale sarà più propenso a pagare per estinguere il suo debito penale. Oltretutto, questo pagamento non va tutto alla tribù dell’offeso; va in parte anche al re. Quindi la tribù che volesse rifiutare la composizione pecuniaria, si ribellerebbe al re. Per questo il pagamento diventa normale; se così non fosse, si violerebbe l’autorità del re. Che si fa nell’ipotesi dell’omicidio? C’è una forma di pagamento particolare: il c.d. guidrigildo. Il guidrigildo è una latinizzazione di due parole barbariche: widar (contro), geld (prezzo). Il guidrigildo è il contro-prezzo corrispondente al valore della vita dell’ucciso. E questo contro-prezzo non è sempre lo stesso. Il valore dei nobili è diverso da quello dei semiliberi, dalle donne, dagli schiavi. Il valore dipende dalla persona dell’ucciso. Pagando questo guidrigildo si evita di essere assoggettati alla pena capitale. La stessa cosa accade nei crimini gravissimi. Tutto questo sembra remoto, invece ben sei secoli dopo, nel 1200, un poeta scriverà una canzone d’amore: si tratta di Cielo d’Alcamo. Cielo d’Alcamo scrive questa canzone d’amore tra un pretendente e una donna che cerca di rifuggire da queste richieste. Il pretendente gli dice: “Stai attenta, se sei troppo schizzinosa, andrà a finire che io ti farò violenza”. La donna risponde: “Attento, se mi fai violenza, nel castello ci sono i miei parenti e te la passerai male”. Ma così risponde il pretendente: “Che problema c’è, ci piazzo due augustari, e dico ‘Viva l’imperatore e grazie a Deo’”. Il pretendente non sta facendo altro che applicare una forma di composizione pecuniaria prevista nel meridione d’Italia dall’editto di Rotari. “Ci piazzo due augustari” è una forma di composizione che prevedeva di evitare sanzioni: se chi aveva commesso il crimine della violenza si dimostrava disponibile a tirar fuori due augustari (monete imperiali di grande valore) sarebbe poi stato con la coscienza a posto se inoltre, come atto rituale, avesse detto “Viva l’imperatore grazie a Deo”, ossia “ho pagato questa somma per il mio debito criminale, nessuno mi può più toccare”. A quel punto chi lo avesse toccato si sarebbe messo contro l’autorità penale. Rotari, con questa sistemazione del diritto penale, dà un nuovo assetto al suo popolo. Rimane ancora da chiedersi quale strada percorre per fare tutto questo. L’editto sostituisce la pena del taglione e inserisce la composizione pecuniaria, ma Rotari ha l’autorità per fare tutto questo? No, perché il re delle popolazioni barbariche ha solo due compiti: pace sociale interna e difesa dall’esterno. Il re barbarico non ha poteri normativi. Tutti i componenti del popolo barbarico sono arimanni, cioè sono uomini liberi. Non accettano ordini da nessuno a meno che non si siano impegnati a farlo. Accettano l’autorità del re solo nelle sfere in cui gli hanno giurato fedeltà. Fuori da quegli ambiti il re non può nulla. Il re è solo un nobile come loro, un primus inter pares. Rotari, tutto questo, d’autorità, non lo può fare. Se tutto il diritto del suo popolo è consuetudinario, tutto questo è determinato dal fatto che si tratta di uomini liberi. Perché ciascuno di loro accetti l’obbedienza ad una norma, occorre che vi abbia spontaneamente aderito. La consuetudine è la partecipazione collettiva alla produzione della norma. Ecco perché si riconosce l’autorità della consuetudine. La consuetudine si è formata solo perché tutti lo hanno voluta nel corso di tanto tempo. Ora però si tratta di modificare il diritto, e non si può aspettare la modificazione della consuetudine. Bisogna pervenire in modo diverso. Rotari aspetta una situazione propizia: ha portato il suo popolo ha combattere contro i bizantini. In Liguria i longobardi hanno vinto contro i bizantini. Ritornano a Pavia, capitale del regno longobardo, con tutto l’esercito innanzi. Questa è la situazione propizia perché di fronte al re non c’è solo l’esercito, ma c’è la totalità dei longobardi in grado di avere capacità giuridica, in quanto nelle popolazioni barbariche la titolarità dei diritti coincide con la capacità di portare le armi. Sono titolari di diritti solo coloro che sono in grado di difendere sé stessi e il popolo. Ovviamente sono sprovvisti di diritti le donne, i romani (schiavi), i giovani e gli anziani. Tutti i titolari di diritto della popolazione longobarda è presente nell’esercito, davanti a Rotari. Allora Rotari, propone il cambiamento normativo. Ovviamente non può imporlo. Comunica al popolo la necessità di provvedere a un cambiamento normativo. Dopodiché aspetta; aspetta che il popolo esprima il suo parere. Dal momento che il diritto delle popolazioni barbariche è un diritto fatto da tutti, allo stesso modo anche una modifica del diritto consuetudinario non può che passare attraverso il consenso unanime da parte di tutti. Quindi perché ci possa essere un cambiamento della pena del taglione, occorre che tutti siano d’accordo in questo cambiamento. L’esercito, se è d’accordo, utilizza gli strumenti che garantiscono ad ogni uomo libero la qualità di uomo libero, cioè le armi. Perciò, per esprimere al re la sua volontà normativa, sbattono assieme lo scudo e la lancia. Fanno quella manifestazione di volontà che col termine barbarico è chiamata gairethinx, e che i latini traducono con percussio armorum. Il re propone; aspetta la risposta e il popolo acclama col gairethinx. È un antesignano del moderno applauso. Il re registra il consenso unanime e introduce la novità nel popolo barbarico. Ecco un esempio di trasformazione legislativa nel regno dei longobardi. I longobardi portano le loro consuetudini orali ma si trovano anche nella necessità di modificarle. Per farlo, seguono il percorso del gairethinx e Rotari introduce le novità in ambito di diritto penale. Sia pur con differenze, problemi analoghi vengono affrontati anche dalla chiesa. La chiesa si trova molto spesso a dover affrontare il problema dei confessori e delle pene che questi confessori danno ai penitenti. Dal momento che la chiesa è diffusa su un territorio estremamente vasto, il problema che si verifica è che in territori diverse le penitenze date dal confessore sono diverse da quelle date in un altro territorio. In una chiesa cattolica si percepisce con stranezza una differenza profonda data per lo stesso tipo di peccato. Per venire incontro a queste disparità, nell’alto medioevo (V-VI sec.) nascono i libri penitenziali, ossia libri scritti ad uso dei confessori perché abbiano una sorta di parametro. Non è solo un problema di diritto penale ma si presenta anche per la chiesa.
Vediamo alcuni singoli istituti del diritto barbarico. Prendiamo in esame alcune delle caratteristiche del diritto longobardo. Capacità giuridica della donna. La donna, nel sistema longobardo, era sub mundio. C’era questo forma di tutela, il mundio, che identificava una totale dipendenza della donna da chi aveva il mundio su di lei. La donna nasceva in una determinata tribù. Il capo tribù aveva il mundio su di lei. In occasione del matrimonio la donna veniva trasmessa all’altra tribù che acquisiva anche il mundio sulla donna. Le donne longobarde rimangono sbalordite del fatto che le vedove romane godono di una tutela giuridica infinitamente superiore rispetto alle donne longobarde. Anche le donne longobarde che diventano vedove, rimangono comunque sub mundio, cioè sotto guida di un uomo. Le donne romane, invece, che ereditavano il sistema giuridico romano, avevano una tutela delle loro capacità giuridica infinitamente superiori (sui iuris, non più alieni iuris, come nel caso del matrimonio). Le donne longobarde chiedono al re l’adeguamento del loro diritto a quello delle donne romane, e il re longobardo lo nega, perché ritiene che sarebbe eccessivamente dirompente nel sistema giuridico longobardo inserire questa forma di tutela del diritto romano. Questa condizione è importante perché chi svolge il ruolo di affrancamento della donna da questa situazione di sottomissione è la chiesa. L’istituto che costituiva per antonomasia l’espressione della tutela della protezione della donna era il matrimonio in quanto in occasione del matrimonio, a fronte di un prezzo, la donna, quasi a livello di merce, veniva trasmessa da una tribù all’altra. La donna non aveva alcuna capacità critica, di giudizio o di valutazione. Era solo oggetto dello scambio. Quando, in questo contesto mercantile, si inserisce l’idea cristiana del matrimonio come sacramento, questo quadro cambia. Il sacramento non può essere somministrato a chi non lo desidera. Perché il sacramento abbia luogo, occorre che per la prima volta nella storia delle tradizioni germaniche, la donna esprima la volontà, il desiderio di contrarre matrimonio. La chiesa impone ai barbari di prendere in esame il fatto che la donna non è più un oggetto di scambio ma un soggetto che esprime un proprio indipendente consenso. Senza questo valido consenso, non si può ritenere presente un matrimonio. Rimane il problema di stabilire come si esprime il consenso. Non esisteva una prescrizione ferrea su quale debba essere tecnicamente la formula con cui si esprime il consenso matrimoniale. Si pone il problema se il silenzio della donna debba essere considerato silenzio assenso; o quali parole debbano essere costituire l’oggetto del consenso matrimoniale. Questo è un problema di primaria importanza. Basta una generica espressione di volontà o occorre che ci sia una formula rituale precisa? In questa circostanza servono soprattutto a superare la visione barbarica della donna come oggetto mercantile, introducendo la volontà matrimoniale della donna. Altro profilo significativo del diritto barbarico è il diritto di proprietà. I barbari non avevano una concezione della proprietà paragonabile a quella dei romani. I romani avevano l’idea del dominium, ossia di una proprietà individuale, specifica, completa su un bene. Il dominus gode della titolarità di questo diritto esclusivo e assoluto sul bene; tanto che i romani parlavano di ius utendi et abutendi, cioè diritto di usare e di abusare il bene. Se non reco danno a nessuno, del mio bene posso fare quello che voglio. La concezione barbarica della proprietà era totalmente diversa. Essendo concepita la loro vita all’interno della tribù, i beni della tribù non erano di nessuno individualmente ma erano collettivamente della tribù. C’era una forma di proprietà collettiva, dove tutti collettivamente esercitano dei diritti indifferenziati e indistinti sulla totalità dei beni. L’intero patrimonio della tribù è soggetto a un controllo da parte di tutta la tribù e deve passare di generazione in generazione in modo da garantire alle generazioni future la stessa ricchezza. Se l’idea di proprietà è questa, per i barbari c’erano alcuni istituti romani di difficile comprensione e altri addirittura assurdi. Il concetto di compravendita è difficile per i barbari, perché vuol dire liberarsi di un bene. C’è sempre l’idea del contro prezzo (comprometto il patrimonio della collettività perché ne faccio uscire un bene) però è anche vero che entra un valore corrispondente quanto a entità. Non ho danneggiato complessivamente il patrimonio della tribù. È certo qualcosa di nuovo per i barbari. L’istituto veramente assurdo per i barbari è la donazione. La donazione è un atto di liberalità: mi privo di un bene a fronte di nulla. Nulla deve esser dato in cambio. Questo è veramente difficile da tollerare per i barbari. Un bene deve uscire dal patrimonio tribale a fronte di niente. Questo vuol dire compromettere la sopravvivenza della ricchezza per le generazioni future. In questo quadro interviene di nuovo la chiesa. La chiesa prevede in certe circostanze le donazioni o i lasciti testamentari pro anima. Mentre per i barbari il patrimonio deve essere un’entità intangibile nel tempo, non posso disporre di nessun bene di questo patrimonio, soprattutto a titolo di donazione. Chi interviene per far accettare ai barbari questi tipo di donazione è la chiesa. La chiesa prevede delle forme di donazione. Queste donazioni, per poter essere rese plausibili ai barbari, per non incorrere in questa loro ostilità nei confronti della perdita completa e assoluta di un bene, vengono concepite come donazioni pro anima, donazioni a favore dell’anima. Non sono donazioni come concepite dai romani, ovvero come puri atti di liberalità, ma sono donazioni che costituiscono degli atti di disposizione a favore della chiesa a favore della propria anima. In sostanza è come se si retribuisse delle messe in suffragio per l’anima. Diventa una sorta di compravendita, di scambio, non più una donazione. A quel punto i barbari possono cominciare anche a concepire questo tipo di istituto. Stessa con il testamento. Con il testamento non solo posso disporre di un bene a favore di un soggetto estraneo dalla tribù, ma realizzo anche qualcosa che i barbari non concepiscono: la volontà di una persona sopravvive alla persona. Per i barbari c’era un’esatta identificazione tra il soggetto fisico e la persona, la sua volontà. Avevano difficoltà a capire che una persona potesse esprimere una volontà destinata addirittura ad avere valore dopo la morte. Questi istituti, normalissimi per il diritto romano, per il diritto barbarico costituivano invece delle anomalie enormi. Per lungo tempo i barbari faticarono ad entrare in quest’ottica. Un istituto che costituisce applicazione piena del metodo barbarico di concepire il diritto e che non ha alcun parametro di riferimento nel diritto barbarico è il tipo di processo. Prima abbiamo parlato di Rotari, e della responsabilità penale. Rotari impone la composizione pecuniaria. Però non abbiamo detto come si fa ad ottenere la certezza della commissione di un crimine. Per avere la sicurezza di essere di fronte a un omicida è necessario un processo. Il processo romano per i barbari non sarebbe andato bene. Il processo romano è un processo scritto. I barbari non hanno la scrittura. Per loro il processo romano è inutile. Allora i barbari, per ottenere la sicurezza della commissione del crimine ricorrono ad una forma alternativa, che oggi chiamiamo ordalia, o processo ordalico. L’ordalia è il giudizio di Dio. Dal momento che non c’è certezza su chi sia il responsabile del crimine, il giudice può solo impiantare un giudizio di Dio. Di fronte a una persona che accusa un’altra di un crimine, si può solo istituire un duello, cioè un singolar tenzone. C’è uno scontro tra due persone. Se le persone sono in grado di combattere direttamente lo faranno loro, altrimenti nomineranno un campione, una persona che combatte il loro vece. Perché fare questo scontro? Perché si suppone che Dio sia presente in tutte le vicende umane. Conseguentemente, se il giudice istituisce un giudizio di Dio basata sulla competizione fisica tra le due parti, Dio non potrà essere assente da questo scontro. Se fa prevalere chi ha torto, commetterebbe una ingiustizia e Dio non può essere ingiusto. Se competono due parti e l’obiettivo di questa lite è dimostrare giudizialmente chi abbia ragione e chi torto, Dio non può rimanere estraneo a questa contesa: deve far prevalere chi ha ragione, altrimenti si dovrebbe presumere un Dio beffardo. Chi vince lo scontro deve aver ragione. Ecco il significato del duello giudiziario. Le due persone che si scontrano dimostreranno, attraverso l’intervento di Dio nel processo, chi ha ragione e chi ha torto. Alla fine del processo il giudice non farà altro che prender atto dell’esito della prova. L’esito del duello costituirà la soluzione del processo e comporterà l’inflizione della pena. La pena andrà inflitta a colui che risulterà perdente. Non è detto che si ricorra sempre ad un duello. Ci sono delle forme di crimine che non prevedono un’accusa. È ovvio che se io commetto un omicidio, ci sarà la famiglia dell’ucciso che mi accuserà dell’omicidio. Io accusato mi dovrò difendere, loro nomineranno un campione e si farà il duello. Ci sono però dei crimini che non prevedono questa forma di accusa. Il più grave, l’eresia (cioè la violazione delle verità di fede) non prevede un accusatore. L’accusatore, nell’ipotesi in cui non riesca a provare la colpa di colui che accusa, è assoggettato alla stessa pena. Chi accusa qualcun altro di eresia, se non riesce a dimostrare la colpa dell’altra parte, sarà lui sottoposto alla pena dell’eretico. E la pena dell’eretico è il rogo. Se accuso qualcuno di eresia e non riesco a dimostrare la sua colpa sono sottoposto al rogo. In questi casi è più difficile trovare un accusatore. Ma la conseguenza di questo sarebbe che la colpa dell’eresia rischierebbe di non avere mai sanzione, perché non ci sarebbe mai un accusatore. Allora, in questi casi, in cui si procede d’ufficio, la prova non può essere quella del duello. Allora vengono applicate delle prove ordaliche di altra natura, per ferro e per fuoco (o per acqua). Si sottopone la parte accusata ad alcune prove che devono dimostrare se Dio la protegge o meno. Il caso tipico che ancora oggi vediamo è la pirobazia, cioè il camminare sui carboni ardenti. La prova non è camminare sui carboni ardenti, ma dimostrare dopo qualche giorno di non aver riportato ustioni. Quello è l’intervento di Dio. L’intervento di Dio permette di violare le regole normali della natura, che comporterebbero delle ustioni e lesioni. Questo era il quadro che il giudice cercava di porre in essere: una prova di difficoltà a cui veniva sottoposto l’inquisito per vedere se era in grado di superarla con l’intervento divino. Una di queste prove era l’offa. Ancora oggi in italiano si dice “dare l’offa a qualcuno”. Dare l’offa a qualcuno vuol dire “costringere qualcuno a stare zitto”. L’offa era un prova ordalica basata sul fatto che l’accusato doveva ingoiare una palla di mollica di pane e formaggio. I casi erano due: o l’inghiottiva e allora voleva dire che Dio era dalla sua parte; oppure non la inghiottiva, moriva soffocato e ciò significava che era responsabile del crimine che gli era stato imputato. Questo è rimasto ancora oggi nel vocabolario italiano come espressione perché se date a qualcuno una palla di offa, questo non ha tanta voglia di parlare ma vuole soprattutto cercare di ingoiarla prima possibile per evitare di rimanere strozzato. Ancora oggi nella lingua italiana è rimasta questa menzione della prova ordalica. Abbiamo visto alcuni istituti barbarici: il mundio, la proprietà, il processo.
Ora ci occupiamo della fine dei longobardi. Il loro regno, che distrugge i sogni di Giustiniano, non dura moltissimo. I longobardi arrivano in Italia nel 569 ma tutta la loro storia, nel 774 è già finita. I problemi per i longobardi si pongo quando, attorno al 726, uno dei vari re longobardi porta guerra a Ravenna. Il re si chiama Liutprando. Egli è un re famoso; è il re della conversione dei longobardi al cristianesimo. Diventano fedeli del papato di Roma. Nel son passati di anni però dal 569 al 721, quando si convertono al cristianesimo. Questo stesso re Liutprando, nel 726, conquista Ravenna. I suoi predecessori non c’avevano provato perché l’attacco a Ravenna è assolutamente una operazione pericolosa e inutile. Ravenna è circondata da paludi. L’esercito che parte alla conquista rischia di trovarsi impantanato. Inoltre Ravenna è una conquista inutile perché i longobardi sono interessati a terreni fertili. Il loro obiettivo non è conquistare tutta l’Italia, ma avere per sé i territori migliori. Una palude non serve a niente. Per giunta Ravenna sta sul mare. È costantemente soggetta al rischio di una riconquista navale. Ma dal punto di vista politico Ravenna è la capitale in Italia del regno dei bizantini. Costituisce una meta ideale, un emblema da abbattere. Liutprando fa questa campagna militare e conquista Ravenna. A questo punto, colui che si preoccupa di più di questa realtà è il papa. La conquista di Ravenna rappresenta sì un fastidio per l’imperatore di Costantinopoli, ma rappresenta soprattutto un pericolo per il papa di Roma. Il papa, sulla base del principio gelasiano, regola le sue attività sulla convinzione che esista una doppia dignità, la dignità pontificia che si occupa delle cose spirituale e la dignità temporale dell’imperatore che si occupa delle cose terrene. Il papa demanda tutta la sua difesa e protezione all’imperatore. Il papa non si occupa di cose terrene. Quindi la sua sopravvivenza è compito dell’imperatore d’Oriente. Se viene conquistata Ravenna vuol dire che è messa il pericolo la presenza bizantina in Italia, e quindi che il papato è pericolosamente fragile ed esposto ai pericoli incombenti. Per evitare che il papa sia eccessivamente preoccupato per questa attività militare dei longobardi, Liutprando lo tranquillizza in un modo esplicito. Gli regala il Castello di Sutri. Poco a nord di Roma c’è la cittadina di Sutri. Essa costituisce una località di grande interesse perché è sulla via Cassia, la via principale di collegamento tra il nord e Roma. Controllare la cassia vuol dire evitare pericoli improvvisi per Roma. Liutprando sta dicendo al pontefice di fidarsi, e che non c’è alcun pericolo per Roma. Il regalo di questo castello che soprintende la cassia sta a dimostrare che Liutprando non vuole minacciare Roma. Possiamo citare questa donazione del castello di Sutri perché tradizionalmente la storiografia lo identifica come il primo atto di donazione da parte di un potere temporale alla chiesa. È il primo atto di costituzione del futuro Patrimonio di San Pietro. È la prima volta che la chiesa riceve un bene di così grande valore come una città o un castello. Per un verso il papa è preoccupato. Per l’altro i longobardi lo tranquillizzano regalando il castello di Sutri. In Oriente l’imperatore di Oriente, invece di cercare di riallacciare i rapporti con il papato di Roma, di rassicurare il papato della propria protezione, nel 726 proclama l’iconoclastia. L’imperatore d’Oriente non accetta il principio gelasiano. Egli pretende l’applicazione del principio del cesaropapismo. Afferma che nella sua persona vengono condensate le due autorità, temporale e spirituale. Per questa sua convinzione di essere anche il capo religioso della chiesa, proclama nel 726 l’iconoclastia, ossia dichiara che per i cristiani è pericoloso il culto delle immagini. È vietato raffigurare immagini nei luoghi santi, pena l’idolatria. Siccome l’imperatore d’Oriente presume di essere capo della chiesa, pretende di dare anche direttive in ambito teologico. Il papa di Roma non accoglie minimamente questa dottrina. Non ritiene di aderire all’impostazione dell’imperatore d’Oriente. Nasce una crisi. L’imperatore d’Oriente minaccia il papa di destituzione e di morte. Se il papa continuerà a negare il pericolo dell’iconoclastia, sarà costretto a deporlo e forse a portarlo in oriente e ucciderlo. È chiara la gravità della crisi fra le due autorità. Il papa, proprio nel momento in cui immagina di avere la massima protezione dall’oriente contro i longobardi, riceve invece questa delusione di un imperatore d’oriente che pretende di dare precetti in materia teologica e di punire il papa che non accolga quei precetti. La crisi viene risolta solo a livello diplomatico, però il solco è segnato. Il problema è grave e imporrà necessariamente una soluzione. È chiara ormai la lontananza tra questi due poteri. Questo problema si porrà di nuovo quando, dopo qualche anno, un altro re longobardo, riprendendo il programma aggressivo di Liutprando, riprende le campagne militari contro i bizantini. Nel frattempo Ravenna era stata riconquistata. Quest’altro re (siamo ormai nel 750 ca.) riprende le campagne militari e riconquista Ravenna. L’imperatore d’oriente, invece di riconquistare la capitale, ordina al papa di recarsi dal re longobardo e chiedere la restituzione di Ravenna. Ancora una volta l’imperatore d’oriente di comporta da imperatore cesaropapista. Dà per scontato che il papa sia un esecutore d’ordini; che l’impero d’oriente sia il vertice della gerarchia anche per la chiesa, e quindi il papa debba obbedire ad una direttiva dell’imperatore. Il papa di Roma, Stefano II, non può sottrarsi a quest’ordine dell’imperatore, e si reca dal re dei longobardi a chiedere la restituzione di Ravenna. A questo punto accade qualcosa che cambia definitivamente i destini di queste autorità: il re longobardo non solo rifiuta la restituzione di Ravenna, ma addirittura schernisce il papa, lo maltratta. Dal punto di vista diplomatico, il papa avrebbe potuto accettare anche un rifiuto, ma quello che il papa non poteva fare era accettare questa derisione. Dal momento che il papa non ha altre forze che la sua dignità morale (ricordate la lettera che segnava il principio gelasiano: l’imperatore ha la potestas, la maiestas, il papa ha l’auctoritas, la dignitas) al papa non resta niente altro. Il papa non può mettere in campo eserciti, ma solo tutta la sua superiore dignità morale. Se viene deriso questa dignità morale viene contestata così profondamente che non può più fare niente. Il papa avrebbe anche potuto accettare un diniego, ma non un atteggiamento così offensivo. Accettare l’offesa avrebbe significato perdere qualsiasi possibilità futura di intervento. Sarebbe stata così grandemente compromessa la carica di autorità spirituale che non sarebbe stato più possibile per il pontefice proseguire nel suo compito. A questo punto la crisi è veramente grave. Abbiamo un papato isolato a Roma, circondato da longobardi aggressivi e da un impero d’oriente lontano geograficamente e politicamente. La situazione è di grave crisi.
Il papato di Roma si trova in questa situazione di difficoltà. Rimane da capire a chi si possa rivolgere, dal momento che l’accordo tradizionale con l’impero di Bisanzio è traballato. Esiste una forza in Europa che ormai da secoli si pone a fianco della chiesa di Roma. È la popolazione dei Franchi. I franchi, arrivati nel 500 in Europa, portati dal loro re Clodoveo, hanno conquistato la Gallia, hanno una posizione di vantaggio con la chiesa di Roma perché non sono mai stati eretici. Non sono mai stati contagiati dall’eresia di Ario. La chiesa non s’è mai dovuta applicare per la loro conversione. I franchi sono stati sempre fedeli alla chiesa di Roma. Quando il papa si trova a dover cercare di risolvere questa situazione di impasse politica, la strada privilegiata è rivolgersi ai franchi. I franchi, dal punto di vista militare, sono un esempio di forza militare per l’epoca. Ricordate che nel 731 a sconfiggere gli arabi a Poitiers non sono stati i Visigoti, ma i franchi. I franchi hanno dato già dimostrazione della forza militare del loro regno. Sono stati i paladini della sopravvivenza del cristianesimo in occidente. Il papa sa benissimo che i franchi non sono solo degli alleati fedeli, in quanto sempre legati alla dottrina romana, per giunta sono degli alleati forti. Quando il papa si trova nella necessità di dover prendere in considerazione i pericoli rappresentati dall’oriente è inevitabile che pensi ad una alleanza con i franchi. Stefano II, dopo la risposta traumatica ricevuta dal re longobardo, decide di andare in Francia a chiedere sostegno al re dei Franchi. C’era oltretutto una vicenda sottostante. Recentemente in Francia s’era consumato un colpo di stato. I franchi erano guidati dalla dinastia dei merovingi, ma la vittoria di Poitiers è assegnata a Carlo Martello. Carlo Martello non era re merovingio, ma era maggiordomo. All’interno della corte dei merovingi la totalità delle funzioni era stata demandata ai maggiordomi (nel senso latino del termine: maior dominus, signore maggiore), ossia colui che nella corte era secondo dopo il re. Presso i franchi esisteva formalmente la dinastia dei merovingi, ma questi re (che la storiografia chiama addirittura “re fannulloni”) che smettevano di interessarsi della vita del regno, riservano l’esercizio delle funzioni regie a questi maggiordomi. La famiglia che assume il ruolo di maggiordomo è quella che vede origine in Carlo Martello e che da lui prende il nome di Carolingia. In questi anni il figlio di Carlo Martello, Pipino il Breve, decide di formalizzare anche esteriormente, il potere detenuto dai maggiordomi uccidendo il re. Pipino il Breve svolge questa attività di regicidio e si proclama re. C’è stata anche recentemente questa di destituzione dell’ultimo re merovingio e la sostituzione con la dinastia carolingia. Quando Stefano II si reca in Francia trova un re carolingio. Nel 752, in questa missione in Francia, il papa stringe con il re dei franchi un accordo ben chiaro: il re dei franchi gli assicura tutta una serie di vantaggi; gli dice che gli donerà l’esarcato, Venezia, l’Istria, l’Emilia, la Tuscia, la Corsica, i ducati di Spoleto e Benevento. Nella sostanza sono le terre dominate dai longobardi. Il re dei franchi sta regalando al pontefice dei territori che non possiede. Implicito in tutto questo è che ci deve essere prima una guerra di conquista. Per poter effettivamente cedere al papa queste terre occorre che prima il re dei franchi le abbia. Questo è il primo vero atto ufficiale in cui si registra una promessa di questo genere fatta dall’autorità politica al pontefice. Qualcuno di voi prima ha obiettato: c’è la donazione di Costantino. Ma la donazione di Costantino è un falso. Come dimostra Lorenzo Valla nel corso delle indagini dell’umanesimo, questa concessione attribuita all’imperatore Costantino in realtà è un’invenzione della chiesa medievale. Lorenzo Valla lo dimostra perché ci sono espressioni incompatibili con il latino dell’età di Costantino. In quell’atto facevano dire a Costantino “che si conceda la città di Roma con le sue province e tutte le province d’Italia e tutto l’Occidente”. In questa donazione si voleva far credere che l’imperatore avesse trasmesso al papato tutto l’occidente. Oltre ad essere un falso era ben difficile attuare una trasmissione di questo genere da parte dell’imperatore al papato. Fatto sta che invece quello che fa Pipino il Breve è qualcosa di concreto: la promessa al papa è vera. Perché questa promessa possa avere seguito, è prima necessario sottrarre i territori ai longobardi. Tutta la politica successiva dei franchi e del papato è basata su questa ottica. Se leggiamo una lettera scritta dal papa al re dei franchi notiamo: “Dal momento che siete divenuti miei figli adottivi, venite e togliete dalle mani degli avversari la città di Roma e il popolo che mi è stato affidato da Dio. Venite e proteggete dal contatto con costoro la dimora in cui il mio corpo riposa. Venite e liberate la chiesa di Dio esposta ai maggiori tormenti e alle peggiori pressioni da parte dell’abominevole popolo longobardo”. Questa è la realtà. Il papato sempre di più identifica i longobardi come minaccia e i franchi come la salvezza. Gradualmente i franchi cercano di debellare il pericolo dei longobardi; lo fanno prima, in una fase iniziale, con tentativi diplomatici. Carlo Magno sposa Ermengarda, la figlia del re longobardo Desiderio, per cercare di impiantare una relazione diplomatica, e fondere i due regni in uno solo. Carlo Magno ripudia Ermengarda e questo affronto è così grave che il popolo dei longobardi si scontra con i franchi. Tutte queste vicende sono narrate dal Manzoni nell’“Adelchi”, titolo dell’opera e figlio di Desiderio, fratello di Ermengarda. È la fase finale del Regno dei Longobardi. Nel 774 le armate dei franchi irrompono in Italia e sconfiggono facilmente i longobardi. Nel 774 finisce il regno longobardo. Subentrano i franchi, che istituiscono il Regnum Italiae. Tutta questa vicenda ci serve per comprendere la relazione esistente tra il potere del papato e il re dei franchi, soprattutto in relazione a quello che accadrà la notte di Natale dell’anno 800. Dopo la conquista dell’Italia, i franchi garantiscono al papato di Roma la serenità. C’è sempre una situazione anomala: l’imperatore d’oriente è sempre più lontano. Ma comunque il papato ha trovato nei franchi la sua sicurezza, la sua serenità. Poco prima della vicenda dell’800 il papa di Roma, Leone III, viene accusato dai nobili romani di alcune condotte particolarmente gravi: adulterio e spergiuro. Sono accuse estremamente importanti per un pontefice. Leone III però teme che queste accuse gli siano rivolte solo per destituirlo e ucciderlo. Per evitare pericoli fugge da Roma e si rifugia da Carlo Magno. Carlo Magno accompagna Leone III a Roma. Lo scorta per impedire che i nobili lo imprigionino. Non basta accompagnare il papa a Roma. Le accuse rimangono. Il papa, per ritornare nella pienezza delle sue funzioni, ha molti problemi. Per una regola esistente fin dall’inizio della chiesa ed esistente ancora oggi, vige il principio che prima sede a nemine iudicatur, la prima sede non può essere giudicata da nessuno. Il papa non può essere giudicato da nessuno; è il supremo giudice della chiesa. È lui a giudicare tutti gli altri. In virtù di questi suoi poteri e della sua superiorità non esiste alcun tribunale terreno che possa giudicare il papa. Per esempio nel medioevo i giuristi si pongono la domanda teorica su cosa si avrebbe dovuto fare se il papa fosse stato eretico. Fatto sta che Leone III non può costituire un collegio giudicante che lo dimostri estraneo alle colpe ascritte. Allora ricorre ad un istituto barbarico, una forma particolare di ordalia che va sotto il nome di purgatio canonica (purgazione canonica). Siccome il papa non può essere giudicato l’unica cosa che può fare è dichiarare pubblicamente la sua innocenza. Questa è una sorta di ordalia. Il papa afferma solennemente di essere estraneo a questi crimini. Se così non fosse chiede di essere colpito subito dall’ira divina. Con questa purgatio canonica, il papa, di fronte a tutti i nobili, dichiara la sua innocenza. Fa tutto questo per rientrare nella pienezza delle sue funzioni. Pochi giorni dopo, in questa notte di Natale, quando Carlo Magno entra nella basilica di San Pietro lo incorona e consacra imperatore del Sacro Romano Impero. Ecco che si verifica una renovatio imperii. Non viene ricostituito l’impero di prima, ma un impero diverso. Ora ha il carattere della sacralità. Nell’Impero Romano d’Occidente mancava questo elemento: la sacralità. Ora Carlo Magno viene creato imperatore del Sacro Romano Impero con l’incoronazione e la consacrazione con l’olio sacro. Di questa vicenda abbiamo due testimonianze. Una è di provenienza pontificia: il liber pontificalis, il libro in cui i pontefici fanno annotare le vicende più significative che riguardano il pontificato. Nel liber pontificalis abbiamo la storia meravigliosa ed esaltante di quella vicenda in cui il papa e il popolo acclamano felicemente Carlo Magno imperatore, grande e serenissimo imperatore, a lui vita e vittoria. Se noi andiamo a leggere la storia di questa vicenda narrata da Eginardo, biografo di Carlo Magno, nella Vita Caroli troviamo una versione completamente diversa. Eginardo ci dice: “In questo periodo prese il titolo di imperatore e di augusto il che dapprima lo contrariò a tal punto che giunse a dichiarare che in quel giorno, anche se era una delle più grandi festività, mai sarebbe entrato in chiesa se avesse potuto supporre qual era il progetto del pontefice”. Perché Carlo Magno, entrato re dei franchi e uscito imperatore, se avesse saputo il piano non sarebbe entrato neanche in chiesa? Perché Carlo Magno ha capito. Mentre da re dei franchi poteva liberamente esercitare il suo potere politico, da imperatore non lo può più fare. Mentre da re dei franchi le sue scelte di strategia politica potevano essere ispirate da qualsiasi finalità, anche egoistica, da imperatore del Sacro Romano Impero, dopo che è stato consacrato imperatore, il papa dice a tutti i cristiani che Carlo Magno è il prescelto da Dio alla guida della cristianità. Tutti devono seguire fedelmente le sue indicazioni, che sono l’unico mezzo temporale per ottenere la salvezza dell’anima. Se questo è vero, vuol dire che l’imperatore, tutte le volte che prende una decisione, deve avere un’unica finalità: il bene dei fedeli. Tutta la sua condotta di governo non potrà più essere determinata da intenti egoistici, soggettivi, individuali, politici; dovrà essere finalizzata ad ottenere unicamente il bene dei fedeli. Qualsiasi decisione non ispirata a questa finalità è da considerarsi sbagliata. Ma chi la può considerare sbagliata? Il papa. Il papa ha la responsabilità di interpretare il volere divino. Quindi solo il papa può dire se l’imperatore si sta comportando in modo dannoso per i fedeli. Il papa, nell’ipotesi in cui l’imperatore sta attuando comportamenti ingiusti, può scomunicarlo. La scomunica, in questa epoca e quadro, è una sanzione molto importante. L’imperatore ha capacità di comando solo se si crede che i suoi comandi sono ispirati da Dio. Se il papa lo scomunica tutti i fedeli devono trasgredire i comandi imperiali perché l’imperatore non è più sostenuto dall’intervento divino. L’imperatore smette di avere qualsiasi forza. Ecco perché quando Gregorio VII scomunicherà Enrico IV, Enrico IV dovrà andare a Canossa a piedi nudi sulla neve per chiedere perdono. Carlo Magno ha capito di avere acquisito un potere eccezionale, ma anche un controllo sul suo operato da parte del papa in maniera così forte come mai era accaduto. Considerate che mille anni dopo, quando ci sarà l’incoronazione imperiale di Napoleone, nel momento in cui il papa sta per mettergli la corona sulla testa, Napoleone gliela toglie di mano e se la mette da solo. Sta dicendo che il suo diretto è diretto con Dio, non è mediato dal papa. Non è stato il papa a incoronarmi, e quindi non devo render conto al papa della mia condotta di governo, ma direttamente a Dio. Guai a qualsiasi autorità umana che pretende di toccarmi la corona. Questa è la ragione delle perplessità di Carlo Magno. È stata fondata un’autorità nuova di enorme rilievo per il medioevo come il Sacro Romano Impero. Carlo Magno è stato nominato imperatore e ha molti più poteri del passato ma capisce che ,in virtù dell’applicazione del principio gelasiano, non può più sottrarsi alle valutazioni del pontefice. Il potere imperiale è legato indissolubilmente a quello del pontefice. Non potrà esserci nessuna scelta non sindacabile dal papa. A questo punto i rapporti tra il papato di Roma e l’impero d’oriente diventeranno sempre più labili, al punto tale che quando gli imperatori d’oriente si intestardiranno nel proclamare delle verità di fede a cui il papa non riterrà opportuno dare credito, si arriverà allo scisma definitivo. È la ragione per cui, ancora oggi, abbiamo delle chiese d’oriente separate da quelle d’occidente.

Medievale Nov 13
La resistenza al potere dei longobardi, aveva prodotto, nell’ambito del potere pontificio, l’esigenza di provvedere alla propria difesa con la scelta di una nuova forza temporale. Persa qualsiasi speranza nell’appoggio dell’oriente, i papi di Roma avevano sempre di più stretto contatti con la popolazione dei franchi e l’arrivo dei franchi in Italia aveva prodotto la novità sulla scena politica europea che segnerà i destini successivi dell’Europa. La notte di Natale dell’800 Leone III incorona Carlo Magno e in questo modo trasforma il quadro politico e istituzionale dell’Europa. Carlo Magno non sarebbe entrato in chiesa se avesse saputo dei progetti di Leone III. La nomina a imperatore porta a un grosso cambiamento dei suoi poteri. Fino a questo momento lui era re dei franchi. Era assolutamente uguale a qualsiasi altro re barbarico. Le prerogative dei re barbarici erano la tutela della pace interna e la difesa esterna del popolo. Nella concezione barbarica, dove tutti si reputano uomini liberi, il re è considerato un primus inter pares. È semplicemente uno dei tanti uomini liberi che ha delle funzioni particolari. Per esercitare queste funzioni è dotato di alcuni poteri, ma questi poteri si concludono nell’esercizio delle funzioni. È ovviamente il supremo giudice del suo popolo ed è il comandante militare del suo popolo. Per il resto è del tutto uguale agli altri uomini liberi del suo popolo. Carlo Magno imperatore è una persona completamente diversa. È entrato come re barbarico ed è uscito con il titolo imperiale. Il papa ha indicato quella persona come la più adatta nel mondo per guidare la cristianità. Carlo Magno non è più un nobile fra tanti, ma una persona ispirata da Dio. Non è più un uomo come tanti altri. Solo in lui si manifesta il volere divino. Solo lui è ispirato da Dio. Conseguentemente la situazione precedente è superata. Non è più un primus inter pares. In questo contesto il ruolo di Carlo Magno si distingue profondamente rispetto al passato. Mentre prima aveva attorno degli uomini liberi che sceglievano spontaneamente di seguirne gli ordini, ora da imperatore gli uomini attorno a lui non sono liberi, ma sudditi. Siccome l’imperatore è ispirato da Dio, non ha senso contrapporsi all’imperatore, e quindi a Dio. Le scelte imperiali vedono come destinatari non più degli uomini liberi, ma dei sudditi. I sudditi devono obbedire. Carlo Magno esce da quella basilica con un livello diverso rispetto a prima e rispetto agli altri re barbarici, che non possono vantare questo sostegno divino. Mentre i re sono tanti, sono solo una carica politica, l’imperatore è solo uno solo, solo una è la guida. Allo stesso modo è unitaria la carica papale. La guida deve essere unitaria. Non può esserci salvezza dell’anima se le guide sono molteplici. Non si saprebbe chi seguire. Stesso discorso per la carica imperiale. Carlo Magno è sì preoccupato della sua condizione per l’influenza papale, ma quella notte assume dei poteri infinitamente superiori rispetto a prima. Carlo Magno è diventato un personaggio unico sulla scena europea. Questo impero fondato da Carlo Magno e dal papa rimarrà idealmente in piedi per un millennio. L’impero terminerà quando Napoleone imporrà all’ultimo imperatore del Sacro Romano Impero di deporre il titolo. Lui stesso si vorrà proclamare imperatore (e non possono esistere nello stesso tempo due imperatori). Solo tra i tanti re barbarici uno solo può essere imperatore. In questo quadro quello che manca è l’assetto istituzionale. Questa innovativa idea politica voluta dal pontefice e da Carlo Magno è nuova per l’epoca, ma è anche difficile da gestire. Cosa vuol dire che è nato il Sacro Romano Impero? I romani, per far funzionare il loro impero, avevano impiegato secoli. La macchina imperiale romana non era nata come il Sacro Romano Impero in una notte. Carlo Magno è sicuramente una personalità eccezionale per l’epoca; vive più di 80 anni; regna per 42 anni. Tutti reputano che Carlo Magno sia effettivamente aiutato da Dio. Però anche Carlo Magno muore e nell’814 non lascia una struttura organizzata. Non è riuscito a creare una macchina istituzionale dell’impero. Dopo di lui i successori della dinastia dei carolingi sono sempre più deboli. Questo rende l’impero, dal punto di vista della guida, sempre più debole. Nell’843, con il trattato di Verdun, viene divisa la compagine imperiale in tre grandi blocchi (che andranno a costituire la Francia, la Germania, l’Italia). Quello che era unico nelle mani di Carlo Magno, nell’843 comincia a dividersi. Inoltre la forza degli ultimi imperatori carolingi è sempre più debole, fino ad arrivare nell’888 alla deposizione dell’ultimo imperatore carolingio, Carlo il Grosso. Ciò non significa che l’impero finisce: significa solo che la dinastia dei carolingi smette di guidare l’impero. La dinastia dei carolingi non viene immediatamente rimpiazzata. La sede rimane vacante, ma questo non vuol dire che smette di esistere l’impero. L’impero rimane in piedi, ma manca un imperatore. Nel 962 Ottone I di Sassonia riterrà di assumere su di sé il titolo imperiale e di riprendere la successione degli imperatori. La dinastia a cui appartiene Carlo Magno, anche se smette di esistere, non porta con sé il crollo dell’impero. La creazione dell’impero non aveva prodotto in concreto una macchina istituzionale. Quello che esisteva era solo un’idea: la concretizzazione in un meccanismo politico del principio gelasiano (opposto al cesaropapismo orientale). Papa Gelasio, nel 494, aveva scritto all’imperatore d’oriente dicendo che la migliore suddivisione dei poteri era quella nella quale il potere temporale era affidato all’imperatore e quello spirituale al papa. Gli imperatori d’oriente non avevano mai seguito questa impostazione. S’erano sempre disinteressati a questa costruzione dei poteri. Invece in occidente, quando gradualmente Bisanzio viene considerata inaffidabile per le sorti del papa, quando il papa stipula questo accordo con i franchi, dà piena attuazione del principio gelasiano. Nel momento della creazione del Sacro Romano Impero, il papa è ben attento a distinguere i ruoli, a fissare gli ambiti: il papa avrà la competenza nelle cose spirituali, Carlo Magno l’avrà nelle cose temporali. Sono due sfere distinte che fanno parte della stessa realtà. Avviene la reductio ad unum; l’impero è riduzione ad unità. Ci sono sì due autorità distinte, ma queste autorità non sono in conflitto. La distinzione non significa incompatibilità, bensì collaborazione. La loro opera deve convergere verso ideali condivisi (ecco la “riduzione ad uno”). Le due cariche devono essere sempre presenti e distinte.
Se è vero che Carlo Magno muore nell’814 lasciando un impero ancora non ben organizzato dal punto di vista istituzionale, come fa questo impero a sopravvivere, e cosa rimane dopo la morte di Carlo Magno? Il punto è di notevole interesse. In realtà Carlo Magno aveva vinto tante popolazioni barbariche e li aveva riuniti in un grande contenitore: il Sacro Romano Impero. Nel corso di questi anni di impero le varie popolazioni che compongono l’impero si sono gradualmente accorpate in questa unità ideale con una conseguenza giuridica paradossale: nei regni barbarici precedenti a Carlo Magno l’applicazione del diritto avveniva su base personale. Nei regni romano-barbarici vigeva il principio della personalità del diritto. Fino a quando rimanevano in piedi i regni barbarici, la personalità del diritto era limitata a questi due diritti. Nel regno dei longobardi c’era il diritto dei longobardi e il diritto dei romani. Quando Carlo Magno conquista tutte queste popolazioni, tutti diventano sudditi dell’impero. Ma siccome l’applicazione del diritto avviene su base personale, c’è una proliferazione dei diritti personali. I longobardi non sono più inseriti nel loro regno, ma nell’impero. Questo significa che i longobardi pretendono di vedere applicato il loro diritto non solo nel loro regno, ma in tutto l’impero. È come se questa idea della personalità del diritto venisse portata in giro in tutto l’ambito dell’impero. La situazione per Carlo Magno è ingestibile. Dopo tante conquiste lo stesso Carlo Magno non sa quanti siano i popoli sottomessi, le loro lingue e i loro diritti. Carlo Magno inventa la figura dei missi dominici, gli inviati del signore. L’imperatore manda in giro per l’impero due missi dominici (un vescovo e un laico) che si recano in tutte le province dell’impero e sappiano in quella zona chi vive, che lingua parla e che diritto ha. Tutto questo è in contrasto alla funzione imperiale. Se abbiamo detto che l’imperatore nasce con la finalità di guidare tutti sulla via della salvezza, lo strumento essenziale per tale scopo è il diritto. Come fa l’imperatore a garantire che tutti i sudditi ottengano la salvezza dell’anima se non dà delle regole obbedite da tutte? A causa della personalità del diritto, i barbari sono assolutamente aderenti al loro diritto personale. Abbiamo una molteplicità di diritti e un imperatore che in realtà non ha poteri legislativi. Gli imperatori, gradualmente, cercano di sovvertire questa situazione ricorrendo ad una sorta di stratagemma. I barbari conservano il loro diritto tradizionale e tenacemente lo proteggono perché sono convinti di essere uomini liberi, e in quanto uomini liberi riconoscono e obbediscono solo quel diritto a cui hanno spontaneamente aderito (ricorda Rotari che chiede al popolo). Carlo Magno sa benissimo che se desse una norma autonomamente, il popolo non la obbedirebbe mai, perché riterrebbe questa attività del re illecita. Il re non ha un potere normativo. Al massimo può proporre. Poi, gli uomini liberi (il popolo-esercito) può discrezionalmente accettare o meno (al tempo di Rotari con la percussio armorum). Questi uomini sono così fieramente attaccati alle loro tradizioni perché le consuetudini sono una manifestazione della loro libertà. Le consuetudini barbariche sono nate per iniziativa collettiva di quel popolo. Sono quindi espressione di ciascuno degli appartenenti di quel popolo. L’imperatore, anche se dotato di queste nuove funzioni, non può brutalmente intervenire su questa concezione del diritto dei barbari. Allora Carlo Magno, invece di introdurre forzosamente delle norme, provvede ad intervenire per aggiustare questi diritti barbarici. Manda i missi dominici e grazie a loro conosce il diritto di queste popolazioni. Fa mettere per iscritto i diritti e soprattutto, quando ritiene che ci siano alcuni aspetti non del tutto ottimali, produce delle piccole integrazioni. L’attività dell’imperatore prende il nome di capitulum. Questo capitulum diventa legibus addendum, cioè “che si va ad aggiungere alle leggi”. Nascono i capitula legibus addenda. La realtà è che Carlo Magno tiene ferme le consuetudini barbariche. Si limita semplicemente, in una prima fase, a fare delle piccole correzioni, delle aggiunte. Siccome sono qualificate così (integrazioni, specificazioni, chiarimenti) l’imperatore dice che non c’è bisogno di convocare il popolo e ottenere il consenso, perché il consenso è già insito nella legge originaria. Queste sono solo delle integrazioni, non stravolgono la legge originaria, che non hanno bisogno di una nuova approvazione. Questi capitula legibus addenda vengono considerati prerogativa dell’imperatore senza bisogno di una convocazione del popolo per la loro accettazione. Basta che siano ad nutum, ossia a semplice discrezione dell’imperatore. Gradualmente si afferma l’idea che l’imperatore abbia un potere normativo. In questa prima fase il potere normativo è limitato solo all’integrazione del diritto preesistente. È comunque un potere normativo che viene esercitato autonomamente, senza la convocazione del popolo. La conseguenza ulteriore sono i capitula per se scribenda. I primi capitula si aggiungevano alle leggi preesistenti. A un certo punto è tale l’idea che l’imperatore possa fare diritto senza convocare il popolo che si passa ai capitula per se scribenda, da scrivere autonomamente, per sé, senza riferimento ad una legge preesistente, senza una norma già consolidata tipica di quella popolazione barbarica. L’imperatore può fare diritto a prescindere dal diritto preesistente. Sono norme nuove ed universali, che valgono per tutti. Mentre i capitula legibus addenda si andavano ad aggiungere alle singole leggi barbariche (in Italia abbiamo il Capitulare Italicum, che è un’aggiunta all’editto dei longobardi e vale solo per l’Italia) i capitula per se scribenda sono rivolti a tutti. Il risultato finale di tutto questo è che nell’816 l’arcivescovo di Lione, rivolgendosi all’imperatore Ludovico il Pio (figlio di Carlo Magno), gli dice che non è accettabile che nell’impero ci siano tanti leggi personali. Se il compito dell’imperatore è guidare tutti, l’imperatore si trova nelle stesse condizioni del papa, e deve guidare allo stesso modo tutti. Come il diritto canonico è uno solo, così dovrebbe essere il diritto dell’impero. Se le norme temporali sono tante e diverse, solo una di queste sarà giusta per la salvezza dell’anima. Compito dell’imperatore è estirpare la personalità del diritto e ricondurre l’impero all’unità giuridica. Le norme devono essere chiare e universali, valide verso tutte. Agobardo, arcivescovo di Lione, dice a Ludovico il Pio di unificare il diritto e di dare a tutti il diritto della popolazione franca. Questa scelta era sicuramente destinata all’insuccesso perché il diritto dei franchi era uno dei tanti diritti barbarici. Non aveva nessun vantaggio rispetto agli altri diritti delle altre popolazioni. Non era né più raffinato né più approfondito. Era solo il diritto della popolazione vincitrice. Dal punto di vista sostanziale non presentava nessun vantaggio. Per giunta tutto questo avrebbe prodotto una reazione incontrollabile dei popoli vinti. Come abbiamo detto più volte, i popoli barbarici si identificavano con il loro diritto. Strappare il loro diritto significava strappare via la loro identità culturale. Se quei popoli si fossero visti toglier via il diritto per sostituirlo con quello dei franchi, si sarebbero sentiti soggetti ad una sorta di colonizzazione culturale. Questo nessuno popolo lo avrebbe tollerato. Ci sarebbe stata una continua serie di insurrezioni. Quello che invece accadrà (ma occorreranno secoli) è sì questa novità dell’introduzione di un unico diritto, ma questo diritto dovrà essere il diritto che tutti i popoli barbarici ritengono effettivamente il loro diritto fondamentale, cioè il diritto romano. Tutti i barbari sanno che il diritto romano è mater omnium humanarum legum, cioè madre di tutte le leggi umane. Il diritto è madre di tutte le leggi umane perché tutte queste consuetudini barbariche sono state messe per iscritto in latino usando categorie concettuali del diritto romano. Se voglio conoscere il diritto dei visigoti, o dei longobardi, devo prima conoscere il diritto romano. Il diritto romano è un passaggio indispensabile se voglio poi approfondire il diritto delle singole popolazioni barbariche. Ecco perché c’era questa forte percezione che il vero diritto unico dell’Europa e dell’Impero non possa che essere il diritto romano. Il diritto romano da unitarietà culturale necessaria poi per affrontare le varie specificità dei diritti barbarici. Questa aspirazione dell’arcivescovo di Lione di unificare il diritto dell’impero sotto un unico grande diritto omogeneo è ancora troppo prematura. Gradualmente maturerà nei secoli fino ad essere assolutamente chiaro che così come esiste un unico impero (il Sacro Romano Impero), così come esiste un unico imperatore, deve esistere un unico diritto, ossia il diritto romano. La nascita dell’impero, la figura dell’imperatore, produrranno anche l’evoluzione dell’idea dell’unicità del diritto.
L’impero fondato dai carolingi risente delle vicende della dinastia dei carolingi. L’impero di Carlo Magno entra progressivamente in crisi con la debolezza dei suoi successori, fino ad arrivare ad una totale disgregazione del potere carolingio nell’888. Cosa subentra alla crisi e alla disgregazione dell’impero? Dal momento che l’impero dura fino al 1800, con la crisi dei carolingi, come fa l’impero a sopravvivere? Carlo Magno e i suoi successori non sono riusciti a creare strutture istituzionali. In realtà alla crisi non subentra la riproposizione dei regni romano-barbarici. Ormai questi barbari sono stati compresi nella logica imperiale e, così come non sarebbe più sensato una difesa strenua dei tanti diritti barbarici, allo stesso modo non avrebbe neanche più senso parlare del ritorno dei regni romano-barbarici. Al posto dell’impero quello che sopravvive e garantisce la vita dell’impero è il feudo. I secoli dal IX all’XI sono caratterizzati dal fenomeno feudale. Il feudo è una tecnica di gestione del potere. Esiste un potere ideale presente nelle mani dell’imperatore (che è dominus mundi, padrone del mondo) che deve gestire questo smisurato potere sul mondo. Il feudo è quello strumento che permette all’imperatore di garantire il funzionamento della macchina imperiale. È una frammentazione dell’impero in tante singole piccole entità territoriali. Invece di avere grandi regni romano-barbarici, all’interno dell’impero abbiamo una molteplicità infinita di piccoli feudi (si parla di “polverizzazione feudale”). È come se esistesse un caleidoscopio di tanti minuscoli feudi. I feudi sono delle frammentazioni territoriali diverse l’una dall’altra. Ci sono persone concrete a capo di ogni feudo. Il potere principale è quello comitale, cioè i conti. I conti sono tali perché comites, cioè compagni: tutti sullo stesso livello, tutti detentori di un potere di natura imperiale e tutti collaborano al migliore esercizio di questo potere. Ma oltre la contea, esistono anche feudi diversi. I conti appartengono a quel tipo di feudo che si trova all’interno dell’impero. Ci sono però anche delle suddivisioni feudali che si trovano al confine. Questi confini sono pericolosi. Un feudo posto al confine potrebbe essere esposto a attacchi e invasioni. Dal momento che il confine si chiama “marca”, ecco che il feudo confinante si chiama “marchesato” e il titolare dei poteri di questo feudo è il marchese. Anche lui è una figura feudale, e anche lui è compartecipe dei conti delle sorti del destino dell’impero. Il marchese però ha dei rischi maggiori. Per questo è dotato di un feudo più esteso. Il marchesato è più grande di una contea e il loro valore feudale è maggiore. Siccome il marchese deve far fronte a questi pericoli, è detentore di una autorità superiore in termini di dignità rispetto al conte. Quando Goldoni scrive la Locandiera mette in scena due personaggi: il Conte di Ripafratta e il Marchese di Forlipopoli. Entrambe i personaggi ambiscono all’amore di Mirandolina, però il conte può mettere in gioco la sua ricchezza. Il marchese non ha soldi. Stizzito, il marchese, in un momento di sfogo dice al conte: “Io son chi sono e mi si deve portar rispetto”. Sta dicendo al conte che se anche il conte è più ricco, il titolo del marchese è più alto di quello del conte. A seconda delle divisioni territoriali delle varie zone dell’impero, esistono feudi che prendono nomi specifici. In Italia, laddove i longobardi avevano organizzato la loro conquista in ducati, ecco che la base del feudo è concepito in termini di ducato, con il duca; altre zone saranno concepite come baronato, con il barone. Tutte queste figure hanno una determinata gerarchia di tipo feudale; ma tutti sono titolari dello stesso potere feudale. Bisogna capire cosa è il feudo. Per capirlo dal punto di vista didattico (solo da questo punto di vista) è possibile scindere tre elementi:
1) Vassallaggio (elemento personale). Il vassallaggio deriva da una impostazione di tipo germanico. Presso i barbari tutti gli uomini si professano liberi. Ogni uomo pretende di veder riconosciute la sua qualità di uomo libero. Tant’è vero che, al di fuori delle prerogative del re, non obbedisce neanche ai suoi ordini. È anche vero che la situazione, rispetto all’Impero Romano, è cambiata. Un uomo libero, in età romana, se avesse ricevuto un torto, non avrebbe avuto perplessità: si sarebbe rivolto alla macchina imperiale. Esistevano magistrati, funzionari, polizie in grado di garantire i diritti. Il cittadino dell’Impero Romano si sarebbe rivolto alle autorità competenti. L’arrivo dei barbari ha distrutto tutto questo. Allora anche l’uomo libero da solo è inerme. Abbiamo visto il problema che aveva dovuto affrontare Rotari: alcuni criminali venivano difesi dalla propria tribù, perché l’uomo, da solo, è in balia degli eventi. L’unico modo per difendersi è affidarsi ad una tribù. Come si entra a far parte di questa tribù? Bisogna assoggettarsi al capo-tribù. L’appartenenza ad una tribù impone l’obbedienza verso il capo-tribù. È vero che sono un uomo libero, ma se non voglio correre pericoli gravi, devo aderire ad una tribù; perdere parte della sovranità e acquisire protezione. Nel sistema barbarico, non esistendo una protezione normale dei diritti come quella garantita dai romani, bisogna per forza assoggettarsi. Ecco il vincolo del vassallaggio. Presso i barbari è considerato normale perdere parte della propria libertà e sottomettersi a una persona potente, per ricevere da questa protezione. Questa logica è fondamentale nel sistema feudale. Esiste un senior, una persona potente, che ha ricevuto questi poteri direttamente dall’imperatore (dominus mundi). L’imperatore trasmette i poteri a persone di cui si fida (seniores). Non stiamo parlando di una schiavitù, ma di uomini liberi. Occorre che ci sia un uomo libero che decida di assoggettarsi a un senior. Deve essere una scelta consapevole, discrezionale e volontaria. Il feudo non è un rapporto di schiavitù, ma un libero rapporto di sottomissione. Chi decide di sottomettersi è il vassallo (wassus). Abbiamo un vassallo che chiede al senior protezione. Il vassallaggio, per ottenere protezione, deve garantire al senior la sua fedeltà. Come fa il wassus ad assumere un obbligo di fedeltà? Se è un uomo libero occorre che ci sia un atto giuridico con cui perde la sua libertà e acquista un dovere di fedeltà verso il suo superiore. Questo dovere di fedeltà non è leggero; è invece assoluto. La violazione di questo dovere comporta il crimine più grave in cui possa incorrere un appartenente alla macchina feudale: la fellonia. Il fellone è colui che dopo aver garantito la sua fedeltà ha rotto questa sua promessa. Il fellone, essendo colpito dall’infamia, perde tutto (beni, diritti, prerogative). Una volta che si è garantita la fedeltà, bisogna stare bene attenti a rispettare questo vincolo. L’atto con cui si assume il dovere di fedeltà è la commendatio. La commendatio è quell’atto formale e solenne con cui si diventa cavalieri feudali. Dopo la notte di preghiera davanti alle armi (la “veglia d’armi”) ci si presenta al proprio senior, si fa la vestitura delle armi, si giura fedeltà al proprio signore mettendo le proprie mani giunte nelle mani del signore (ancora oggi in italiano si dice “giurare nelle mani di qualcuno”); il signore riceve il giuramento; si forma l’obbligo fedeltà, garantito da pene gravissime; c’è l’investitura feudale (i tre tocchi con la spada); riceve uno schiaffo dal signore, l’unico schiaffo che non dovrà mai restituire, perché ha giurato fedeltà. Proprio per ricordargli all’istante quali sono i suoi doveri, riceve questo schiaffo. In che cosa consiste questa fedeltà?
a) Consilium (consiglio). Deve adoperarsi con tutte le sue forze alla migliore efficienza e funzionamento del feudo. Deve prestare al suo signore tutte le sue energie affinché il feudo sia amministrato al meglio. Deve aiutare il senior per gestire il feudo. Uno dei giuramenti feudali che ci sono giunti è questo: “Colui che giura fedeltà al suo signore deve tenere sempre in mente questi sei principi: salute, sicurezza, onore, interesse, libertà, possibilità. Salute: non deve esser fatto nulla in danno del signore per ciò che riguarda il suo corpo. Sicurezza: nulla che danneggi la sua residenza o le fortezze in cui egli può difendersi. Onore: nulla che possa riuscire a detrimento della sua giustizia o di qualsiasi cosa da cui possa dipendere il suo onore. Interesse: nulla che possa nuocere alle sue proprietà. Libertà e possibilità: non deve essere reso difficile il bene che il signore può fare o reso impossibile quello che gli sarebbe in condizione di fare”. Il vassallo si obbliga nei confronti del suo signore a fare tutta questa serie di attività di sostegno, aiuto, per la gestione del feudo. Tutto questo prevede una gerarchia. Il vassallo si obbliga verso il senior, ma il senior a sua volta si sarà obbligato verso un altro signore ancora più alto e così via. Si parla di piramide feudale. A cascata o a catena si collegano tutti questi giuramenti feudali, per arrivare a quella gerarchia per cui dall’imperatore si va ai vassalli, valvassori, valvassini e così via. Esiste una concatenazione di poteri. Non è possibile saltare nessun anello della catena. Ci devono stare tanti giuramenti di fedeltà fino ad arrivare alla fonte prima del potere, cioè l’imperatore. Può accadere che il giuramento del senior non venga rispettato, ma questo non comporta la nullità o alcun dovere da parte dei vassalli a lui soggetti.
b) Auxilium (aiuto). Se il vassallo si ritiene così indifeso da chiedere protezione al potente, in che senso è lui che deve dare aiuto al senior? Cosa conferisce potenza al senior? Il fatto che ci siano tanti vassalli che gli hanno giurato fedeltà. Il senior è tanto più potente quanto più numerosi sono i suoi vassalli. Il potere non è in sé, bensì nel numero di vassalli che può richiamare ad obbedienza. Il potere del senior dipende esclusivamente da questa sua attività di ricordo ai suoi vassalli del dovere di obbedienza. Nel momento del bisogno il senior proclamerà la chiamata dei suoi vassalli e questi, che gli devono aiuto, si presenteranno numerosi alla sua presenza per dare tutto l’aiuto possibile. Ma aiuto di che tipo? Aiuto militare. L’aiuto chiesto non è solo contributo economico, ma fondamentalmente è un aiuto militare. Nel momento del bisogno il senior chiama i vassalli all’obbedienza militare. Questo feudo si sviluppa soprattutto in area franca. La ragione di tutto questo è determinata dal fatto che i franchi, fra tutte le varie popolazioni barbariche, hanno dovuto inventare una macchina militare diversa dalle altre. I franchi si sono trovati di fronte ad un problema grave. Quando sono arrivati in Europa gli arabi, in Spagna, hanno sconfitto senza difficoltà i visigoti. Questo perché i visigoti, come tutte le popolazioni dell’antichità, avevano un tipo di guerra basata sulla fanteria. I romani avevano la testuggine, una unità di fanteria. Gli arabi portano una guerra veloce e micidiale perché combattono a cavallo. A questo tipo di guerra l’occidente non era pronto, e i franchi di Carlo Martello si devono rapidamente adeguare alla novità. Carlo Martello organizza in fretta e furia un esercito a cavallo e riesce a reagire all’assalto degli arabi, ricacciandoli nella Spagna. Guardacaso, da quel momento in poi i franchi vincono tutte le guerre con le altre popolazioni barbariche. Carlo Magno sconfigge un’infinità di popolazioni perché ha una macchina militare superiore, perché combatte a cavallo. Tutto questo ha una conseguenza. Come fa Carlo Magno a disporre di una armata a cavallo? Secondo la logica della macchina feudale, chiama alla fedeltà i suoi vassalli diretti, questi chiamano i vassalli minori e così via, fino a quando il vassallo che ha giurato fedeltà viene chiamato dal suo senior che richiede una forza militare, cioè dei cavalieri. Il cavaliere è sì una imponente macchina militare, ma è anche un costo elevatissimo. Un cavaliere è stato paragonato a un carro armato. Il cavaliere, per poter funzionare, ha bisogno di un’armatura, di due cavalli da guerra (da alternare l’uno con l’altro). Inoltre i cavalli da guerra sono cavalli di un tipo particolare (i palafreni), addestrati per la guerra. Il cavallo non deve aver paura, e deve essere abituato al suono della guerra. Servono poi quattro sergenti, cioè quattro addetti al funzionamento del cavaliere. In poche parole, armare un cavaliere è un costo elevatissimo. Quando il senior chiama il vassallo all’obbedienza, il vassallo che ha bisogno di protezione si trova a dover prestare al proprio signore una forza militare cospicua e a dover avere delle disponibilità economiche così elevate da poter armare e tenere stabilmente cavalieri pronti allo scontro. Ma se il vassallo fosse stato ricco non avrebbe avuto bisogno del giuramento di fedeltà.
2) In questo caso interviene il secondo elemento del feudo. Il senior, ben sapendo che il vassallo non dispone dei mezzi richiesti, gli concede il beneficium, la terra (elemento reale). A fronte dell’obbligo assunto dal feudatario e solo perché lui ha giurato fedeltà, gli concede la terra. Questa terra non è concessa in proprietà. In effetti questa terra non appartiene neanche al senior: fa parte del dominato del mondo dell’imperatore. L’imperatore concede la terra ai suoi vassalli a mero titolo di godimento. Così come l’imperatore concede la terra ai vassalli maggiori, quelli a loro volta la concedono ai vassalli minori e così via. Il singolo vassallo, dopo aver giurato, si vede consegnare la terra da parte del senior. Il vassallo è in condizione di minor potenza e ricchezza del suo senior, eppure viene invitato ad adempiere al giuramento di fedeltà, che prevede l’obbligo oneroso di mettere a disposizione del senior degli uomini armati a cavallo. Il senior mette a disposizione del vassallo il beneficium. Questa terra non è di nascita barbarica, ma nasce nel sistema ecclesiastico. È evidente che la chiesa, per svolgere la sua missione, deve essere presente ove ci siano dei fedeli: la sua presenza deve essere capillare. È altrettanto chiaro che un sacerdote deve aver dei mezzi di sostentamento. Non è possibile che la chiesa preveda delle erogazioni pecuniarie per far fronte alle esigenze di tutti i sacerdoti dispersi in giro per la cristianità. Per risolvere ciò esiste l’istituto del beneficium: ogni sacerdote che esercita le sue funzioni gode di determinati beni messi a sua disposizione per l’esercizio delle sue funzioni. Fintantoché ha quel ruolo, gode di quei beni. In sostanza ogni chiesa ha un patrimonio, e quel patrimonio è rivolto all’obiettivo di sostentare quel sacerdote. È chiaro che quel patrimonio non è concesso in proprietà; se fosse così il sacerdote ne potrebbe disporre, ossia lo potrebbe vendere o donare. Se lo vendesse o donasse il successivo sacerdote non avrebbe più quei beni per poter vivere. Per questo è solo trasmesso il godimento. Non se ne può disporre e quei beni transiteranno al titolare successivo del medesimo ruolo. A quel punto si garantisce la vita e la sopravvivenza del sacerdote; dall’altra parte, la sopravvivenza del patrimonio. Questa stessa logica è inserita nella macchina feudale. Il vassallo sarà in grado di adempiere il suo obbligo di armare dei soldati a cavallo perché il signore gli ha concesso il beneficium. Abbiamo una terra da gestire per l’utilità del senior.
3) L’immunità (elemento negativo). L’immunità non nasce né nella logica barbarica, né nella logica ecclesiastica. È invece di derivazione romana. Nell’ultima fase dell’impero Roma incontrò difficoltà crescenti in considerazione del fatto che alcune classi avevano preteso di ottenere delle esenzioni fiscali (soprattutto la classe senatoria). La classe senatoria era rappresentata da latifondisti. Si presentò la strana situazione per cui l’erario si trovavano ad essere in difficoltà crescenti, in quanto i detentori della percentuale maggiore di terre, essendo anche senatori, pretendevano di avere anche delle esenzioni fiscali. Questa logica dell’immunità entra anche nel feudo. Il vassallo ha giurato fedeltà al senior; ne ha ricevuto il beneficium e ha fedelmente adempiuto alle sue funzioni. È inevitabile che questo vassallo, che non ha ottenuto poteri di alcun tipo, tenda ad affermarsi nel suo feudo come l’autorità. In realtà nel feudo nessuno vede il senior, ciascuno vede il diretto signore feudale. Identifica in quella persona la totalità dei poteri. In realtà questo vassallo non ha ottenuto funzioni particolari dal suo senior. Ha ricevuto solo il beneficium. Il continuo esercizio del potere nel feudo fa sì che questo vassallo cominci ad usurpare delle funzioni che non gli spetterebbero (ad es. l’amministrazione della giustizia). Siccome il vassallo è l’unico detentore del potere militare e l’unica autorità nel suo feudo, inizia a esercitare funzioni giudiziarie, usurpandole al suo senior (e indirettamente l’imperatore). Inoltre, nessuno ha detto che il vassallo deve riscuotere i tributi. All’interno del feudo ci sono molti servi della gleba e uomini liberi che esercitano artigianato e commercio. Tutti questi uomini devono pagare i tributi, ma li dovrebbero pagare al senior. Anche in questo caso, il vassallo, che stabilmente rappresenta il potere nel feudo, invece di accettare l’idea che il senior mandi degli esattori a riscuotere le tasse, comincia a farlo lui stesso. È lui ad auto-legittimarsi come esattore fiscale. Si impegna con il suo senior a dargli una certa somma fissa. Questo è un vantaggio per il senior il quale è garantito del fatto che tutti gli anni riceverà quel tributo, a prescindere dagli anni di magra o di abbondanza. Il vassallo si impegna a questo perché, se esercita le funzioni di esattore fiscale con maggiora ferocia del senior, ciò che riscuote in più rimane a lui. Questa situazione è conosciuta anche nella leggenda di Robin Hood. Robin Hood si contrappone allo sceriffo di Nottingham. Lo sceriffo è l’esattore fiscale del signore di Nottingham. Robin Hood cerca di informare il re Riccardo Cuor di Leone, affinché riconduca lo sceriffo e il feudatario al giusto comportamento. Questa è la logica del feudalesimo. Il feudatario esercita in maniera sempre più intensa dei poteri che non gli spetterebbero (amministrare giustizia, riscuotere tasse, fino a impedire l’accesso sui suoi territori degli ispettori del senior). I suoi poteri crescono così tanto che pretende di essere l’unico signore assoluto di quella terra. Questo non significa che ripudia la sua sottomissione feudale! Riconosce sempre di esser vassallo. Difatti tutti i suoi poteri dipendono dall’investitura feudale. Sta bene attento a non negare questa sottomissione. Vuole semplicemente l’esercizio di alcuni privilegi (riscuotere le tasse, amministrare giustizia, autonomia di gestione). Non sta dicendo che quel bene gli spetta in proprietà. Dice solo che, pur rimanendo valido il giuramento di fedeltà, vuole esercitare queste prerogative in libertà.
Questa è la situazione del feudo. Ma questa situazione rimane in piedi perché esiste una regola estremamente chiara che è quella della durata vitalizia della carica. Siccome il giuramento di fedeltà è un giuramento personale, stretto tra due persone (il vassallo e il senior), la durata concessione del beneficium dura quanto dura la vita del vassallo. Alla morte del vassallo i beni tornano al senior, che li concederà di nuovo ad un’altra persona che farà il giuramento di fedeltà, altrimenti questi beni si perdono. Questi beni sono stati dati in godimento, perché la persona che si è vincolata al senior li gestisca per l’interesse del senior. Se quei beni rimangono a persone che non sono più legate in alcun modo al senior, quei beni sono persi. I beni invece devono servire a nuovi vassalli. Il senior rimette la sua potenza militare nella scelta dei vassalli. I vassalli devono essere i migliori e i più fedeli, perché la sua forza e la sua vita dipenderà dalle loro capacità. La scelta deve essere oculata. Alla morte del vassallo i beni devono tornare al senior. Così come alla morte del senior tutti i vassalli devono nuovamente giurare fedeltà al nuovo senior. Altrimenti quel rapporto personale non ci sarebbe più. È fondamentale per il funzionamento del feudo la qualità vitalizia della carica. Così come questi vassalli hanno cominciato ad usurpare funzioni che non spettavano loro, cominciano a considerare, dopo aver esercitato per tutta la vita fedelmente le loro funzioni, cha sia un’ingiustizia che alla loro morte i loro figli debbano essere privati di tutte queste prerogative. Tutto ritorna al senior che può decidere di dare queste terre ad altre. Tutta la discendenza di quel vassallo rimarrebbe priva delle ricchezze. È chiaro che questi feudatari non accettano questa regola. Allora avviene che in un momento di debolezza dell’impero, nell’877, quando il potere dei carolingi si sta trasformando in una crisi definitiva, i feudatari maggiori, nel momento in cui l’imperatore li chiama a raccolta per una campagna militare, si rivolgono all’imperatore. I vassalli chiedono tutela all’imperatore affinché, in caso di morte in guerra, i figli ereditino qualche loro ricchezza. E siccome l’unica forza dell’imperatore è la presenza dei suoi vassalli, questi vassalli lo mettono di fronte alla necessità di accettare l’idea della ereditarietà dei feudi maggiori. Nel momento in cui dovesse morire uno di questi vassalli, subentrano i figli. Il figlio dovrà a sua volta prestare giuramento di fedeltà. Il beneficium si conserva solo nella misura in cui il successore si obbliga agli stessi doveri di fedeltà a cui era obbligato il padre. Deve esserci una prosecuzione di fedeltà dal padre al figlio. Se c’è questa, rimane a titolo ereditario il godimento del bene. L’ereditarietà dei feudi maggiori verrà poi, nel 1037, chiesta insistentemente anche dai feudatari minori e l’imperatore Corrado II il Salico dovrà concedergliela. Si registra questa trasformazione strutturale del feudo come istituzione ereditaria. Tutto questo crea difficoltà immense, non solo perché non è detto che il figlio abbia le stesse capacità del padre. La scelta del feudatario era in termini di opportunità e convenienza. Il vassallo veniva scelto per la sua capacità e attitudine alle armi. Non è detto che queste qualità proseguano nel figlio. L’impero si trova ad essere indebolito perché questa ereditarietà non garantisce sempre che il potere feudale venga esercitato nel modo migliore. Inoltre l’ereditarietà pone dei problemi che finora erano sconosciuti. Nell’ipotesi in cui a succedere è un minorenne? Il minorenne non ha capacità di portare le armi, e quindi non si può obbligare con giuramento nei confronti del suo senior ad accorrere militarmente a suo vantaggio. In questo caso bisogna prevedere una sorta di “gestione provvisoria” in cui il vescovo ed altri personaggi intervengono a favore del minorenne per garantire l’esercizio del potere militare nel feudo. Nell’ipotesi in cui succede una donna? È un caso difficile, perché la donna non porta le armi e quindi non può giurare nessuna fedeltà al senior. In questo caso bisogna trovare velocemente un marito che si possa trovare nella condizione di giurare fedeltà al senior. L’ereditarietà, oltre ad indebolire l’impero, costituisce gradualmente una serie di problemi difficili. Tutto questo fa parte di quel diritto (diritto feudale: diritto che disciplina i rapporti tra feudatari e vassalli) che ancora oggi esiste. Qualche anno fa in Spagna s’è posto il problema della sola figlia femmina, e il sistema feudale spagnolo prevede che la successione regale avvenga solo per linea maschile.
In questo quadro il diritto che diritto è? Quello di cui abbiamo parlato, il diritto feudale, non è il diritto del feudo. Il diritto feudale è un diritto che riguarda i rapporti tra feudatari, tra vassalli e signori. Tutti gli altri uomini che vivono all’interno del feudo non sono minimamente disciplinati dal diritto feudale. E allora che diritto si applica nel feudo? Il feudo porta alla nascita di una corte feudale assolutamente autonoma e distinta da tutto ciò che la circonda. Ogni feudatario ha il suo beneficium; ogni feudo è distinto e non comunicante dagli altri. Non c’è nessuna forma di contatto né culturale né economico fra feudi. Ogni feudo da a sé. Ha un’economia di sussistenza in cui non è prevista nessuna forma di relazione economica all’interno del feudo. Tutto questo crea un quadro giuridico estremamente particolare. Fino a questo momento avevamo avuto la personalità del diritto. Ogni popolazione barbarica pretendeva la tutela del proprio diritto personale. Ma in un feudo, dove le persone sono pochissime, senza contatti con il mondo esterno, i tipi giuridici sono essenziali, non è ammissibile la presenza di tanti diritti personali. Nel corso dei secoli, all’interno del feudo si forma l’unico tipo di diritto che può nascere in questa realtà: consuetudini. Il feudo è il luogo ideale per la formazione di consuetudini. Oltretutto le consuetudini sono orali. Ecco che nel feudo gli abitanti non fanno più riferimento ai loro diritti personali, ma osservano tutti delle consuetudini omogenee tipiche di quel feudo di carattere feudale. La caratteristica specifica è che queste consuetudini, dovunque si svilupperanno, presenteranno un profilo omogeneo: così come tutti i diritti barbarici vedevano nel diritto romano la madre di tutte le leggi umane, allo stesso modo, tutti questi diritti consuetudinari saranno tutti basati sul diritto romano, salvo prevedere alcuni singoli istituti giuridici tipici della popolazione barbarica che aveva sede in quel territorio. Un feudo italiano avrà base giuridica nel diritto romano, più alcuni istituti superstiti di diritto longobardo; un feudo gallico avrà sempre lo stesso fondamento romanistico, più alcuni istituti tipici del diritto franco. Questa realtà è omogenea con la lingua. In Europa si vanno affermando sempre di più, in questo periodo, le lingue romanze. Le lingue romanze sono la presenza di un ceppo linguistico unico (il latino) che si va distinguendo. Oggi non parliamo più tutti la stessa lingua perché in Italia ci sono stati i longobardi, in Spagna ci sono stati i visigoti, in Francia ci sono stati i franchi. Il latino s’è trasformato a seconda della lingua parlata dai popoli barbari. La lingua è grossomodo omogenea, ma diversa perché ognuna è influenzata dal popolo che ha avuto il dominio su quel territorio. Ciò che è accaduto per la lingua è accaduto anche per il diritto. Per tutti vige il diritto romano, però ogni feudo ha le sue specificità. Così facendo si passa dalla personalità del diritto alla territorialità del diritto. Le consuetudini vigono su base territoriale, e si abbandona il principio personalistico.

Medievale Nov 20
La volta precedente abbiamo visto le vicende del feudo. Il Sacro Romano Impero era costretto ad affidarsi ad una macchina istituzionale che era il feudo. Tutto il territorio che forma l’impero veniva diviso in una serie di piccole entità territoriali. A capo di ciascuna c’è il feudatario. Esiste una catena di obbedienze feudali che lega ciascun feudatario, come vertice, all’imperatore. All’interno del Sacro romano impero l’organizzazione del potere è gestita dal feudo. Abbiamo visto anche il funzionamento del beneficium (la terra viene concessa solo a titolo di godimento, non di proprietà), per impedire la dispersione del patrimonio dell’impero. Questo godimento garantisce che quella terra sia costantemente finalizzata ad adempiere agli obiettivi che gravano sul feudatario. A tutto questo si legano profili giuridici. Il feudo è una realtà chiusa; ha un’economia di sussistenza. Il feudatario impedisce contatti con il mondo esterno: non esistono scambi né commerciali né culturali. Il feudo produce solo ciò che deve consumare. Non produce di più perché altrimenti verrebbe sprecato. Non produce di meno altrimenti ci sarebbe la carestia. In queste condizioni è chiaro che non c’è movimento. Gli uomini non hanno ragione per spostarsi. Ecco che l’alto medioevo, l’era del feudo, è un periodo di chiusura sotto tutti i punti di vista. Non c’è comunicazione all’interno delle varie regioni dell’Europa. Se un viaggiatore ideale si fosse messo in movimento nel IX o X sec., in questa sua peregrinazione per l’Europa, avrebbe incontrato non più città (caratteristica dell’impero Romano) ma esclusivamente castelli. Questi castelli sono solamente delle strutture militari, delle postazioni difensive. All’interno del castello non ha senso pensare ad un interesse per la cultura. Il feudatario è un militare, un uomo d’armi: occupa la sua vita solamente a perfezionare la sua capacità militare; all’interno del feudo l’economia è di pura sussistenza. Non c’è posto per un interesse scientifico, culturale. Questo nostro viaggiatore ideale avrebbe incontrato solo castelli e non avrebbe trovato un’occasione di approfondimento culturale. Non Avrebbe trovato né università, né scuole, né maestri, né biblioteche.
La situazione culturale dell’alto medioevo è in questo quadro di profondo degrado. Nei secoli di cui ci stiamo occupando (VIII-IX-X sec.) c’è una profonda connessione tra scienza e arte, due concetti che oggi siamo abituati a tenere rigorosamente distinti. Per noi o c’è scienza o c’è arte. La scienza attiene alla certezza; l’arte attiene ai sentimenti, ma è tutto molto più vago. In questo periodo, e anche per molto tempo dopo, le due sfere costituiscono un’entità unica. Tutto questo fino a Galileo. È Galileo che, prendendo degli schemi della sua epoca, concepisce una distinzione tra ciò che è sperimentabile e ciò che è artistico, che non è materialmente soggetto ad esperimento. Anche gli ultimi esponenti del pensiero scientifico medievale sono invece espressione congiunta dei due profili. Leonardo era al contempo scienziato ed artista. In lui le due realtà convivono, coincidono. I suoi bozzetti anatomici sono contemporaneamente espressione artistica e ricerca scientifica del corpo umano. Abbiamo in questa idea del medioevo una connessione profonda. Non era possibile essere artisti senza essere scienziati o scienziati senza essere artisti. Non solo c’è questa connessione: scienza ed arte sono per giunta espressioni della teologia. La scienza del medioevo non può non essere scienza teologica. Studiare il mondo non è altro che cercare di conoscere Dio. Il mondo è creazione divina, quindi l’uomo che cerca di realizzare un progetto scientifico non fa altro che cercare di ottenere una visione più ampia e sicura del progetto divino, quindi sta facendo teologia. In ambito medievale l’idea di scienza è connessa all’arte e alla teologia. Uno scienziato, a quei tempi, era anche teologo. Ecco che i due profili vanno di pari passo (conoscenza del mondo = conoscenza di Dio). Tutto ciò non basta. Se è vero che c’è questa impostazione culturale, bisogna anche prendere in considerazione le caratteristiche del periodo. Abbiamo detto che non esistono più luoghi deputati alla cultura; sono secoli di feudi, di realtà concepite per la guerra. In questo momento di decadenza la grande eredità, il patrimonio immenso dell’età romana si è grandemente assottigliato. Tutto quello che aveva prodotto l’antichità classica era stato filtrato dagli ultimi esponenti della latinità, dagli ultimi rappresentanti della cultura all’interno dell’impero romano o dei primi regni barbarici. Questi avevano cercato di mediare tra la ricchezza del pensiero latino e greco e la povertà che si affacciava nella loro epoca. Avevano cercato di semplificare il patrimonio culturale dell’antichità. Questa semplificazione aveva prodotto una serie limitata di opere che gli uomini dell’alto medioevo potevano concretamente utilizzare. Gli uomini dell’alto medioevo non potevano più confrontarsi con le opere autentiche dell’antichità classica. Nel medioevo il sapere è concepito come enciclopedico: esisteva un numero definito di opere che costituivano la totalità del sapere. Tutto lo scibile era compreso in un numero limitato di opere. Era possibile conoscere tutto quello che c’era da sapere. Mentre oggi è impossibile pensare di poter padroneggiare tutto lo scibile umano, nell’alto medioevo si era convinti che un uomo potesse, anzi, dovesse sapere tutto. La sua visione doveva essere enciclopedica, abbracciare tutto l’ambito della conoscenza, che era limitato. Conoscendo quel certo numero di opere si era sicuri di sapere tutto il necessario. Esistevano comunque altre opere erano espressione di una realtà non cristiana (opere di medicina ebraica, musulmana) che erano considerate estranee. Se il sapere è anche teologia, significa che deve riguardare solamente gli scritti autorizzati, leciti per la conoscenza. Le opere che esulano da questo quadro sono pericolose e dannose. Il quadro enciclopedico si connota per questa sua limitazione. Le opere sono limitate perché sono le uniche autorizzate a trasmettere la conoscenza. L’uomo dell’alto medioevo sa di poter contare solo su quelle opere. Abbiamo una visione enciclopedica. Questa enciclopedia del sapere, per comodità, veniva suddivisa in sette arti liberali. Le arti liberali erano distinte dalle arti meccaniche, che riguardano la manipolazione della realtà (fabbro, ebanista). Le arti liberali erano divise in un trivio e un quadrivio. Le prime tre erano le arti sermocinali (così chiamate perché riguardano il sermo, ossia il discorso): grammatica, retorica, dialettica. Poi il quadrivio, che riguarda le arti della natura: matematica, geometria, astronomia, musica. Con queste quattro arti si studia il mondo come espressione di Dio. La matematica è rapporto, armonia tra i numeri. La geometria è armonia tra le misure. Allo stesso modo l’astronomia è armonia tra gli astri. Infine la musica è armonia tra le note. Con queste quattro arti gli uomini cercavano di concepire il progetto divino nell’armonia della natura. A noi interessano di più le arti del trivio. La grammatica era l’arte di base per le altre arti. Senza la conoscenza delle parole e della connessione delle parole non è concepibile fare alcun tipo di discorso. La retorica non è, come oggi, vuota ampollosità, discorsi pomposi e vani. La retorica è qualcosa di molto concreto: non basta conoscere le parole. Se si vuole fare un ragionamento, queste parole vanno organizzate. La retorica è l’arte che consente di strutturare un discorso. Con la retorica si organizza un discorso coerente e convincente, in modo tale da persuadere l’uditorio della bontà delle mie argomentazioni. Se faccio un bel discorso ma un uditore obietta, a questo punto non serve più né la grammatica, né la retorica. Serve anche la dialettica: l’arte che consente di combattere con gli argomenti. È l’arte della sfida scientifica. Il trivio è il complesso delle arti che consentono di poter confrontarsi e produrre nuova scienza con le argomentazioni intellettuali. In questo quadro delle arti non c’è il diritto. Nel periodo feudale il diritto non aveva una sua collocazione specifica. Non è che fosse del tutto sconosciuto. È evidente che per studiare la retorica e la dialettica, i testi più utili sono i testi giuridici. Per antonomasia il luogo della dialettica è il processo. Il luogo ideale anche per la retorica è la discussione giuridica. Quando i maestri dovevano spiegare gli strumenti della retorica e della dialettica ricorrevano a esempi classici giuridici. Allora non direttamente, ma indirettamente, viene studiato anche il diritto. Il diritto viene studiato come approfondimento della retorica e dialettica. Nell’alto medioevo, se ho bisogno di un esperto di diritto, l’unica cosa che posso fare è rivolgermi a un retore legis peritus. Il massimo della formazione giuridica dell’alto medioevo è il maestro di retorica esperto in testi legislativi. Nell’alto medioevo il diritto è inserito in questo quadro delle arti liberali.
Materialmente le arti liberali non venivano insegnate nelle scuole o università (non c’erano città, ma solo castelli, con unico scopo militare), bensì in strutture simili ai castelli: i monasteri. Se i castelli servono alla sopravvivenza, la chiesa si organizza in forma omogenea ma con diversa finalità: il monastero serve al lavoro e alla vita dei monaci. La figura del monaco ha origine dalla concezione occidentale dell’ascesi spirituale. In oriente, quando si comincia ad affermare il cristianesimo, si è convinti che la via per ottenere l’elevazione spirituale sia quella dell’abbandono del mondo. In oriente, per elevarsi a Dio, la cosa migliore che si ritiene di fare è abbandonare il mondo. Abbiamo per esempio i padri del deserto: asceti che si rifugiano nel deserto e vivono di locuste e miele selvatico, che rifiutano gli agi della vita in collettività. In oriente ci sono anche gli stiliti: coloro che passano tutta la loro vita su una colonna (erano considerati santi). Queste impostazioni di vita spirituale in occidente non funzionano non solo per una differenza culturale, ma anche perché questo isolamento dal mondo è più difficile. È vero che esistono gli eremi anche in occidente, ma la via eremitica è più complessa. In occidente si sviluppò l’idea che l’elevazione spirituale dovesse avvenire non nell’isolamento dal mondo e dagli altri, ma nella vita con gli altri. Abbiamo l’idea del cenobio (monastero). Mentre in oriente ci sono gli anacoreti, ossia coloro che si isolano dal mondo, in occidente abbiamo i cenobiti (), cioè coloro che fanno “vita comune”. Nascono quindi delle collettività di persone che voglio perseguire una vita santa. Ma tutto questo genera un problema che in oriente no c’era. Se uno vive da solo non ha bisogno di regole. Se invece gli uomini che vogliono ottenere l’elevazione spirituale decidono di vivere assieme, si accorgono (come S. Benedetto da Norcia) che si devono dare delle regole. La vita nel monastero non può essere arbitraria. La vita con gli altri non deve essere conflittuale. Ecco come nasce la regola monastica benedettina. Dalla fondazione di Montecassino in poi viene imposta a tutti la regola. Abbiamo comunità monastiche di soggetti che vivono in monastero e seguono la regola. La loro vita è rigidamente disciplinata. “Ora et labora” significa che non basta solo pregare, ma anche lavorare. Se i monaci lavorano, è chiaro che non tutti faranno la stessa cosa: ci saranno alcuni monaci che avranno il compito di fare un lavoro diverso dagli altri, cioè quello della trasmissione della cultura. Nel monastero, con tutte le altre attività, c’è anche un nucleo di monaci che trasmettono la cultura. Ecco che nei monasteri abbiamo gli scriptoria, quei luoghi destinati alla trascrizione delle opere dell’antichità. Se questo è vero, vuol dire che quel monaco è stato formato anche culturalmente. Nell’alto medioevo la cultura giace nei monasteri. Nei monasteri abbiamo gli scriptoria, le scuole, le biblioteche. Sono il faro della cultura, il luogo dove si trasmette la conoscenza. Tutto questo avviene con un vantaggio: l’assoluta uniformità. La regola benedettina fa in modo che tutti i monasteri siano esattamente uguali. Ovunque si trova il monastero, dalla Spagna alla Polonia, osserva in maniera fedele le stesse regole nello studio e nella trasmissione della conoscenza. I monasteri sono esattamente equivalenti. Un monaco può viaggiare senza trovare la benché minima variazione delle regole e quindi della cultura. Questo è fondamentale perché consente alle opere di viaggiare nei secoli in maniera uniforme. Tutti questi monasteri ripetono allo stesso modo la stessa cultura ovunque. Garantiscono omogeneità culturale in tutta Europa. Inoltre questa omogeneità diventa il limite più grave del monastero. Nel corso dei secoli i monaci sono così vincolati al rispetto della regola che non c’è in tutti questi secoli nessuna evoluzione culturale. Non c’è crescita o sviluppo; c’è solo mera trasmissione, seppur fedele, trascrizione inalterata della cultura. In tutti questi secoli dell’alto medioevo non ci saranno personaggi di spicco nel quadro intellettuale che introducono innovazioni. Tutto questo non ci può essere perché il monaco esercita bene la sua funzione solo se rispetta bene la regola, ovvero solo se non cambia niente. Ecco perché la scienza altomedievale è una scienza per noi utilissima, che ci ha consentito di avere quel ponte dall’antichità al basso medioevo in quanto a mantenimento delle opere, ma che ha il limite gravissimo di essere una trasmissione pedissequa, puramente ripetitiva, fedele al modello, senza mai una critica. L’alto medioevo è un periodo di decadenza culturale; la scienza è presente solo nei monasteri, nelle arti liberali, per trasmettere la conoscenza del passato.
Arriviamo ora al passaggio dall’alto al basso medioevo. La civiltà feudale occupa i secoli dal IX all’XI secolo. L’XI secolo è il secolo di passaggio. C’è però una vicenda che riguarda il diritto che ci porta a vivere questo passaggio dall’età di decadenza altomedievale al maggiore sviluppo del basso medioevo. Partiamo dal feudo. Il feudo è una forma di gestione di amministrazione dell’impero. L’impero non riesce a organizzarsi e allora provvede a tutto questo il feudo. Il feudo è rappresentato dal feudatario. Il feudatario concepisce la sua vita come un addestramento alla guerra e sa di essere parte integrante della macchina imperiale. La concessione del beneficio, perché sia in grado di metterla a frutto e sia in grado di fornire cavalieri, è legata alla durata vitalizia. Si è titolari di quelle terre finché si vive. Alla morte quei beni devono tornare alla disponibilità del senior affinché poi li conceda a un nuovo vassallo. Ci sarà una nuova persona che farà un giuramento al senior che riceverà il beneficio. Essenziale per il funzionamento del feudo è la durata legata vitalizia del beneficio. In caso di morte del senior i beni tornavano nelle mani del nuovo senior che decideva come gestire i territori. I feudatari impongono l’ereditarietà dal feudo. Alla morte del vassallo pretendono che quel titolo passi agli eredi. Questo è grave per l’impero. Nel giro di poche generazioni accade che l’impero si indebolisce. Esiste una figura che per sua natura dovrebbe essere esclusa dall’eredità: il vescovo. Il vescovo è tenuto al rispetto del celibato, della continenza. Accade spesso che ci siano delle investiture feudali fatte a vantaggio di vescovi. Nasce la figura del c.d. vescovo-conte, che incorpora in sé le due qualità di vescovo e conte. Abbiamo una descrizione di una investitura fatta al vescovo di Parma: “Sia noto alla sollecitudine dei fedeli e della Santa Chiesa che Uberto, vescovo di Parma, ha chiesto che noi lo arricchissimo delle cose spettanti al regio potere e alla pubblica funzione”. L’imperatore concede al vescovo anche il titolo di conte. In questo modo, con la nomina di un vescovo, evitava i problemi relativi all’ereditarietà. Morto il vescovo, il titolo di conte tornava al senior. La chiesa, in questo quadro, va incontro alla sua più grave decadenza. Sempre di più il potere dei vescovi tende a perdere qualsiasi limite. I vescovi vanno incontro a due peccati gravissimi:
- Simonia
- Nicolaismo
La simonia è la vendita del sacro, delle cose sacre, intendendo non solo i paramenti liturgici, ma anche tutto quello che riguarda la chiesa. La qualità di conte non si acquisisce solamente per benigna gentilezza del senior, ma perché si paga. Il titolo di conte si acquisisce dietro esborso di denaro. Essere feudatario significa guadagno economico. Fin quando questo era limitato al titolo di conte, non c’era problema. Ma siccome sempre di più le due qualifiche (conte e vescovo) vanno a fondersi (nello stesso momento si acquisisce la qualifica di conte e di vescovo) viene fuori che per diventare vescovo bisogna pagare. Si incorre così nel peccato della simonia, il commercio delle cose sacre. I vescovi non vengono più scelti in base alla loro capacità pastorale, ma in base al portafoglio.
Il nicolaismo. Il vescovo è diventato vescovo-conte pagando la carica. Siamo in una fase di degrado. Questo vescovo decide di infrangere anche il voto del celibato. Comincia a metter su famiglia.
Il connubio delle due funzioni (feudale ed ecclesiastica) non ha risolto il problema imperiale (perché anche i vescovi hanno figli e vogliono trasmettere il titolo di vescovo-conte ai loro figli) ma ha messo in grave crisi anche la chiesa. La chiesa si trova ad avere una classe di vescovi profondamente corrotta, che ha subito le lusinghe del potere feudale e si è abbandonata alle deviazioni del mondo. Nel IX-X-XI secolo la chiesa si lascia andare a questo legame con i poteri feudali. Tutto questo genera reazioni anche rabbiose. Ci sono delle lettere di fuoco da parte della dottrina e da parte della popolazione contro questo clero. Questa lettera del 1059: “Nessuno ascolterà la messa celebrata da un prete a proposito del quale si sa che vive con una concubina. Il Santo Concilio, infatti, sotto pena di scomunica, ha deciso in modo conforme con il decreto sulla castità dei preti etc.”. Questo comportamento è una cosa diffusa. Anche quest’altra lettera del 1074: “Chiunque sarà stato promosso ad una carica per simonia, ossia dietro esborso di denaro, e più precisamente abbia conseguito con tali metodi gli ordini sacri o una carica ecclesiastica, non potrà svolgere alcuna funzione nella santa chiesa. Coloro che hanno peccato di fornicazione non potranno mai celebrare la messa né esercitare all’altare gli ordini minori. Decidiamo pure che i fedeli non potranno partecipare agli uffici sacri di chi non abbia ascoltato debitamente le nostre costituzioni conciliari. Costoro non potranno, se non saranno purificati dall’amore di Dio, né esercitare la dignità del loro ufficio sacerdotale e saranno umiliati pubblicamente dal rispetto umano e dal biasimo popolare”. La chiesa sta attraversando uno dei momenti più buî della sua storia, al punto tale che nascono anche dei movimenti eretici che cercano di riportare la chiesa alla dignità evangelica non attraverso un tentativo di convertire il clero ma con l’omicidio dei vescovi indegni (cataria). Se il clero è così decaduto da due secoli, allora da due secoli la chiesa amministra sacramenti invalidi. Da due secoli tutte le ordinazioni sono fasulle. Si concepisce la dottrina che dice che per quanto delinquente sia colui che consacra, non per questo colui che è consacrato è colpito da alcuna perdita del sacro dono, né da qualche diminuzione della grazia celeste. Il mistero della consacrazione non si propaga a un altro per merito del sacerdote, ma per il ministero di cui è investito. I sacramenti sono validi, solamente che questo clero è completamente da reprimere. Aldilà di movimenti ereticali nati dalla furia popolare, c’è un altro movimento decisivo: quello che parte dal monastero francese da Cluny. A Cluny nasce l’idea di riportare la chiesa sulla strada della purezza. Questi monaci cominciano a diffondersi e nasce questo movimento cluniacense. Questi monaci vanno fondando molti altri monasteri in giro per l’Europa con il proposito di ripristinare la verità della chiesa. Tutta questa macchina ottiene il suo sviluppo più completo quanto uno di questi monaci diventa papa. È Ildebrando di Soana che diventa papa con il nome di Gregorio VII nel 1073. Tanto è importante il fatto che uno di questi monaci sia diventato papa che da Gregorio VII in poi si avvierà un processo ancora più forte di riforma della chiesa che prende il nome di riforma gregoriana. La seconda metà dell’XI secolo è caratterizzata da questa forza riformatrice sostenuta addirittura dal pontefice romano. Non è più solamente una volontà di alcuni monaci, ma è una forte decisione centralizzata. Gregorio VII scrive un promemoria, il Dictatus Papae (1075). Il papa detta al suo segretario alcune idee fondamentali per rifondare la chiesa. Questo “dettato del papa” è sopravvissuto. Abbiamo ancora oggi questo fogliettino di carta dove sono segnate queste 27 frasi, linee guida per risollevare la chiesa. In questo dictatus papae abbiamo il programma politico pontificio. In questo quadro abbiamo anche delle affermazioni significative per quanto riguarda gli imperatori e i vescovi. Gregorio VII è papa dal 1073 al 1085. Solo da pochi decenni i papi avevano evitato che la loro elezione fosse soggetta alle direttive da parte dell’imperatore. Fino a due decenni prima di Gregorio VII il papa veniva ancora eletto per acclamazione popolare dietro pressione dell’inviato imperiale. Prima i papi si facevano per decisione imperiale e acclamazione popolare. Solo con un pontefice di poco precedente a Gregorio VII (Niccolò II) nasce il collegio dei cardinali che ha il compito di nominare il pontefice. I papi già vogliono sottrarsi al controllo dell’imperatore. Non sarà più l’imperatore a scegliere chi debba essere il papa. Non solo: Gregorio VII dice che è il papa che può deporre l’imperatore. È un’idea di rivalsa. Per quanto ci interessa adesso, il papa parla anche dei vescovi. “Solo il papa può deporre o assolvere i vescovi. Solo al papa è permesso trasferire i vescovi da una sede all’altra se ce ne è la necessità”. I vescovi devono tornare ad obbedire al papa e solo il papa ha il potere di condizionare la vita dei vescovi, al punto tale da deporli e da trasferirli. Questo è qualcosa che per quei vescovi è micidiale. Il trasferimento? Quel vescovo ha pagato fior di quattrini per diventare vescovo-conte di quella terra. Per poter godere di quel potere ha pagato. Ora il papa sta dicendo che può essere liberamente trasferito altrove, senza titolo di conte. Quindi dovrebbe perdere la contea e rimanere vescovo in un’altra terra. È chiaro che tutto questo sarebbe un disastro economico. Per giunta quel vescovo ha fatto famiglia, per cui quel titolo lo trasmette agli eredi. Se viene trasferito non può più trasmettere un bel nulla. I vescovi si trovano spiazzati. Il papa impone loro di ritornare all’idea originaria di purezza evangelica, mentre ormai da due secoli si comportano come conti. La reazione infatti non è minimamente di obbedienza, anzi è una reazione rabbiosa dei vescovi. Contro questo decreto si sollevarono tutti i chierici affermando che “era il papa ad essere eretico e a coltivare una stolta dottrina”. Infatti, secondo i vescovi, il papa “aveva dimenticato la parola divina che afferma che non tutti sono in grado di comprendere il verbo. Chi può comprenderlo lo comprende; chi non potrà essere continente si sposi, e sarà cosa migliore essere sposato che essere bruciato da un’insana passione in quanto voler costringere in modo violento gli uomini a vivere a guisa di angeli. Proprio mentre si pretende di negare l’abituale corso della natura, avrebbe lasciato libero sfogo alla fornicazione e all’immondizia. Se egli avesse inteso persistere nel mantenere la sua idea, essi avrebbero considerato preferibile abbandonare il sacerdozio, piuttosto che l’unione matrimoniale. E allora si sarebbe finalmente visto dove mai egli, che mostrava di avere fastidio degli uomini, avrebbe potuto rinvenire gli angeli per mantenere il popolo dei fedeli all’interno della chiesa di Dio”. I vescovi obiettano al papa dicendo che la continenza è roba da angeli; noi siamo uomini, da secoli ci comportiamo da uomini e non vogliamo tornare indietro. A questo punto il papa fa dei decreti, una serie di norme per imporre l’obbedienza, affermando che tutto questo è giuridicamente vincolato dal fatto che queste norme fatte ora dal pontefice non fanno altro che ribadire la dottrina tradizionale della chiesa. I vescovi obiettano che il loro comportamento non è antigiuridico. Questo atteggiamento di abbandono del celibato non è tenuto in modo arbitrario, ma si attengono a un nuovo diritto: al diritto di tipo consuetudinario. Siccome sono tre secoli che tutto il clero fa così, vuol dire, dicono loro, che si è affermata una consuetudine in questo senso. Siccome la consuetudine è una fortissima fonte del diritto, si basano su tale consuetudine. Il papa condivide il fatto che queste siano consuetudini, ma queste sono consuetudine prave, immonde, dannose. Non tutte le consuetudini vanno seguite. Se alcune consuetudini si pongono contro le leggi autorevoli adottate dalla chiesa da sempre, quelle consuetudini sono sbagliate, e in quanto tali vanno abolite. Anche se esistono delle consuetudini, questa non è la giustificazione. I vescovi obiettano che non si sa dove siano questi antichi precetti. Dal momento che tutto l’alto medioevo è un’età di decadenza culturale, queste vecchie fonti erano quasi scomparse. Non esisteva una conoscenza culturale così approfondita da dire che quelle fonti dell’antichità che proclamavano la necessità della continenza dei chierici potessero essere conosciute da tutti. Allora i vescovi chiedono al papa di portare i testi che affermano tale castità. Il papa manda allora dei suoi uomini di fiducia ad indagare all’interno dell’unico luogo in cui poteva sopravvivere la cultura: i monasteri. Dà ordine di andare a cercare nelle biblioteche dei monasteri queste fonti per controbattere ai vescovi. In tutto questo accade che uno di questi ricercatori si imbatte in un’opera che capisce poco ma che gli sembra importante. Si trova di fronte a un testo significativo. Ne copia qualche frammento. Abbiamo ancora oggi gli appunti di questi ricercatori. Quel testo era il Digesto. Quel ricercatore si era imbattuto forse nell’ultima copia superstite del digesto di Giustiniano, che si era perso definitivamente nel 604. Quattro secoli dopo viene ritrovato il Digesto, e ne vengono fatte copie, viene studiata e analizzata. Nasce una scienza giuridica basata sulla riscoperta del Digesto. Come effetto secondario, assolutamente non voluto, della riforma gregoriana abbiamo anche questo aspetto che per i nostri fini è fondamentale. Se non ci fosse il digesto la scienza giuridica di oggi sarebbe diversa; oggi avremmo un sistema giuridico del tutto differente. Se avessimo avuto solo le consuetudini feudali, avremmo una consapevolezza giuridica del tutto diversa.
Le ragioni per cui si passa al basso medioevo. Una delle vicende che hanno causato questo passaggio è la riforma gregoriana. Non a caso nel basso medioevo nasceranno gli ordini più significativi della chiesa: francescani e dominicani. Questi ordini nasceranno proprio come istituzionalizzazione della spinta della chiesa verso la sua riforma interna. La chiesa saprà risorgere dalla decadenza organizzando le sue forze migliori in maniera tale da tutelare in futuro la sua integrità. Oltre a questa vicenda, dobbiamo chiederci quali sono le altre ragioni del cambiamento così radicale tra alto e basso medioevo. Ci sono diversi aspetti. Una di queste ragioni è la novità scientifica. Noi siamo abituati al concetto di scienza che recentemente si è affermato sulla scorta di Galileo come qualche nozione di cui si ha assoluta certezza perché ottenuta col metodo sperimentale. La scienza per noi è frutto di sperimentazione (diceva Galilei: “Provando et riprovando”). Sono scientifici anche i manuali di diritto: contengono le note, ovvero la dimostrazione del percorso seguito da chi scrive il libro. Sulla scorta di quanto detto si costruiscono cose nuove. Oggi abbiamo questa idea di scienza, ma non tutti i secoli hanno avuto questa stessa idea di scienza. Che la scienza si facesse in questo modo, nel medioevo non era minimamente condiviso. Non c’era questa impostazione. Nel medioevo la scienza si faceva utilizzando i modelli ereditati dall’antichità. Come abbiamo visto, gli uomini dell’alto medioevo avevano ereditato dei modelli semplificati. La cultura altomedievale si fondava su poche opere che costituivano il tentativo di esporre in modo semplice le nozioni dell’antichità classica. Gli uomini dell’alto medioevo avevano la concezione della scienza basata solo su un pensatore: Platone. Per loro il modello più plausibile era quello platonico. Platone aveva indicato come fare scienza: aveva scritto nelle sue opere la tecnica per arrivare alla certezza scientifica, e aveva indicato la distinctio. Il meccanismo della “distinzione” era stato preso da un’opera di semplici fazione fatta da un filosofo del III sec. d.C. che si chiamava Porfirio. Porfirio, per spiegare agli uomini della sua epoca cosa era la distinctio platonica, aveva fatto un esempio. Platone indica come esistenti alcune idee (le idee platoniche). Nell’iperuranio esistono alcune categorie perfette di riferimento. Queste idee vivono in un universo lontano. Una di queste categorie è la substantia. Porfirio di Tiro cerca di spiegare agli uomini cos’è la distinctio. A questa categoria della substantia posso praticare una distinctio, una distinzione, e dire che qualche sostanza è corporea e altre sostanze sono incorporee. Faccio una divisione: a capo ho un genus che divido in species. La specie consente di avere un passaggio intellettuale di conoscenza in più. Se sto cercando una definizione scientifica dell’uomo, applico la distinzione alla categoria substantia. So che l’uomo è una sostanza per cui lo inserisco in questo genus; divido poi il genus in più specie. Distinguo poi le specie in altre sottospecie, con le subdistinctiones. Alla fine, con la distinctio, possiedo una catena di suddistinzioni che mi porta ad avere, dell’oggetto che vado cercando, una definizione scientifica, perché ottenuta con uno strumento scientificamente condivisibile come la distinctio. Allora potrò dire che l’uomo è sostanza corporea sensibile mortale mobile. Si arriva a una definizione certa della categoria cercata. Tutto l’alto medioevo fa scienza con la distinctio. Oltretutto questa impostazione è perfettamente in sintonia con la verità religiosa. Siccome fare scienza coincide col fare teologia, quando organizzo un meccanismo scientifico di conoscenza concepito così non contrasto con le verità di fede, perché questa macchina per pensare, in realtà, trae tutta la sua legittimazione dalla categoria di origine. Non potrò mai trovare una definizione che non rientri concettualmente in quella categoria di provenienza, perché tutto è frutto si specificazione di quella categoria di origine. Quindi il risultato ultimo della mia conoscenza non potrà mai contraddire il punto di partenza, quindi la verità rivelata. Ecco la sintonia con la teologia. Dal momento che devo partire da una verità presa per definizione, da un assioma, è chiaro che questo meccanismo è in perfetta sintonia con una tecnica di conoscenza di matrice cristiana. Da alcune verità rilevate ricavo altra conoscenza. L’alto medioevo si è affidato fiduciosamente al meccanismo platonico senza particolari trepidazioni. Così come è stato riscoperto il digesto, vengono scoperti altri testi che fino a quel momento erano completamente sconosciuti. Soprattutto viene riscoperto Aristotele, e specificatamente l’Organon di Aristotele, cioè le sei opere concepite per descrivere il meccanismo della logica aristotelica. Non vengono riscoperte tutte assieme, bensì a pezzi. Nell’XI secolo viene riscoperta quella parte dell’opera dove Aristotele dice di apprezzare la distinctio platonica, ma dal punto di vista della conoscenza è assolutamente puerile e inutile. Per mezzo della distinctio, dice Aristotele, non si può avere vera conoscenza. È una critica radicale alla logica platonica che negava qualsiasi utilità della distinctio per acquisire nuova conoscenza. L’applicazione della distinctio è la classificazione, non il raggiungimento di nuova conoscenza; la distinctio va bene per classificare. Non a caso oggi utilizziamo la distinctio per la classificazione del mondo naturale. L’organizzazione di Linneo usa la “distinzione platonica”. Aristotele dice che per la conoscenza serve il sillogismo. Il sillogismo parte da una premessa maggiore e da una premessa minore per arrivare ad una conclusione sillogistica. Esempio banale: Socrate è un uomo; tutti gli uomini sono mortali; conseguentemente Socrate è mortale. Il fatto che Socrate sia mortale non è contenuto nelle premesse. Il risultato che ricavo dalla connessione logica delle premesse è ulteriore rispetto alle premesse: è un salto mentale che mi fa acquisire conoscenza. La nuova conoscenza è scientifica. Se applico il sillogismo le conclusioni che ricavo sono indiscutibili. Il funzionamento del sillogismo è dato. Il problema sono le premesse. Posso avere dei sillogismi eristici, o paralogismi, cioè sillogismi in cui parto da premesse sbagliate e ottengo una conclusione sillogistica formalmente corretta ma intrinsecamente fasulla. Ma se parto da premesse corrette, la conclusione sillogistica è certa. Quindi ottengo un risultato scientificamente ineccepibile. Se utilizzo questa conclusione sillogistica come un’ulteriore premessa, posso fare un altro sillogismo e così via. Quella conclusione, diventando a sua volta premessa per altri ragionamenti, diventa la base di una lunga piramide di sillogismi che porta alla fine a conclusioni scientifiche generali. A furia di fare sillogismi, posso arrivare a verità raffinatissime che sintetizzano la conoscenza. In questo caso siamo partiti dal basso, cioè dalle premesse sillogistiche. Le premesse sillogistiche sono elementi del mondo; a furia di ragionamenti siamo saliti. Quindi col sillogismo conosco le premesse, ma non conosco l’esito del ragionamento. Quindi non so dove mi porterà questa catena di ragionamenti sillogistici. Questo vuol dire che non ho il controllo del risultato ultimo della conoscenza. Mentre in quel caso sapevo qual era l’entità fondamentale del ragionamento (substantia) se invece, in questo caso, parto dall’uomo, come base del mio ragionamento sillogistico, non è detto che vada a finire alla substantia. Ciò dipenderà semplicemente dal tipo di ragionamento compiuto. Il risultato scientifico può anche non coincidere con il dogma, con la verità di fede. Nasce il problema, tipicamente bassovedievale, della doppia verità: della verità di fede e della verità di scienza. La chiesa, per la prima volta, si deve confrontare con una scienza che arriva a risultati a volte non omogenei con le verità di fede. In questi secoli la riscoperta del sillogismo aristotelico porta gli uomini a confrontarsi con nuove indagini, nuove conoscenze; accade però che talvolta queste nuove acquisizioni non siano conformi ai dettati della verità religiosa. Tant’è vero che chi cercherà di fare una operazione di conciliazione tra le due realtà sarà S. Tommaso, che cercherà di sfruttare il sillogismo aristotelico per costruire teologia scientifica. Invece di partire da premesse assolute, parte da basi teologiche per costruire una teologia come scienza esatta. Il tentativo di S. Tommaso costituirà l’esempio più raffinato della fatica della chiesa di risolvere il problema della doppia verità.
Ci sono anche altre novità: nell’architettura, finora, c’era stato il romanico. Il romanico è fondato su grandi muri e piccolissime finestre. Si è convinti che la preghiera debba avvenire nel distacco dal mondo circostante. Il fedele, senza distrazioni esterne, prega nella massima concentrazione. Dal punto di vista architettonico, costruire una chiesa romanica è semplice: si mettono mattoni su mattoni e la stabilità dell’edificio è sicura. In questi secoli si sviluppa il gotico. Il gotico è l’antitesi del romanico. Se il romanico aveva poderose mura e piccole finestre, il gotico ha mura ridotte al minimo e ciò che domina sono immense vetrate. Dal punto di vista teologico gli uomini del basso medioevo, che hanno riacquisito il contatto col mondo, non negano più il mondo: affermano che il mondo è espressione di Dio e quindi il mondo deve entrare nella chiesa. La luce che viene proiettata dalla finestre colorate costituisce un’ulteriore dimostrazione della forza e della bellezza di Dio. Il mondo non va negato, ma esaltato al massimo nella chiesa. Le vetrate stanno lì a dimostrare al fedele la bellezza di Dio. Ecco che, mentre la cattedrale romanica era bassa, la cattedrale gotica è protesa verso l’alto. È uno sforzo di elevazione. Basti pensare alla cattedrale di Milano con i suoi pinnacoli, con il desiderio di elevarsi verso il cielo. Tutto questo, dal punto di vista architettonico, comporta uno sforzo possente. Nella cattedrale gotica bisogna ragionare. Bisogna studiare le spinte, i pesi, i contrappesi, la dinamica. Si inventano i contrafforti, gli archi rampanti, l’arco a sesto acuto, che bilancia meglio i pesi. Si sviluppano tecnologie costruttive che fanno a meno del legno (pericoloso) e usano la pietra. Con la pietra si stabilisce una solidità maggiore degli edifici. Tutto questo viene compiuto usando il ragionamento; e per ragionare si usa il sillogismo aristotelico. La novità del gotico non è legata solo ad una sensibilità artistica diversa, ma è legata alla necessità degli uomini di padroneggiare anche tecniche nuove. Il gotico è la dimostrazione plastica della novità scientifica del basso medioevo. Tutto questo si lega anche a banalità che hanno però dei risvolti clamorosi: in questo secolo si usa l’aratro di ferro. Finora si usava l’aratro di legno. Il contadino feudale, che deve produrre dei generi per la sua sussistenza, non ha bisogno di grandi macchine produttive. L’aratro di legno è fragile ma va più che bene. L’uso dell’aratro di ferro produce un solco più profondo e più sicuro, che permette di coltivare meglio e di più. E questo surplus, prima, era inutile, era sprecato. Adesso, nel basso medioevo, il “più” viene venduto: c’è il commercio in città. La città, da sola, non vive. Ha bisogno dei prodotti che vengono dall’esterno. E questi prodotti vengono realizzati dai contadini, usando l’aratro di ferro. E questi contadini guadagnano. Si acquista fiducia nel mondo. Mentre nell’alto medioevo non c’era crescita demografica, nel basso medioevo il numero di uomini aumenta in modo esponenziale. L’aumento giunge fino a quando non arriva la peste nera del 1350, che uccise il 60% della popolazione europea. L’Europa subì moltissimo questo colpo, e ci mise altri 4 secoli (fino al 1700) per poter tornare al livello demografico del basso medioevo. In questo quadro generale di rivoluzione, si colloca anche la trasformazione giuridica. Il diritto altomedievale non andava bene; era utile per una società povera. Per una società in così grande evoluzione come quella del basso medioevo, era necessario un diritto nuovo. Quel digesto, occasionalmente riscoperto, fu proprio l’elemento decisivo per dare il Diritto a questa nuova società, per innestare un circuito virtuoso dal punto di vista giuridico.

Medievale Nov 27
Una delle caratteristiche del passaggio dall’alto al basso medioevo è rappresentata dalla nascita della città. Rinascono in ambito europeo le città. Gli uomini del medioevo avevano già affrontato il quesito “cosa è la città?”. Isidoro da Siviglia, che scrive “Le etimologie”, dice che “per città si devono intendere non i sassi, ma gli abitanti (civitas non saxa, sed habitatores vocantur)”. Nella sua epoca, se per città si fossero voluti intedere dei sassi, se ne sarebbero trovati moltissimi. L’impero romano, un impero fondato sulle città, aveva lasciato all’era successiva, una serie di ruderi, di macerie. Esistevano tante città, ma abbandonate. Dal punto di vista formale, di città ne esistevano in Europa. Il problema è che nessuno più abitava da secoli in quelle città. La situazione era di tale degrado e pericolo per quanto riguarda la vita isolata, che vivere all’interno di una città poteva rappresentare un pericolo micidiale. Ecco perché struttura unica di quei secoli era il castello. Nell’ipotesi di pericoli esterni il castello forniva quella protezione necessaria per difendersi. La città no. Dice Isidoro che se noi vogliamo ricostruire il concetto di città non dobbiamo parlare di sassi, perché quella è solo una definizione formale di città; dobbiamo invece parlare di abitanti, e di abitanti non ce ne sono. Quindi, nell’alto medioevo città abitate non esistono. Invece, nel passaggio dall’alto al basso medioevo, le cose cambiano. Le città tornano ad essere abitate. Come mai adesso riprende una vita urbana? Non riprende ovunque in Europa: è un fenomeno tipicamente italiano. L’origine di tutto questo è, ancora una volta, all’interno del feudo. Quando nell’alto medioevo si vanno fondendo elementi di diritto romano e elementi di ogni territorio, bisogna fare i conti con la legislazione barbarica presente in quel territorio. Nell’alto medioevo si formano delle consuetudini che non sono altro che la fusione di elementi di diritto romano e di elementi di diritto barbarico. Esattamente come le lingue romanze, ci saranno delle caratteristiche diverse da territorio a territorio a seconda di quali siano state le popolazioni che hanno abitato quella terra. Per cui è vero che in tutta Europa c’è una base uniforme di diritto romano, però poi in ogni regione c’è quel diritto di quella popolazione. In questo momento questo discorso calza a pennello, perché in Italia, dove c’erano stati i longobardi, esisteva una tecnica di successione diversa da quella delle altre regioni d’Europa. In tutte le altre regioni vigeva la concezione barbarica per cui i beni passavano al primo figli maschi (il c.d. maggiorascato). Tutto è trasmesso al primo dei figli maschi, perché occorre conservare l’unità del patrimonio. In questo modo, nel corso delle varie generazioni, quel patrimonio rimane inalterato. Non a caso i figli successivi al primo che non ereditano il patrimonio si chiamano cadetti e devono trovare la loro fortuna altrove, perché non hanno un patrimonio ereditario a cui fare riferimento. Non a caso questi cadetti che non ereditano il patrimonio devono impegnarsi anche nell’esercizio delle funzioni militari. Ecco perché a Modena ci sono i cadetti (cioè i secondi figli). Il primo figlio non ha bisogno di intraprendere il mestiere della guerra. Ovunque in Europa vige l’istituto del maggiorascato. Il feudo passa quindi di generazione in generazione. Il feudo rimane fisso nelle sue dimensioni da padre a figlio. In Italia c’erano i longobardi: erano l’unico popolo che non adottava l’idea del maggiorascato e concepiva la successione ereditaria rivolta a tutti i figli. Questo, per il feudo, è micidiale. Nel giro di poche generazioni un feudo, anche grande, viene inesorabilmente suddiviso in una molteplicità di piccoli feudi. Se tutti i figli devono succedere al padre, quell’unico feudo si spezzetta. È quello che succede in Itala. Ci sono alcuni feudi che rimangono grandi, ma tanti altri feudi si disgregano e vanno a spezzettare l’unità originaria. È ovvio che a questo punto i piccoli feudatari sono pericolosamente esposti al rischio di aggressione da parte del grandi feudatari. Un grande feudatario, che può contare su una solida forza militare, sente la lusinga si aggredire e fagocitare anche un piccolo feudo. Questa tecnica di successione ereditaria in Italia aveva portato alla nascita di tanti piccoli feudi pericolosamente indifesi. Questi piccoli feudatari si aggregano, per contrapporsi congiuntamente ai grandi feudatari. Tutte le volte che un grande feudatario aggredisce un piccolo feudatario, reagiscono tutti i assieme. In teoria il grande feudatario dovrebbe evitare di attaccare questo insieme di piccoli feudi. Però, perché questa aggregazione di forze funzioni, occorre attendere che queste forze si sommino. Se ciascuno di questi piccoli feudatari continua a vivere all’interno della sua piccola realtà feudale, non c’è tempo di fare questa aggregazione di forze. Prima ancora di avere la possibilità di riunirsi e difendersi collegialmente, il grande feudatario è stato sicuramente in grado di debellare e sconfiggere il piccolo feudatario. È vero che l’aggregazione di forze serve, però non si può continuare a vivere come prima, ciascuno nel suo piccolo feudo, perché altrimenti non c’è difesa comune. Bisogna vivere tutti assieme, unire le forze. Ma dove? Nessuno di questi piccoli feudatari avrebbe accettato l’idea di lasciare il suo feudo per andare a vivere nel feudo di un altro. Allora bisogna vivere assieme in territorio neutrale, che non sia di nessuno. Questo luogo è un luogo abbandonato da secoli: la città. La città consente a questi piccoli feudatari di poter vivere assieme e difendersi efficacemente. A quel punto la città ripropone il modello feudale. Se le città romane avevano delle mura, queste venivano sistemate, e se le mura non c’erano, venivano costruite, in modo tale che la città diventa una copia del castello. Viene protetta con le mura e consente la difesa dai grandi feudatari. Questi piccoli feudatari, nella loro formazione, hanno un unico scopo: imparare a combattere. Il ruolo del feudatario è fare la guerra, addestrare cavalieri. I feudatari sono di per sé bellicosi. Fin quando ciascuno sta nel suo feudo, è un discorso. Ma immaginate cosa può accadere quando si mettono tanti rissosi feudatari nella stessa città a contatto di gomito. È inevitabile che il rischio della lite che degenera in guerra è elevatissimo. Allora non ha senso difendersi dal grande feudatario, uscire dal proprio feudo, stanziarsi in città per combattere con gli altri concittadini all’interno della città. Allora, chi decide di andar a vivere in città deve fare una cosa in più: una conjuratio, un giuramento comune. Ecco che abbiamo troviamo una parola che usiamo esattamente come sinonimo, ma che invece sinonimo non è assolutamente: comune e città. Per noi oggi la città e il comune sono la stessa cosa. Invece la città è il luogo fisico, il luogo della riunione; il comune è l’espressione politica, è l’istituzione, la volontà aggregativa. Ecco che questi feudatari devono accettare questo giuramento comune. Questa conjuratio prevede due cose fondamentali:
1) La difesa comune. L’aggressione portata ad uno solo dei componenti porterà alla reazione di tutti
2) La pace interna. Si devono impegnare a non usare le armi l’uno contro l’altro.
Nasce un comune, una cosa di tutti, per l’appunto “comune”. Questi feudatari che vanno a vivere in città, per poter concepire politicamente la loro vita cittadina, fanno questo giuramento comune. In tutto questo non fanno altro che copiare un modello che conoscono. Questi piccoli feudatari sono abituati al giuramento feudale. Sono diventati feudatari con un giuramento. Quindi, nella loro concezione politica, tutto ruota attorno alla logica del giuramento. Anche nella città importano il modello feudale. C’è però una differenza profonda tra i due giuramenti: nel giuramento feudale ho un vassallo e un senior, cioè un sottomesso e un rappresentante dell’autorità e quindi abbiamo un giuramento di sottomissione, di fedeltà; nella città non c’è un senior, non c’è un comandante. Questo giuramento è un giuramento comune, una conjuratio. C’è un giuramento vicendevole: si giura agli altri e si riceve il giuramento degli altri. La differenza profonda tra la città italiana e il feudo è che mentre il feudo prevede questa sottomissione, la città prevede tanti soggetti tutti sullo stesso livello, tutti uguali, con identici diritti e doveri. Nasce una città dove non c’è un’autorità centrale sopraordinata. Questo è il salto qualitativo rispetto al feudo. Un comune medievale italiano ha una struttura urbanistica particolare. I feudatari, nel loro feudo, vivevano nel castello. Ora sono in città: hanno giurato, però rimangono feudatari. Cercano di riproporre nella città una struttura a cui sono abituati e che è loro cara: quella del castello. Però la città è piccola. Le città medievali italiane sono minuscole, perché la protezione è offerta dalle mura esterne. E le mura esterne, per essere efficaci, non possono essere lunghissime, altrimenti sono indifendibili. Allora la città deve essere compatta. Non c’è spazio per costruire i castelli feudali. Allora ripropongono in piccolo una logica di castello, sviluppata questa volta non in larghezza ma in altezza: la torre. La torre è lo strumento che indica la loro qualità di feudatari. Abbiamo detto che sono pur sempre feudatari e quindi non si spogliano della loro caratteristica di guerrieri e, a scanso di pericoli, preferiscono proteggersi con una torre. La torre è un luogo di difesa: è difficilmente scalabile; vi si possono stipare viveri; ci possono essere uomini armati. È in poche parole il luogo della difesa e ogni famiglia lega il suo nome alla torre. Tanto più è potente la famiglia, tanto più alta è la torre. Quando una famiglia cade in disgrazia, gli si mozza la torre, per dimostrare anche visivamente che quella famiglia ha perso autorità. Ancora oggi molte città italiane hanno come loro caratteristica saliente la loro origine medievale e la presenza di torri: S. Gimignano, Bologna (la città delle due torri). La famiglia si identifica con quella struttura urbana. Ecco quindi la città: tante famiglie di nobili aggregate da un giuramento comune.
In città ovviamente non si può vivere come si viveva nel feudo. Nel feudo l’impostazione economica era basata sull’agricoltura. Nel feudo l’attività prevalente era l’agricoltura. Ora nella città non si può coltivare, perché c’è così poco spazio nelle mura che sprecare terreni per coltivare è una follia. Non si può coltivare in città. Chi va a vivere in città comincia a diventare artigiano estremamente abile. Non solo abile, ma anche specializzato. Mentre nel feudo i pochi artigiani presenti erano in grado di produrre in modo approssimativo qualsiasi bene, ora nella città non ha senso che tutti sappiano fare approssimativamente le stesse cose. È più utile che ciascuno di questi abitanti si specializzi nel fare in maniera particolarmente raffinata una sola attività. Le città italiane diventano dei luoghi di produzione di beni all’avanguardia. Per esempio un mercante della lana che decide di produrre una pezza di lana a Firenze sa che ci vogliono ventotto processi. Tutti gli artigiani fanno un solo frammento della produzione, ma lo fanno benissimo. Alla fine di questo arco di produzione il mercante di lana di Firenze avrà un prodotto fantastico per l’epoca. Il mercante venderà quel tessuto non solo a Firenze ma soprattutto nelle fiere del Nord Europa, vendendolo a prezzi altissimi. Farà la ricchezza sua e di tutti gli artigiani di Firenze. L’efficacia di questo meccanismo produttivo crea dei vantaggi enormi per le città. Ecco che le città medievali italiane diventano ricchissime. Ci sono dei palazzi bellissimi perché questi mercanti hanno la possibilità di reinvestire gli utili. Il fenomeno urbano è un fenomeno italiano, originato dalla logica della successione longobarda. Esistono però città anche fuori dall’Italia. È vero, ma quelle città europee sono differenti dalla città italiana. Il mercante che porta la mercanzia nelle fiere del nord Europa solletica la curiosità dei mercanti del posto. I mercanti del nord capiscono che la differenza sta tutta nel modello urbano di produzione: ha tanti artigiani che compiono ciascuno un solo elemento di produzione. Il mercante del nord Europa desidera di fare una città anche nel nord Europa, per produrre gli stessi beni che si producono in Italia. Il problema è che questo mercante vive in un contesto politico completamente diverso da quello del mercante italiano. Nel nord Europa, dove non c’era quella norma longobarda di trasmissione ereditaria a tutti gli eredi ma c’era solo il maggiorascato, il feudo non s’è mai diviso. Il tutto il resto d’Europa il feudo rimane una macchina efficacissima e forte. Non è possibile che nasca una città paragonabile a quella italiana perché il feudatario la schiaccerebbe senza difficoltà. Il mercante fa presente al feudatario che da questa città il feudatario ne ricaverebbe enorme vantaggio, non solo in prestigio, ma anche economico. Una città vuol dire produzione, traffici, fiere, pedaggi. Il feudatario riconosce la convenienza della città e fa una carta di concessione. Mentre la città italiana nasce autonomamente da un giuramento comune in rottura con il sistema feudale, la città del nord Europa non solo non nasce da una contrapposizione col feudo ma nasce anzi da una concessione del sistema feudale. È il feudatario a permettere la nascita della città, a scrivere un foglio (la carta di concessione). Alla base dell’esistenza della città ci sarà questo foglio firmato dal feudatario in cui c’è il riconoscimento del permesso di fare la città. Tutto questo è ben visibile nel fatto che in Italia la qualità di cittadino si trasmette solamente jure sanguinis, per diritto di sangue. Dopo che i piccoli feudatari hanno rischiato la vita, il patrimonio per fare una città, non vogliono che la qualità di cittadino sia di tutti; vogliono che rimanga limitata a coloro che hanno giurato il patto comunale, e semmai ai loro figli. La qualità di cittadino, in Italia, passa di padre in figlio. Nel nord Europa questo sudore per fare la città non c’è. La città nasce per firma del feudatario. Quindi è cittadino che rientra nelle caratteristiche indicate dal foglio di concessione. Non è una qualità che si trasmette da padre in figlio. Nel nord Europa vige un detto: “L’aria della città rende liberi”. Se un servo della gleba riesce a fuggire dalla campagna e ha la fortuna di mettere piede in città a lui si applica la concessione data dal feudatario, quindi diventa libero. Non ci sono altri requisiti per diventare cittadino. Se vive nella città diventa uomo libero. Se invece in Italia un servo feudale fosse entrato nella città a nessuno sarebbe mai venuto in mente che sarebbe diventato cittadino. Cittadini erano solo coloro che avevano contribuito da generazioni alla vita di quella città. Nel momento in cui si fonda una città si deve dare anche una libertà. Se non si danno prerogative, perché dover stare in città se ci sono le stesse condizioni sfavorevoli del feudo? Le prerogative ci sono vengono tutelate dalla carta di concessione. Ci sono pene ferocissime per impedire la fuga dal feudo alla città del servo della gleba. La città è popolata dai piccoli feudatari e dai feudi limitrofi. Chi vive in città in qualità di feudatario inurbato è in situazione di grande vantaggio: sia perché è l’unico in grado di fare la guerra (assieme agli altri feudatari), e poi perché è l’unico che fornisce i beni agricoli alla città (insieme agli altri feudatari dei feudi limitrofi). I feudi non si svuotano, ma restano abitati dai contadini che coltivano la terra. Si sta sviluppando, soprattutto nell’Italia centro settentrionale, questo fenomeno innovativo che costituirà una trasformazione decisiva dal punto di vista istituzionale e anche dal punto di vista giuridico. Sta nascendo il fenomeno cittadino: in Italia, come città comunale; in Europa come città “feudale”. Le nostre considerazioni giuridiche verteranno solo sulle città italiane.
Il potere, nel comune italiano, è gestito dai consoli. Perché i consoli? Perché sono una magistratura collegiale. Sono tanti quanti il numero delle famiglie dei nobili che hanno giurato il patto comunale. Ogni console è un esponente della famiglia di provenienza. La famiglia, con la propria torre, vuole partecipare anche al governo comunale esprimendo un console. Si parla di consoli perché i romani avevano adottato la logica dei consoli per evitare la monarchia. Per impedire che si ritornasse ad una esperienza politica giudicata dannosa, si era scelto di avere a Roma due consoli, in modo tale che i loro poteri si bilanciassero. Ecco perché anche nella città si parla di consoli. La città, nata libera, non vuole diventare subito di nuovo serva di un nuovo potere; per questo suddivide il potere tra tanti consoli. Il potere rimane tendenzialmente democratico. Il problema è che i consoli sono tanti. Questo è un vantaggio per un verso, però si crea alcune difficoltà di gestione. Essendo tante le scelte politiche sono soggette a una costante attività di mediazione. Le maggioranze devono essere costruite di volta in volta valutando gli interessi delle famiglie. Per giunta c’è il rischio che cambino idea. Chi è che è infastidito da tutto questo? Il mercante. I nobili esprimono i consoli e accettano la logica di un meccanismo politico lento. Ma il mercante no. Per lui si crea un danno perché i mercati hanno bisogno per loro natura di stabilità. Ancora oggi una variazione imprevedibile di un materiale porta a delle conseguenze incredibili. Il mercante ha sempre bisogno di sapere. Se deve andare in un’altra città per prendere delle materie prime, il mercante deve sapere se la sua città ha un rapporto amichevole o ostile con l’altra città. Se questi consoli cambiano una condotta politica il mercante perde tutto e con lui c’è un danno indiretto a tutta la società. Il mercante vuole quindi stabilità. E i consoli, questa certezza, non la danno perché non sono interessati alla logica del mercante. Allora ecco che nella città si sviluppa un potere politico alternativo e diverso da quello dei consoli: il podestà. Il podestà, a differenza della magistratura dei consoli che è collegiale, è una magistratura monocratica, ossia è solo. Per i mercanti tutto questo è vantaggiosissimo. Decidendo da solo, c’è da presumere che sue scelte politiche siano statiche. Nel caso del podestà, tutto il potere politico si concentra nelle mani di una sola figura (proprio quello che cercava di evitare il collegio consolare). Ora il comune si affida al podestà perché ci sono precise condizioni. Il podestà è soggetto alla regola della durata temporanea della sua carica. Nel momento in cui assume le funzioni sa (compie un giuramento) che il suo potere sarà annuale. Alla fine dell’anno di carica dovrà restituire tutti i suoi poteri alla città. La degenerazione tirannica non è possibile perché quel potere assegnato al podestà dovrà ritornare dopo un anno alla città. E’ vero che dura solo un anno, però è un potere totale. Le città sono costantemente attraversate da lotte interne (guelfi, ghibellini). Mentre i consoli erano espressione assortita della città, il podestà è uno solo. Per un anno si tratta di dare poteri assoluti ad una persona che appartiene ad una fazione. Il rischio che si approfitti di questa situazione e faccia i vantaggi della sua fazione è fortissimo. Quindi non c’è vantaggio nell’attribuire tutti i poteri ad un solo soggetto se poi la pace sociale cittadina è a repentaglio. Allora ci vuole un correttivo: mentre i consoli sono cittadini, il podestà deve essere forestiero. Viene in città per amministrare la cosa pubblica però non è di quella città. Non c’è il rischio che si schieri pro o contro una fazione. Per giunta, se è forestiero, dopo l’anno di carica, non solo restituisce il mandato, ma va via. Ma se va via ed è forestiero, la città come fa a garantirsi? Se questo podestà ha svolto male le sue funzioni, se ha lucrato a proprio vantaggio, il comune che fa? Allora il comune gli impone di rimanere a disposizione delle magistrature comunali per un mese dopo la fine del suo anno di carica per render ragione del suo operato. È il periodo del sindacato. Se alla fine di questo anno di carica si deve sottoporre al sindacato per un mese, significa che deve rispondere di quello che ha fatto nel corso dell’anno. Ma se deve render conto di tutta l’attività di governo, questo podestà si deve fidare dei suoi funzionari, perché non può fare tutto da solo. Con lui ci saranno giudici, esattori fiscali, contabili, magistrati. Come fa lui a rispondere dell’attività di altre persone? Se questi funzionari fossero cittadini, si tratterebbe di persone che non ha mai visto e di cui non sa se si può fidare o meno. Il podestà prende le sue funzioni portando con sé la c.d. masnada. In città non arriva solo il podestà, ma si porta assieme tutta la macchina di governo. E si porta assieme anche gli uomini armati. Siccome deve garantire l’ordine pubblico, se si affidasse ai cittadini, avrebbe continuamente delle fazioni in guerra che non farebbero altro che combattere. Allora nella masnada del podestà figurano anche degli armigeri, degli uomini armati. Alla fine dell’anno di carica, quando deve fare il sindacato, deve rimanere da solo. Se fosse protetto dai suoi soldati, è chiaro che potrebbe anche farsi proteggere, scortare e fuggire. La nuova figura del podestà è limitato in tutti i modi possibili, tanto da poter garantire la libertà comunale. Non si possono perdere le caratteristiche tipiche del comune, ossia la libertà. In questo quadro sia ai consoli sia al podestà spettano tutte le funzioni tranne una: funzione legislativa. Se il podestà avesse potuto fare le leggi, avrebbe sicuramente cambiato la durata annuale delle sue funzioni. Il potere legislativo non spetta al podestà, bensì il collegio, cioè alla collettività dei cittadini. Ancora una volta troviamo nelle città un luogo difficile da spiegare. Le città sono piccole, quindi si sfrutta lo spazio nel modo più intensivo possibile. Le case del borgo medievale sono costruite una sull’altra, per cercare di sfruttare tutti gli spazi. A Bologna, quando finiscono gli spazi, si costruiscono le case sulle strade, facendo i pilastri, creando così i portici (Bologna, la città dei portici). In queste città c’è sempre una piazza, per di più enorme. Basti pensare a Siena, alla piazza del campo. Queste grandi piazze solo il luogo in cui tutta la comunità si deve riunire. Tanto è vero che nella piazza comunale c’è sempre il palazzo del podestà. In questo palazzo c’è la torre (che esprime il potere politico, ed è la più alta della città). Su quella torre c’è la campana. La campana non serve a suonare le ore del giorno. mentre le campane delle chiese segnano le ore liturgiche, la campana del palazzo comunale viene suonata in caso di emergenze. Quando Piercapponi si trova alle porte di Firenze l’imperatore dice che “se l’imperatore suonerà le trombe di guerra, la città suonerà la propria campana”, cioè se ci sarà l’attacco militare della città, a difendere la città non ci saranno solo pochi soldati, ma tutti gli abitanti della città accorreranno per difendere la città, perché la città è di tutti, è comune. L’interesse è condiviso da tutti. Quando Milano scende in guerra contro l’imperatore porta sul campo di battaglia il carroccio, e sul carroccio c’è la campana, simbolo della libertà comunale. La campana del palazzo comunale suona in caso di emergenze (fuoco, attacco esterno) ma può suonare anche in caso di normale vita politica, quando bisogna prendere delle decisioni che riguardano tutti (norme). I nomi di questi riunioni di popolo ci testimoniano questa natura. Generalmente queste riunioni si chiamavano parlamentum, il luogo dove si parla; oppure concione, cioè luogo dove si conciona, dove si parla in maniera enfatica; oppure arengo, cioè il luogo dove si arringa. Come si chiamano le norme prese da questa assemblea? Dalle parole iniziali: statuto. Le parole iniziali erano infatti: “statutum est quod…”, cioè “è stato stabilito che…”. Questo stava a ricordare che quella norma non era stata imposta dall’esterno, ma era stata scelta da tutti. I cittadini comunali si riconoscevano in quella norma. Ecco che l’insieme delle norme comunali prende per antonomasia il nome di Statuto. Nello statuto troviamo le disposizioni dell’assemblea, consuetudini (prima dello statuto le regole esistenti erano quelle consuetudinarie), e anche i brevi, cioè i giuramenti fatti dalle magistrature comunali. Troviamo anche i giuramenti perché questo è un modo per disegnare il quadro politico costituzionale della città. Se conservo memoria del giuramento del podestà so quali sono i limiti dell’esercizio del potere di governo. Insomma, la vita giuridica comunale è disciplinata da questo statuto comunale. Eppure la scienza giuridica reputano lo statuto comunale ius asininum, diritto degli asini, diritto fatto da asini. La considerazione che ha la scienza di queste norme è di disprezzo. C’è addirittura una serie di proverbi che indicano quanto disgusto la scienza giuridica ha nei confronti di questa attività legislativa dei comuni. Si dice per esempio: “Legge fiorentina, fatta la sera, guasta a mattina”. La legge di Firenze non dura neanche lo spazio di una notte. Siccome la legge è fatta dall’assemblea e l’assemblea è facilmente malleabile, questo tipo di legge non vale nulla. Altro detto: “La legge di Verona vale da sesta a nona”. È così effimera la scelta legislativa di questa città, che è impossibile costruire una scienza giuridica basata su queste norme. La considerazione della scienza di questi statuti è di totale negazione. Allora se questo diritto è fatto male, che diritto si deve utilizzare?

Medievale Dic 4
Abbiamo discusso del fenomeno delle libertà comunali: nell’Italia del nord si sviluppano dei liberi comuni. Nelle città piccoli feudatari decisero di aggregarsi. Questa realtà comunale usurpa alcune prerogative, per cui il governo è artefice di norme, produce diritto. Questa è una realtà strana, anomala, perché nella concezione medievale il potere di produrre diritto è prerogativa solo dell’imperatore e del papa. I comuni, per le loro esigenze, creano statuti, in contrasto all’idea giuridica dell’epoca. Tant’è vero che i giuristi qualificano il diritto comunale come “diritto asinino”. Se secondo la scienza giuridica dell’alto medioevo questo non è il vero diritto, qual è il vero diritto? Torniamo indietro nel tempo. Gli emissari del papa che vanno in giro nei monasteri ritrovano anche il digesto. Se si fosse trattato solo di una operazione archeologica, non avrebbe destato molto interesse. Invece succede che questo testo normativo comincia ad assumere un enorme rilievo. L’importanza di questo testo è palese in una vicenda nel comune di Poggibonzi, che nel medioevo si chiamava Marturi. Questo testo è il Placito di Marturi (la sentenza di Marturi). In questo placito ci sono due contendenti che si rivolgono all’autorità giudiziaria: sono un nobile e un monastero. Il nobile pretende di aver acquisito la proprietà piena di alcune terre perché esercita su quelle terre da diversi decenni un controllo pieno. Per usucapione ritiene di aver acquistato la terra. Il monastero si difende invocando l’impossibilità di adire un giudice per tutelare i suoi diritti. Per dimostrare la bontà di queste argomentazioni, l’avvocato del monastero introduce come argomento un testo del digesto. Il nobile si avvale delle regole consuetudinarie feudali e barbariche che sono tipiche dell’alto medioevo. Il monastero invoca il digesto. Prevale il monastero. Il giudice dà ragione al monastero perché, tra una consuetudine e il digesto, il digesto è una norma imperiale introdotta per intercessione divina. Il diritto romano della compilazione giustinianea non è un diritto qualsiasi, ma è voluto da Dio. le consuetudini invece sono una fonte umana. Il giudice non può non dare ragione alla norma voluta da Dio. Nella sentenza di Marturi i giuristi cominciano a percepire che se si vuole avere successo in tribunale conviene citare il digesto. Chi riesce a portare la citazione di una norma del diritto romano prevale. A questo punto i giuristi hanno tutto il bisogno di conoscere il diritto romano. La situazione è paragonabile al rapporto che c’è oggi tra diritti nazionali e diritto comunitario. La formazione giuridica non può non tener conto del diritto comunitario. Altrimenti sarebbe incompleta. Stesso meccanismo vale per il medioevo. Gli uomini dell’epoca si trovano a dover fare i conti con il diritto romano e il diritto consuetudinario. Tutti i giuristi, se vogliono vincere le cause, devono studiare il diritto romano. Ma il diritto romano non è conosciuto da nessuno. Dal 604 nessuno in occidente ha più studiato il digesto. Solo nell’XI secolo rinasce il grande interesse per il diritto romano. Ecco il punto decisivo. Occorre che qualcuno si prenda il rischio di ricominciare lo studio e l’insegnamento del diritto romano.
Tutto questo accade per iniziativa di un giurista che ha nome Irnerio. Non è detto che Irnerio sia stato veramente il primo. Fatto sta che è il primo di cui abbiamo fonti scritte. È probabile che prima di lui ci sia stato un altro personaggio, probabilmente il vescovo di Bologna (tal Pietro, soprannominato Pepone). Ma di questo Pepone non abbiamo testimonianze scritte. Quindi non possiamo affermare per certa la sua esistenza. Invece di Irnerio abbiamo prove certe. Gli atti che contengono il suo nome vanno dal 1112 al 1125. Irnerio era causidicus, ossia si occupava di diritto. Poteva essere giudice, avvocato, notaio. Ma Irnerio aveva acquisito questa competenza giuridica nel metodo tradizionale tipico dell’alto medioevo, ovvero con le arti liberali. Nella vita era maestro di retorica. Nell’alto medioevo il diritto era chiuso nelle arti liberali, e precisamente era considerato una branca della retorica. Irnerio era retore. Aveva una formazione giuridica basilare acquisita in quanto maestro di retorica. Non si conosce la nazionalità di Irnerio. Qualcuno ha ipotizzato tedesco, perché il nome non sarebbe stato Irnerio ma Wernerius o Warnerius, un nome di discendenza germanica. Ancora oggi esiste Werner come nome tedesco. Il nome viene latinizzato e diventa Irnerio. Tutto questo avviene a Bologna. Irnerio vive a Bologna e a Bologna nasce lo studio dei testi giuridici. Difatti esistono solo due sedi in Europa che si contendono la nascita dell’università: Bologna e Parigi. Solo che a Parigi si insegnava la teologia e la filosofia; a Bologna il diritto. Il dubbio non è stato mai sciolto. La differenza tra le due è che Bologna non nasce come Parigi per iniziativa ufficiale. L’università di Parigi nasce per volontà papale. Questo università parigina dipende dalla decisione del pontefice. L’università di Bologna non nasce così. Tant’è vero che per quanto riguarda Irnerio abbiamo una testimonianza di quanto è accaduto. Un giurista di questa scuola ci dice che Irnerio “cepit per se studere in libris nostris”, cioè “incominciò a studiare sui nostri libri per sé”, “et studendo cepit velle docere in legibus”, “e a furia di studiare volle anche insegnare nelle leggi (il diritto)”. Irnerio comincia per suo interesse a studiare il diritto. Poi, quando questo studio prende piede, gli viene in mente di insegnare il diritto romano. Proprio per questa sua attività, fu il “primus illuminator scientiae nostrae”, “colui che per primo diede luce alla nostra scienza”, da cui il nome di “Lucerna iuris”, fiaccola del diritto. Irnerio apre la strada. Non sarà il più alto della scuola da lui fondata, ma sarà sicuramente il primo. Comincia lo studio del diritto romano a Bologna sotto Irnerio. L’inciso “per se” indica che Irnerio sta intraprendendo questa attività di insegnamento del diritto romano liberamente, per suo conto. Dietro non c’è né l’ordine dell’imperatore né del papa né del comune. Le uniche autorità esistenti non hanno mosso un dito. Quindi Irnerio non è sostenuto da nessuna di queste autorità. Anzi, le autorità comunali sono infastidite di tutto quello che accade perché nel giro di poco tempo, per il fatto che Irnerio è l’unico in Europa a poter insegnare il diritto romano, accade che tutti quelli che volevano conoscere il diritto romano, ossia tutti i giuristi di Europa, se vogliono avere una formazione in questo settore, devono andare a Bologna da Irnerio. Non c’è scelta. Irnerio era anche l’unico ad avere il testo del digesto. Gli altri non lo avevano, quindi non lo potevano insegnare. Ecco che a Bologna, nel giro di pochi decenni, arrivano una caterva di studenti. Per questo Bologna non è contenta di tutto ciò. Bologna è una piccola città comunale italiana. Quindi ha problemi di spazio. Si cerca di sfruttare al meglio gli spazi. L’arrivo degli studenti costituisce un problema di spazio (da qui nascono i portici). Per giunta questo pone problemi di ordine pubblico. Le città sono molto chiuse nella loro gelosa protezione dell’indipendenza e della qualità di cittadino. È raro che si vedano forestieri. A Bologna invece, all’improvviso, arrivano frotte di studenti da tutta Europa. Solo in seguito Bologna capirà l’affare che viene da un afflusso di tal portata. A distanza di decenni infatti Bologna proibirà ai maestri di andar via. Irnerio come fa ad insegnare il diritto se non è sostenuto da nessuna autorità? Irnerio insegna in virtù del pagamento diretto da parte degli studenti. Gli studenti chiedevano direttamente ad Irnerio di poter accedere alla sua scuola, di poter vivere a casa di Irnerio perché non esisteva l’università. Irnerio aveva cominciato ad insegnare il diritto romano a casa sua, come un qualsiasi maestro di un arte. Questi studenti, che vengono da tutta Europa, non devono perdere tempo. Rimanere a Bologna significa sacrifici economici. Quindi non si fanno solo due o tre ore di lezione al giorno. Si sfrutta tutta la giornata per l’apprendimento del diritto per contenere i tempi di rimanenza a Bologna, per poter andare via il prima possibile. Non ha senso rimanere a Bologna e studiare in pochi momenti nella giornata. Invece si cerca di stare presso il maestro per più tempo possibile al giorno. La scuola nasce così, spontaneamente, per iniziativa di Irnerio e per scelta degli studenti che si rivolgono a Irnerio, lo pagano e dimorano presso di lui. Ecco che la scuola di Bologna nasce in modo del tutto autonomo, libero, non per imposizione. Molti anni dopo, nel 1224, Federico II istituirà autoritativamente una sede universitaria di Napoli (che ancora oggi si chiama Federico II). Accadde che per molti anni la sua scuola rimase completamente vuota. Gli studenti percepivano la differenza tra la scuola di Bologna e quella di Napoli. La scuola di Bologna era nata liberamente: gli studenti sceglievano autonomamente il maestro e lo pagavano. Questo vuol dire che il maestro era il migliore, altrimenti gli studenti non avrebbero pagato. Al contrario a Napoli gli insegnanti e le materie sono imposte. L’obiettivo di Federico II era di formare non liberi giuristi, ma bravi funzionari. Gli studenti napoletani per molti anni disertano l’università di casa, fino a quando Federico II non è costretto a vietare i viaggi di istruzione a Bologna, obbligando tutti ad andare a Napoli. Bologna invece accoglie molti studenti. Si forma addirittura una distinzione tra studenti citramontani (che vengono dal di qua delle Alpi, italiani) e studenti ultramontani (che vengono dal di là delle Alpi, gli europei). Per proteggersi vicendevolmente questi studenti ricorrono alla creazione di nationes. Ogni gruppo di provenienza geografica (tedeschi, francesi, spagnoli) forma una natio in modo tale da proteggersi vicendevolmente. A Bologna ancora oggi esiste il Collegio di Spagna. Un Cardinale spagnolo, Egilio di Albornoz, decise di costruire un edificio per aiutare gli studenti spagnoli che decidano di recarsi a Bologna ad apprendere il diritto. Il rettore non è un docente, ma un esponente degli studenti della natio. Ogni natio esprime un rector, un organizzatore dei suoi connazionali. Ogni gruppo esprime un suo rappresentante per gestire il rapporto coi maestri e con le autorità cittadine. Tutto questo ci porta ad una ulteriore considerazione di enorme importanza: finora tutto questo non si chiamava universitas, ma studium. A un certo punto tutto questo prende il nome di università, ma cosa indica la parola università? Universitas significa “complesso, collettività, aggregato”. Ma di cosa? Scolarium, cioè “università di studenti”. C’è un’università laddove c’è una collettività studentesca. Università non nasce come “università degli studi” come viene detto oggi. Inizialmente le università erano libere. Qualche secolo dopo questa spontaneità viene cancellata; le università diverranno gestione pubblica. Oggi si parla di università degli studi, distorcendo il concetto originale di università. Questi studenti bolognesi che vanno a sentire Irnerio devono affrontare disagi e costi non solo perché devono pagare i maestri ma anche perché Bologna, nell’XI sec., è una città comunale italiana. Gli studenti che vengono da tutta Europa, nel momento in cui viaggiano per l’Europa viaggiano per una realtà geografica ancora altomedievale. Ciò significa che questi studenti affrontano furti, scorribande, superano confini e pagano pedaggi. Tra i resoconti rimasti di quei viaggi abbiamo riportato il furto di due candelabri. Non esistendo una moneta unica e non potendo acquisire la moneta bolognese, si portano dietro oggetti di valore per poterli venderli a Bologna. Inoltre questi studenti, per arrivare a Bologna, devono attraversare terre controllate da feudatari che impongono gabelle. A Bologna c’è un’organizzazione che risente del fastidio dei bolognesi verso questi studenti. Gli studenti sono stranieri. Se qualcuno di loro commette un’angheria e va via non esiste l’estradizione, non è possibile riportare lo studente a Bologna. Se questo ha commesso un crimine o un illecito, il bolognese si sente pericolosamente in balia di questi studenti. C’è un istituto che riesce a sopire le ire dei bolognesi: la rappresaglia. Si acciuffa uno studente della stessa natio e sottoporlo alla stessa sanzione che sarebbe spettato allo studente scappato. È un sistema di giustizia barbaro, però tranquillizza il bolognese che riesce a ottenere il pagamento del bene, ma che per un altro verso terrorizza gli studenti bolognesi. Lo studente che voglia rimanere a Bologna a studiare è soggetto costantemente alla spada di Damocle che può cadergli in testa in ogni momento della rappresaglia. Immaginate la passione che riempie questi studenti che corrono tanti rischi per poter studiare il diritto. Era evidentemente tanto importante lo studio del diritto romano a quell’epoca.
Tanto grande era il rischio che per cercare di evitare le conseguenze negative di questa situazione si muove addirittura un imperatore. La situazione dei liberi comuni italiani è considerata con preoccupazione da parte dell’imperatore Federico Barbarossa. Federico Barbarossa, nella metà del XII sec., ritiene che questa tendenza dei comuni a contrapporsi al feudo costituisce un pericolo per l’impero. Federico Barbarossa arriva in Italia e cerca di impaurire i comuni, affinché essi rientrino nella logica feudale. Prima dello scontro militare l’imperatore cerca di convincere i comuni. L’imperatore convoca una dieta a Roncaglia (“dieta” da dies = giorno dedicato alla specifica trattazione di un problema), in cui sono presenti tutti i rappresentanti dei comuni. In età medievale non è possibile permanere nello stesso luogo a lungo poiché non esistono alberghi. Barbarossa cerca di convincere i comuni. Ma se glielo avesse detto lui che i comuni non avevano questi diritti, i comuni non c’avrebbero creduto. Allora Barbarossa chiama dei giuristi che i comuni valutano autorevoli, e sono autorevoli i giuristi liberi, cioè i giuristi di Bologna. I comuni potrebbero essere tentati di riconoscere l’autorevolezza dei giuristi di Bologna. Allora l’imperatore invita a Roncaglia i giuristi bolognesi. E i giuristi bolognesi danno ragione all’imperatore, perché nei testi che studiano c’è scritto chiaramente che l’unica fonte è l’imperatore romano. Detto tutto questo e non convinti i comuni (ci fu poi lo scontro con la lega lombarda) l’imperatore cerca di sdebitarsi con i giuristi bolognesi. L’imperatore può arrecare due vantaggi ai giuristi:
• Il salvacondotto imperiale. L’imperatore, con una sua costituzione, emanata a Roncaglia, dichiara che coloro che “si danno pellegrini per amore della conoscenza” devono essere considerati dotati di un generale salvacondotto imperiale, ossia possono vantare nei confronti di tutti i feudatari di cui attraversano le terre la libertà di circolazione. Non saranno più assoggettati a dazi e pedaggi se desiderano recarsi a Bologna e tornare a casa.
• Protezione degli studenti dalle rappresaglie. C’è anche il pericolo delle rappresaglie. Con la stessa costituzione l’imperatore ordina alla città di Bologna (che ha ancora sottomessa) di cedere la competenza sui reati commessi dagli studenti ai maestri bolognesi. Questo significa che se uno studente commette un crimine e fugge, no sarà il magistrato bolognese a occuparsi della vicenda, punendo un altro connazionale per il principio di rappresaglia, ma questo giudizio sarà rimesso ai maestri. La differenza è che questo magistrato bolognese ha tutto l’interesse ad avvantaggiare i suoi concittadini. Il magistrato bolognese è un politico che ha bisogno dell’appoggio. Per lui quindi non ha senso avvantaggiare uno sconosciuto studente straniero. Se la vicenda giudiziaria è invece assegnata ad un maestro, il maestro avrà tutto l’interesse a salvaguardare i propri studenti, evitando l’applicazione dell’istituto della rappresaglia.
In questo modo l’imperatore sta dimostrando tutto il suo interesse e apprezzamento per questo insegnamento bolognese. A Bologna si studia il diritto romano, che è il diritto dell’impero. Per questo l’imperatore ne apprezza i frutti. L’impero ne trae vantaggio. L’imperatore Barbarossa cerca in tutti i modi di proteggere gli studenti bolognesi. Questa realtà bolognese tende a svilupparsi.
Che testi venivano insegnati a Bologna? Sono quelli della compilazione giustinianea, ma non nell’ordine della compilazione giustinianea. I testi prodotti da Giustiniano erano molto diversi tra loro, in termini di contenuto e lunghezza. La scuola di Bologna ha invece bisogno di chiarezza e omogeneità. Allora tutto questo materiale viene diviso in cinque volumina, volumi di diritto:
1- Digestum vetus, cioè il Digesto vecchio. “Vecchio” perché nel momento in cui Irnerio comincia a insegnare il diritto romano, lui è l’unico ad avere la disponibilità del testo, ma questo testo non lo può avere subito tutto. Stiamo parlando di un’opera lunghissima che per tanti secoli è rimasta sconosciuta. Copiare tutto quel testo significa compiere un lavoro immenso: un amanuense deve legge tutto quel volume e trascriverlo. Per questo Irnerio non può avere tutto il digesto disponibile all’insegnamento. Ha solo i primi 24 libri (su 50). Quello prende il nome di digestum vetus.
2- Digestum novum, questa parte sono gli ultimi 12 libri del digesto. C’è una lacuna poiché manca la parte centrale.
3- Digestum infortiatum. La parte centrale dal 24 al 38. Cosa significa “infortiatum” non si sa. Alcuni dicono che significhi “incarcerato”, perché, essendo finito in mezzo tra il digesto vecchio e il digesto nuovo, è come se fosse chiuso e incarcerato. Altri dicono che nel momento in cui è arrivata l’ultima parte a Irnerio egli abbia esclamato “Ecce ius nostrum infortiatum est”, cioè “ecco il nostro diritto è rinforzato, perché è diventato completo. Questa è la successione cronologica; ma la successione logica sarebbe vetus, infortiatum, novum. Il digesto è completo.
4- Codice. Il quarto volumen non comprende tutto il codice. Già nell’alto medioevo i giuristi avevano fatto un taglio. Il codice era di 12 libri. Gli ultimi tre libri parlavano però di argomenti che ai giuristi dell’alto medioevo non interessavano affatto. Essi parlavano della materia fiscale, burocratica, amministrativa, militare, ossia di tutto l’apparato dello stato bizantino. Dal momento che nell’alto medioevo i domini bizantini non ci sono, non serve a niente conoscere l’esercito di Bisanzio se quell’esercito non c’è più. I giuristi dell’alto medioevo, concreti e pratici, mirando alla sostanza, avevano detto che gli ultimi tre libri non servivano più. Irnerio non può che prendere atto di questa sistemazione e nel quarto volume colloca solo i primi 9 libri del codex, rispettando la suddivisione altomedievale della materia. Se avesse fatto questo è basta si sarebbe comportato come un semplice giurista dell’alto medioevo.
5- Tres libri del codice, Institutiones e le Novelle. Irnerio mette gli ultimi tre libri del codice. Li ha inseriti non perché è tornato in vita l’apparato bizantino, ma perché cambia il suo approccio alla disciplina. Irnerio studia questo diritto perché è un diritto ispirato da Dio. Non solo perché viene dal passato, ma perché questo diritto imperiale è ispirato da Dio. Ecco perché Irnerio lo insegna e tutti gli studenti lo ascoltano. Se questo è vero, Irnerio non è nessuno per dire che gli ultimi tre libri del codice non possono essere studiati. Non può dire che Dio è diventato obsoleto. Se è vero che il diritto romano va studiato, tutti i frammenti del diritto romano vanno studiati per provenienza divina. Sarebbe come se un giurista di oggi scegliesse di non usare una norma del codice perché la ritiene vecchia. Fino a quando il legislatore non abroga il diritto, quella norma è vigente. Questo significa che per Irnerio tutto ciò che compone il codice è vigente, per cui gli ultimi tre libri del codice non si possono trascurare, perché sono parola di Dio come tutto il resto. Riguardo alle novelle, esse non erano state tramandate in due forme diverse: l’Epitome Iuliani e l’Autenticum. Avevano un uso diverso. L’autenticum era il testo completo. L’epitome Iuliani era un riassunto, ma non era composto dalle vere parole dell’imperatore. Nell’alto medioevo, dove si mirava alla sostanza, era stata preferita l’epitome Iuliani. Irnerio invece non si limita all’epitome, ma sceglie l’autenticum. Queste novelle vengono suddivise in 9 collationes. Prevedono alla fine anche un’aggiunta finale, una decima collatio. In questa decima collatio ci saranno le uniche norme non di provenienza giustinianea. Queste collationes comprendono le novelle, cioè gli aggiornamenti. Si accorgono che effettivamente bisogna apporre un’aggiunta. Se ne accorgono quando uno studente di Milano va a studiare a Bologna. Si chiama Anselmo dall’Orto, che comincia a studiare il diritto romano. Al termine rimane stupito, perché si accorge che a Bologna gli insegnano di tutto tranne il diritto che suo padre, giudice a Milano, applica correntemente, cioè il diritto feudale. Il padre giudice deve fare i conti col diritto feudale. Ma il diritto feudale, ovviamente, nel corpus iuris non c’è, perché il feudo ancora non esisteva nel 500. Le norme sul feudo sono nate dopo la compilazione giustinianea. Eppure devono essere altrettanto importanti quanto le altre, perché nel corpus iuris civilis non c’è il diritto giustinianeo, bensì c’è il diritto imperiale, e il diritto feudale è diritto dell’impero. In fondo molte questioni di diritto feudale sono state regolamentate con costituzioni imperiali. Il problema della ereditarietà dei feudi era stato risolto con le costituzioni degli imperatori. Se voglio avere nel corpus una visione complessiva del diritto dell’impero, devo aggiungere anche il diritto feudale. Nella decima collatio c’è una raccolta di norme di diritto feudale, in modo tale da avere il quadro complessivo non del diritto romano ma del diritto imperiale vigente. Tutto questo non è antiquariato. Irnerio non sta insegnando come vivevano i romani mille anni prima, tentando di spiegare la realtà giuridica di Roma. Se avesse fatto questo, i suoi studenti non avrebbero affrontato viaggi, disagi e costi a sentire la vecchia storia di Roma. Gli studenti volevano sentire qual era il diritto vigente dell’impero.
Quindi Irnerio organizza sì il diritto romano, ma non per fare questo studio archeologico, ma con l’obiettivo di offrire ai suoi studenti un diritto vivo e vitale. La novità dell’insegnamento di Irnerio è che lui prende questi testi che sono morti (che vengono dal III sec. d.C.) e li interpreta. La sua attività è l’interpretatio. Egli prenderà i testi di diritto romano e gli darà un’interpretazione per renderli ancora vivi e vitali. Il testo romano, da solo, sarebbe stato inutile. È utile invece perché c’è il giurista che fa parlare questi testi, che li interpreta. Si dice che i giuristi sono come nani sulle spalle di un gigante. Il gigante è Giustiniano. Però se un piccolo nano sale sulla spalla del gigante, riesce a vedere un po’ più in là, non per suo merito, ma perché sfrutta l’altezza del gigante e aggiunge quella spanna in più per vedere un orizzonte più lontano. Questa immagine serve a dire che senza questi minuscoli giuristi, il gigante giustinianeo non sarebbe servito più a niente. Il connubio di forze è fondamentale e produttivo. I giuristi traducono quelle norme di diritto vivo e vigente nel medioevo. Con la loro interpretazione danno al diritto romano un significato ancora plausibile per l’età medievale.

Medievale Dic 17
Nelle scorse lezioni abbiamo affermato che il concetto originario di universitas indicasse “collettività di studenti”, non “collettività, complesso di studi” come si intende oggi. E quale era il metodo di studio di queste università? Era la glossa. Glossa viene dal greco e significa “parola”. L’utilizzo di questa parola non è sorto con Irnerio. Il termine era in circolazione già dall’alto medioevo e si utilizzava per studiare l’unito testo fondamentale da conoscere: il testo sacro. Poiché il testo sacro era difficile da comprendere, venivano introdotte parole o nomi (glosse) che chiarificassero il significato della parola o della perifrasi oscura. Per esempio, alla parola “pretesto”, difficile da comprendere, venivano accostate le parole “id est velamine”, cioè “come un velo”. Il pretesto impedisce di vedere la realtà. In questo modo veniva spiegato il significato della parola sconosciuta. Gli uomini del medioevo si servono di questo strumento letterario della glossa. Irnerio, riscoprendo il diritto romano all’improvviso, si trova soprattutto in questa situazione. I suoi studenti non hanno mai sentito una parola di diritto romano. Irnerio deve introdurli alla conoscenza di un’opera ove le stesse espressioni usate da Giustiniano sono ormai obsolete. Come si fa a conoscere il digesto se non si riesce neanche a capire quello che c’è scritto? Allora Irnerio deve spiegare ai suoi studenti il significato delle parole. Molte volte i giuristi romani usano parole desuete. Se non ci fosse Irnerio a spiegare le parole, sarebbe inutile costruire una raffinata scienza giuridica. Quindi la prima operazione che viene fatta è spiegare quello che viene scritto. Questo è il primo tipo di glossa: 1glossa letterale o esegetica, ovvero la glossa che fa la spiegazione letterale. È quello che accade oggi quando si compra un’edizione della divina commedia. Si da per scontato che ci siano parole non più usate. Per questo ci sono le note a piè di pagina che spiegano le parole desuete. Allo stesso modo Irnerio spiega alcune parole incomprensibili. Questo tipo di glossa letterale aveva anche una determinata posizione nel manoscritto. Il manoscritto medievale è in pergamena, quindi è molto costoso. Tutto il codice pubblicato su questi fogli è quindi un bene costosissimo. Se questa è la realtà, ci stupiremmo subito che dal copista vengono utilizzate solo alcune poche righe al centro della pagina in alto. Se è così costoso, perché si usa un limite così ristretto della pagina? Perché tutto il resto del manoscritto deve servire per le glosse. Solo il centro è per il testo originario. Una volta apposto il testo originario al centro, ancora non si è fatto nulla. Tutto quello che verrà è successivo. Le glosse esegetiche vengono poste come ai giorni d’oggi: se non si capisce una parola, si scrive a matita sopra quella parola un’espressione chiara a chi annota. Queste glosse si chiamano glosse interlineari, poste tra le righe del testo. Ben presto Irnerio esaurisce la spiegazione esegetica del testo. Una volta che per una generazione ha spiegato il significato delle parole, l’uso delle glosse interlineari è praticamente concluso. Ma esistono altri tipi di glosse. Una volta che si capisce la parola, devo spiegare il contesto, cioè il significato dell’intero passo. Allora si fa una glossa di secondo tipo, una 2glossa interpretativa, che riguarda la materia, il contenuto. Una glossa di questo tipo è più estesa, è più vasta rispetto alla prima glossa. Quest’altra glossa non si trova all’interno del testo, ma si deve andare fuori. Ecco che abbiamo la glossa marginale, posta al margine del testo. Dice Dante: “I giuristi che riempiono di glosse i lor vivagni (bordi)”. A riempire di glosse (interlineari o marginali) sono gli studenti. Sentendo la lezione del maestro, annotavano tutti gli appunti necessari per non smarrire la memoria di quella lezione. Tutto questo pone delle difficoltà considerevoli. Questo manoscritto è prezioso. Questo significa che una volta che lo studente lo ha usato, il manoscritto viene venduto ed usato da altri maestri e studenti. Rispetto alle glosse del primo studente, ci sarà un altro studente futuro che ne segnerà altre etc. Gradualmente tutto il bordo si riempirà di glosse. L’effetto finale è un testo centrale circondato da un altro testo esterno di glosse. Accade spesso il caos. Gli studenti successivi aggiungono le glosse come possono, sfruttando gli spazi, accavallandosi, con alcune difficoltà gravi. La prima: quando si prendono appunti, non viene apposta la firma per ogni appunto preso. Ogni studente sa che quegli appunti si riferiscono ad un certo maestro di una certa materia. Ma se il quaderno di appunti finisce nelle mani di un altro studente, quello non sa di chi è quella lezione. Può darsi che legga cose interessanti, ma non sa se quegli appunti riferiscono l’opinione di un grande giurista o dell’ultimo degli assistenti. Il problema di chi legge in futuro i manoscritti pieni di glosse è capire a chi vanno riferite quelle parole, e quindi quanto sono importanti. Lo studente conosce la sua scrittura e il suo inchiostro. Non annota la sigla del maestro alla fine della glossa. Quindi nel giro di qualche generazione, si trovano sul manoscritto tante glosse adespote, cioè senza testa, non sapendo a chi attribuirle. Ma c’è di peggio. Siccome il manoscritto è passato nelle mani di diversi studenti, ognuno di questi studenti, prendendo le glosse del suo maestro, ha annotato le opinioni. Ma non aveva il tempo di leggere tutte le altre glosse presenti sul manoscritto. Quindi può essere accaduto che lo studente abbia ascoltato e scritto sulla sua glossa la stessa cosa riportata su un’altra glossa. Questo è grave perché è uno spreco di spazio. Ma può capitare anche che uno studente abbia preso una glossa di un maestro che contraddice un’altra glossa presente nel manoscritto. A quel punto, leggendo a distanza di tempo quel manoscritto, mi trovo due opinioni inconciliabili. La funzione della glossa è fare chiarezza. Ma se dalla lettura delle glosse ho confusione, non mi serve a niente. Allora a distanza di tempo, per evitare questo caos dovuto alla stratificazione delle glosse, un maestro si prende la responsabilità di realizzare un apparato di glosse. Un apparato di glosse è un insieme armonico organizzato di glosse. Quello che abbiamo visto finora è un accumularsi spontaneo e caotico di glosse. Quello che fa questo maestro è scegliere, selezionare il quadro delle glosse. Se si vuole comprendere la divina commedia, si deve comprendere un commentario. Queste note che commentano il testo non sono anonime. Quando si legge una nota a piè di pagina è segnato l’autore della nota. Quell’apparato di note sarà quindi coerente in tutta l’opera, perché dovuto allo stesso autore. Dal momento che questo apparato deve fare chiarezza, il vantaggio deve essere anche economico. Siccome questo manoscritto sarà anche copiato, l’apparato delle glosse non deve essere ripetitivo. Il maestro, che conosce il filo del discorso, non ripete sempre la spiegazione dettagliata di quell’argomento. Se quell’argomento è descritto meglio in un punto precedente della compilazione giustinianea, il maestro scrive supra¸ ossia rinvia ad un punto precedente dove è già stato illustrato quel punto. Ma può anche darsi che la spiegazione debba ancora avvenire. Allora il maestro introduce infra (oltre). L’apparato di glosse presenta un cospicuo vantaggio. Tutte le glosse sono 1attribuite allo stesso maestro, sono 2tutte coerenti, e 3non ci sono ripetizioni. Rispetto ad un apparato caotico dove nel giro di varie generazioni si sono sommate glosse differenti, l’apparato dello stesso maestro dà chiarezza. Ma tutto questo non risolve il problema. Il vero guaio che devono affrontare i giuristi di Bologna è che loro, per la prima volta dopo secoli stanno affrontando la lettura del Corpus Iuris Civilis di Giustiniano. Una volta spiegato il significato interpretativo con le glosse esegetiche e il significato del costrutto con le glosse interpretative, si accorgono che c’è qualcosa che non va. Ci sono due problemi da risolvere:
- Similia
- Contraria
Cominciamo dai similia (cose simili). L’approccio del giurista bolognese alla compilazione giustinianea è sacrale. Il giurista è convinto che quelle parole siano sacre. Irnerio ha studiato diritto romano non per curiosità ma perché era diritto imperiale e per intercessione divina. I giuristi studiano questi testi con questa sensazione. Ma Irnerio si accorge di alcune difficoltà: i similia. Lo stesso argomento non è affrontato solo in un punto della compilazione giustinianea e necessariamente deve essere esaminato in più punti diversi. Le parti del corpus non si distinguono per materia, ma per fonte. Il digesto è composto di iura. Il codice è composto di leges. Le istituzioni sono un manuale. Le novelle sono altre costituzioni di Giustiniano. La divisione non è quindi per argomenti. Il che vuol dire che la stessa materia si trova sia nel digesto che nel codice che nelle istituzioni che nelle novelle. Se si sta leggendo un argomento sul digesto, ancora non si conosce tutto, perché manca ancora la conoscenza di quello nel codice, nelle istituzioni e nelle novelle. Siccome è un testo sacro, come la bibbia va interpretato nella sua interezza, non a spezzoni. Per comprendere il significato completo di un istituto, non basta leggere un solo componente del Corpus. Devo conoscere in contenuto anche delle altre parti. Ecco il primo problema di Irnerio. Bisogna indicare i similia, ossia bisogna fare una glossa che consista in una elencazione di passi che affrontano argomenti simili. È fondamentale la glossa di similia per conoscere gli altri argomenti simili. Stessa cosa avviene nel codice civile: al termine di ogni articolo ci sono numeri che indicano altri articoli importanti per la comprensione di quell’articolo. Quello che fanno i glossatori è identico. È necessario leggere anche gli altri passi. È un grande ausilio sapere dove sono i passi simili, senza che li cerchi faticosamente in tutta la compilazione. Ma devo comunque andarmi a leggere gli altri passi. I glossatori allora sviluppano un genere letterario che fornisce una soluzione a questo problema. È il genere letterario della summula (piccola summa, piccolo riassunto). Se so già che ci sono vari passi giustinianei rilevanti, invece di costringere il lettore a leggerli tutti per suo conto, posso fornirgli una summula, un riassunto che dia una lettura complessiva dei vari passi giustinianei. A questo punto il lettore non avrà solamente un elenco di passi da consultare, ma una sintetica esposizione complessiva di quell’istituto all’interno della compilazione giustinianea. Il genere della summula è destinato a una grande fortuna perché il testo giustinianeo glossato è immenso e costosissimo. Nessuno studente poteva permettersi di andarsene da Bologna con la compilazione giustinianea glossata. Se la summula è già un passo avanti, un riassunto del pensiero giustinianeo su quella materia, è possibile fare di più. Mettendo assieme tante summulae ottengo una specie di surrogato della compilazione giustinianea. Alla fine si avrà una summa, cioè un’opera che segue fedelmente l’ordine dei titoli del corpus di Giustiniano, che invece di riportarne le parole riporta solo summulae, cioè parole del giurista che dicono in modo più semplice il concetto giustinianeo. Lo studente che vuole conservare una memoria dei suoi anni di studio può comprare una breve summa della compilazione giustinianea, che costa di meno dell’intero corpus. A quel punto la summa diventa in genere più praticato per conoscere sinteticamente il contenuto della compilazione giustinianea. In questo modo i maestri bolognesi ottengono un nuovo genere letterario che si affianca alla glossa. La glossa impone la presenza del testo della compilazione, la summa prescinde. Per arrivare ad un paragone, la glossa è un commentario al codice civile; la summa è il manuale. Per una formazione di base basta un manuale, cioè una summa.
I contraria. Se i similia sono ovvi (è inevitabile che le fonti della compilazione giustinianea prendano in esame lo stesso istituto in punti diversi) ben più spinosi sono i contraria, ossia le cose contrarie, più specificatamente “passi contrastanti”. Questo è un problema perché questo testi sono considerati sacri. Se questo è l’approccio non è ammissibile che ci possano essere all’interno delle contraddizioni. Questi testi sono in contrasto perché, nonostante l’intento di Giustiniano fosse stato quello di giungere ad un’opera perfetta, i giuristi, lavorando continuamente per tre anni e analizzando migliaia di libri, non solo devono ricorrere alle quinquiginta decisiones, ma devono anche rifare l’opera per contrasti inconciliabili. In tutto questo lavoro è inevitabile che siano sfuggite delle incoerenze che neanche i compilatori bizantini avevano rilevato. Nell’attività di sistemazione nella compilazione qualche volta è sfuggito qualche errore. E non se ne era mai accorto nessuno perché la compilazione giustinianea, qualche anno dopo la sua realizzazione, era stata accantonata. Non l’aveva più studiata nessuno. Solo Irnerio è il primo che ricomincia a leggerla ed è il primo che si accorge di queste contraddizioni. Ma dal punto di vista teorico questa è un’opera perfetta. L’atteggiamento del giurista di fronte a queste incoerenze non è la convinzione che il testo sia sbagliato, mala convinzione che il giurista sia inadatto a comprendere i testi di per sé perfetti. I testi sono indiscutibili. È il giurista quello incapace a risolvere il contrasto. Questa coerenza della compilazione viene da Dio. Nel suo disorientamento il glossatore fa una glossa, non di similia, ma una segnalazione di contraria. Esistono dei passi non in sintonia con questo brano. Un giurista successivo, se ne è in grado, deve fare la solutio contrariorum, cioè la soluzione dei contrari. Ci sarà un giurista più abile che riuscirà a leggere quelle fonti sciogliendo il contrasto. Quei due passi non possono essere presi alternativamente. Sono entrambe vigenti e vincolanti. Quindi il giurista, nonostante lo scontro dei due passi, deve sciogliere il nodo. I contraria possono essere riportati ad unità solo con la soluzione dei contrari. Tutto questo crea un genere letterario apposito che è quello della quaestio legitima¸ ossia della domanda legittima, che viene dalla legge. Ho due testi giustinianei dai quali si evince un contrasto. Allora se c’è contrasto nasce la quaestio, la domanda. La quaestio legitima si compone dei due contraria e della solutio contrariorum. In questo genere letterario si comprende l’incoerenza apparente delle fonti e il superamento di questa incoerenza. Questo tipo di quaestio ha un’altra caratteristica: è una quaestio scolastica, ossia una quaestio posta e risolta dal maestro a lezione. La quaestio legitima è quindi una questo finta. Non sono gli studenti a sollevare la quaestio, ma è il maestro a sapere benissimo che esiste il problema e a fornire la soluzione alla quaestio. Il problema più serio e complesso riguarda un altro tipo di quaesto. È la quaestio de facto emergens. Qui c’è veramente un problema. Tutto quello di cui abbiamo discusso era legato alla compilazione giustinianea. Sono tutti strumenti per arrivare a spiegare al meglio la compilazione. Quello che si fa oggi prende il nome di lezione perché con Irnerio l’attività del docente universitario è soprattutto la lectura; si parte dal testo della compilazione giustinianea che deve essere letto e poi spiegato. La lezione universitaria è soprattutto spiegazione di un testo. Tutto ruota attorno alla compilazione. Tutti i generi letterari sono tutti il risultato dello studio della compilazione. Però anche se conosco a menadito la compilazione e la padroneggio, rimane il problema della vita. Può accadere che nella vita si pongano delle fattispecie che siano esattamente conformi alla prescrizione normativa giustinianea. Il guaio è quando c’è una vicenda umana che non è stato previsto da Giustiniano. Questo è un problema grosso. Siccome sono partito dall’idea che il testo giustinianeo sia un testo sacro, la conseguenza è che quel testo è anche onnicomprensivo. Le quel testo è sacro c’è già scritto tutto. Irnerio affronta lo studio del diritto romano con la stessa impostazione. “Omnia in corpore iuris inveniuntur”. Non ci possono essere lacune. Però è inevitabile che ci siano vicende nuove che Giustiniano non ha preso in considerazione: il feudo, caso più eclatante. Bisogna intervenire per far parlare quelle fonti in modo tale da ricomprendere i casi nuovi. È il problema della quaestio de facto emergens. C’è un fatto (factum) da cui nasce (emerge) una quaestio. Questo fatto non è previsto nella compilazione giustinianea. Allora come lo si disciplina? I canonisti avevano un caso non disciplinato dal diritto canonico: il caso del papa eretico. Come questa, nascono molte vicende in età medievale non disciplinate dal corpus. Dal momento che i giuristi sono dell’idea che l’unico diritto vigente è il diritto romano, da lì non si esce. Bisogna applicare una norma del diritto giustinianeo, ma quale? Qui nasce la quaestio. Questo tipo di quaestio, a differenza della quaestio legitima, non è una quaestio finta, sollevata dal maestro a lezione. È una quaestio vera, contesa. Si formano due schieramenti. Si applica il criterio generale di utilizzo, all’interno di un sapere giuridico, di strumenti argomentativi. Riprendiamo le conoscenze su Aristotele, gli analitici e il sillogismo. La quaestio è un caso tipico di ragionamento sillogistico. Una delle premesse è sempre e necessariamente la norma giustinianea. C’è una norma giustinianea. Stiamo cercando di sapere se la norma giustinianea è applicabile o meno a quel fatto. Dal momento che il ragionamento deve essere scientifico, ci vuole un’altra premessa del ragionamento sillogistico. Quest’altra premessa deve consistere necessariamente in un argumenta, ossia deve essere un mezzo logico attraverso cui posso costruire una macchina razionale che mi porta a dire se quella norma si possa estendere o meno al caso nuovo. Questi argumenta sono un’infinità. Ci basta enunciarne due. Uno è a simili, l’altro e a contrario sensu. Se, partendo dalla norma, uso un argomento a simili, desidero dire che questa vicenda risponde alla stessa razionalità di quella prevista nella norma giustinianea e come conseguenza ho che la norma giustinianea deve essere applicata a questa fattispecie. Se ragiono a contrario uso un argomento opposto voglio dire che la norma giustinianea non prevede la fattispecie e quindi se avesse voluto prevederla l’avrebbe enunciata esplicitamente e siccome non è prevista l’argomento a contrario mi porta a escludere l’applicazione di questa norma alla nuova fattispecie. Siccome sono premesse sillogistiche, a seconda dell’argomentum che uso posso ottenere una conclusione esattamente opposta, anche se si parte dalla stessa norma giustinianea. Per evitare che rimanga un caso astratto, ecco un esempio. A Bologna c’è un parco pubblico con un cartello: Vietato l’ingresso dei cani anche se con guinzaglio”. Un vigile urbano vede che una persona sta portando alla catena un orso. Gli vuole fare la multa, perché in presenza di quella previsione normativa pretende di applicare quella norma al suo trasgressore. Il vigile dice che anche se la fattispecie non è conforme alla lettera della norma, possiamo fare una similitudine di contenuti. In questo caso per cane si estende il significato a qualsiasi animale molesto anche se condotto a guinzaglio o catena. Per questo motivo anche l’orso, sebbene in catena, rientra nella specie degli animali molesti. Con il ragionamento dell’argumentum a simili si ottiene una conclusione sillogistica favorevole all’applicazione di quella norma. Il proprietario dell’orso ragiona a contrario sensu: sottolinea che nella norma si parla solo di cani e non si parla di orsi. L’orso è diverso dal cane e quindi quella norma non si applica. In quest’altro caso giungiamo ad un’altra conclusione. Non c’è una soluzione unica a questa controversa: la soluzione dipenderà esclusivamente dalla bontà degli argomenti addotti. Questo tipo di quaestio non è scolastico ma è una quaestio effettivamente disputata. È rimesso alla capacità delle parti difendere le posizioni contrapposte. Esistono un’infinità di argumenta. Le quaestiones de facto emergentes non erano trattate a lezione. Il maestro difatti era pagato dagli studenti e aveva l’impegno di trattare una determinata parte del corpus. La quaestio era imprevedibile in quanto a tempi. Quanto durerà una discussione di questo tipo? Dipende dalla capacità delle persone, quindi il maestro si guarda bene dallo spiegare questo tipo di quaestio a lezione, perché ciò potrebbe bruciargli molte ore. Questa complessa quaestio veniva riservata alla sera, quando, a causa della mancanza di luce, non si potevano scrivere glosse (quaestiones vespertinae). O in giorni in cui non si tiene lezione (questiones sabatinae, dominicales). In questo modo si realizza una continua vitalità del diritto romano. Il diritto romano, non novellato da secoli, sopravvive grazie alla interpretazione dei giuristi, disciplinando nuove fattispecie. La scelta tra le due ipotesi è sine preiudicio melioris sententiae, senza pregiudizio di una valutazione migliore, basato su un argomento più convincente. Lo sforzo è addurre degli argomenti dialettici per cercare di allargare o restringere il portato di una norma. Nella quaestio de facto abbiamo questo strumento che consente al diritto romano di rimanere vivo nei secoli. Questo strumento è utile però la scuola della glossa si conclude con un’opera riassuntiva che va sotto il nome di Magna Glossa di Accursio, realizzata nella metà del XIII secolo. Se oggi vogliamo sapere quello che hanno pensato i glossatori, lo strumento utilizzabile è questo apparato di glosse. L’apparato di glosse di Accursio è l’ultimo. Dopo di lui nessuno ha aggiunto altre glosse. Con Accursio si chiude la scuola giuridica fondata da Irnerio e basata sulla glossa. Irnerio è dei primi anni del 1100; Accursio e della metà del 1200. In questo secolo e mezzo c’è la scienza giuridica bolognese e il ricorso ai generi letterali di cui abbiamo parlato.

Medievale Dic 18
Seguiamo una vicenda parallela a quella di Irnerio, a quella della sua scuola. Il diritto romano non viaggia da solo. Il suo percorso storico lo fa con il diritto canonico. Per l’alto medioevo abbiamo parlato infatti di utrumque ius, “l’uno e l’altro diritto”. Non è possibile pensare al solo diritto romano senza il diritto canonico e viceversa. La regione di tutto questo è evidente. Da papa Gelasio in poi l’occidente ha abbracciato la logica del principio gelasiano, che prevede che il mondo sia retto dal papa e dall’imperatore. Difatti il Sacro Romano Impero è l’attuazione di questo progetto politico. Sottostante all’idea della duplicità dei poteri ci sia l’idea della duplicità dei diritti: romano e canonico. Questa idea torna in discussione con il basso medioevo, età di grandi novità. Il diritto canonico non è estraneo a questa novità. Se l’unica novità per quanto riguarda il diritto romano è che Irnerio torni a studiare la compilazione giustinianea, il diritto canonico affronta invece un trauma interno molto più complesso. Il diritto canonico non si era spento nell’alto medioevo (come invece aveva fatto il diritto romano). Aveva continuato ad esistere. Nel corso della sua storia aveva stratificato molte norme, anche troppe. Abbiamo visto nell’età della riforma gregoriana che i giuristi della chiesa sono addirittura sgomenti. Non sanno più a che norma obbedire (sul celibato). La chiesa, nel corso del primo millennio, ha prodotto molte norme. Ora, nel basso medioevo, queste norme sono arrivate tutte insieme ad una confluenza. Non è più possibile rispettarle tutte perché a volte sono contraddizione. Nella stessa città di Irnerio, a Bologna, la presenza degli studenti è tale da innescare un circuito virtuoso di riflessione scientifica. Questi studenti animano la città e la loro attività non rimane limitata allo studio dei testi romani; la loro curiosità si estende a tutti gli ambiti della conoscenza. A Bologna si trova nello stesso periodo o poco dopo rispetto ad Irnerio un monaco di nome Graziano. È un monaco camaldolese che insegna in un monastero di Bologna ai novizi. Insegna teologia: è un magister divinae paginae. Però in realtà il problema più grave dei suoi studenti è che all’interno dei testi sacri insegnati da Graziano ci sono dei frammenti giuridici. Nel diritto della chiesa esistono fonti di diversa natura: ci sono divinae constitutionis (di creazione divina) e fonti humanae constitutionis (di creazione umana). Un esempio di prescrizione giuridica è il decalogo. Già leggendo i testi siamo di fronte a tanti testi di contenuto giuridico. A volte questi testi sono configgenti. Gli studenti chiedono perché esiste il contrasto e come è possibile risolverlo. Se ci sono molte norme in antitesi c’è incertezza del diritto. Il diritto della chiesa rischia di essere abbandonato al disordine. Per evitare questo, bisogna restituire chiarezza. Graziano, spiegando le norme ai suoi studenti, decide di realizzare un’opera che lui chiama “Concordia discordantium canonum”. Il diritto della chiesa è fatto di canoni. Graziano fa un’opera di chiarificazione per portare concordia tra i canoni discordanti. Dopo di lui questa opera verrà chiamata Decretum. Uno studioso americano dice che Graziano crea armonia dalla discordanza. Graziano, per scegliere questi canoni, usa quattro criteri o rationes (che ancora oggi utilizziamo):
1) Ratio temporis, il criterio del tempo. Per risolvere le antinomie tra fonti prodotte dalla stessa autorità e totalmente inconciliabili, ce ne sarà una successiva che abroga quella precedente. Lex posterior abrogat priori.
2) Ratio loci, il criterio del luogo. La chiesa è universale, cattolica. Le norme della chiesa sono universali. Non ha senso per il pontefice dare delle norme di indole territoriale. Le norme per la salvezza sono universali. Però può essere accaduto che alcune autorità della chiesa non universali (es. riunione dei vescovi di una certa regione) abbiano dato dei canoni. Quei canoni, se non provengono da un concilio ecumenico, hanno un valore territorialmente limitato. Riguardano solo le diocesi vigilate dai vescovi che hanno preso parte al concilio. Le norme prodotte in quel caso hanno un valore limitato. In caso di antinomia tra le fonti, bisogna andare a vedere se in realtà queste due fonti hanno lo stesso valore in termini di estensione geografica. Se le due fonti hanno differente estensione in contrasto non c’è. Ci sarà una norma particolare che si applica ad un determinato territorio e una norma universale che conserva pienamente il suo valore per tutta la cristianità restante.
3) Ratio significationis, il criterio del significato. Molte volte il contrasto tra le fonti è causato da una lettura superficiale delle parole della norma. Talvolta si equivoca il significato delle parole. Una lettura attenta del significato, che cerchi di carpirne la natura sostanziale, scioglie l’antinomia. Compito del giurista è leggere con attenzione le norme per dare loro il significato profondo.
4) Ratio dispensationis, il criterio della dispensa. La dispensa è un istituto che la chiesa ha ancora oggi. È un istituto tipico del diritto della chiesa. Non esiste altro istituto in altri ordinamenti. Oggi in tribunale c’è scritto “la legge è uguale per tutti”. C’è l’idea tipica delle legislazioni laiche che la giustizia si realizzi con un’applicazione omogenea a tutti delle stesse regole. La chiesa non la pensa così. Per la chiesa il diritto è uno strumento per ottenere la salvezza delle anime. Se questo è l’obiettivo, la chiesa non mette la tutela astratta dell’omogeneità teorica contro la salvezza delle anime. Questo vuol dire che se in un caso particolare l’applicazione del diritto produce un danno maggiore rispetto alla sua violazione la chiesa autorizza per quel caso particolare la disapplicazione del diritto. La chiesa valuta i casi. Se è meglio non applicare il diritto, il diritto non si applica (esempio del sacerdote anglosassone sposato che vuole convertirsi al cattolicesimo). È l’istituto della dispensa.
Graziano si trova in alcuni casi ad aver a che fare con dispense. La dispensa è l’eccezione che conferma la regola. Graziano, intorno al 1140, sistema il diritto della chiesa. È cos’ importante la sua attività che Dante lo ricorda nel paradiso dicendo che “fece opera così gradita in paradiso per aver sistemato l’uno e l’altro foro”. Quello che fa Graziano è separare la teologia dal diritto canonico. Egli era un maestro di teologia. Con questa sua attività nasce una scienza apposita sul diritto canonico. È esattamente quello che aveva fatto Irnerio con la retorica. Prima di Irnerio il diritto era fuso con la retorica. Dopo di lui le due cose si separano. Prima di Graziano il diritto è fuso con la teologia; dopo di lui le due materie si separano. Con Graziano nasce la scienza del diritto canonico. Così importante è quello che accade a Bologna con Graziano che da allora in poi, per diventare importanti nella chiesa, è necessario andare a studiare il diritto canonico a Bologna. Anche coloro che si formano nella chiesa cominciano sempre di più a sviluppare un approccio col diritto canonico. Tanto è vero che molti papi sono giuristi. Nel XII e XIII la maggioranza dei pontefici è giurista, come allievi di Graziano e degli altri maestri bolognesi che riprendono il suo insegnamento. Questi pontefici che conoscono bene il diritto canonico si trovano ad avere potere legislativo. A differenza del passato ora è possibile sapere cosa c’è e cosa non c’è nel diritto canonico. Graziano è la pietra angolare del diritto della chiesa. In questo modo si sa anche cosa non c’è nel diritto, cosa manca. I papi sanno così come intervenire per sopperire alle lacune. I papi giuristi producono fonti normative per integrare le lacune. Le norme dei pontefici sono i decretali. Queste decretali prendono il nome di estravagantes, cioè stravaganti. Tutte le volte che il pontefice creava una decretale, questa veniva trasmessa ai giuristi bolognesi. I giuristi inserivano la decretale alle altri. La decretale, inviata con bolla (semplice foglio), veniva inserita alla fine del decreto di Graziano. Le decretali vagavano al di fuori del decreto di Graziano, extra decretum Gratiani vagabantur, a foglio sciolto. Queste decretali vagavano fuori dal decreto di Graziano, non erano state inserite. Rimanevano fogli aggiuntivi. Da qui il nome extravagantes, cioè che vagavano fuori l’opera di Graziano. Questa organizzazione non può durare a lungo. Quando le decretali si moltiplicano è un problema di conoscenza e di studio. Non si possono studiare le decretali in modo disorganico. Allora i maestri cominciano a raccogliere le decretali, fino a quando tutto questo non arriva sulla scrivania di un pontefice che viene un secolo dopo Graziano: siamo nel 1234. Nel 1234 papa Gregorio IX sta controllando le decretali extravaganti. L’aneddoto dice che venga preso da improvvisa rabbia perché non trova la sua decretale e viene preso da enorme rabbia. Allora si stufa e ordina al suo cappellano, Raimondo di Begnaforche, uno dei giuristi fondamentali della chiesa di quel periodo, di realizzare un’opera, un nuovo testo che metta assieme tutte le decretali extravaganti. Questo testo si chiama difatti Liber extravagantium, ossia libro delle (decretali) extravaganti; è chiamato anche Liber extra. Questa raccolta è importante perché Gregorio IX dà, nella bolla di promulgazione di questa raccolta, 4 caratteristiche a questa raccolta. La raccolta è da considerarsi:
1- Una
2- Universale
3- Esclusiva
4- Autentica
La raccolta è promulgata e inviata nelle università per lo studio. Gregorio IX, da ex studente, vuole evitare un pericolo gravissimo: evitare che i giuristi bolognesi adottino per il Liber Extra i loro criteri ermeneutici, le stesse di Graziano. Se lo facessero, il rischio è vedere un facile sovvertimento della sua raccolta. Il tentativo di Graziano è quello di mettere insieme le norme prodotte dai pontefici e dai concili dopo Graziano (tra il 1140 e il 1234). Se è una raccolta, a qualcuno potrebbe venire in mente di andare a vedere la data di promulgazione di ogni singolo decretale. E se ritiene che due decretali non siano in sintonia, potrebbe ritener abrogata la decretale precedente. Questo vuol dire distruggere il Liber Extra. Il papa dice che questa raccolta deve essere considerata come una, dal punto di vista temporale. Anche se queste norme sono state prodotte in tempi diversi, si presume che siano tutte contemporanee. È ovvio che appartengono a papi diversi, però giuridicamente sono tutte contemporanee. Stesso problema per quanto riguarda la ratio loci: alcune norme sono particolari, altre universali. Anche in questo caso l’originario valore territoriale di quelle norme viene superato perché nel liber extra sono tutte universali. Esclusiva: nel liber extra non c’è tutto il diritto prodotto tra il 1140 e il 1234. C’è una selezione del diritto. Però il pontefice, attraverso l’esclusività, dichiara che nessuno può pretendere di utilizzare una decretale precedente al liber extra e non ricompresa nel liber extra. Questa raccolta è esclusiva: vale solo il diritto contenuto nel liber extra. Se le norme non sono nel liber extra, si presumono abrogate. Autenticità: le norme del liber extra sono norme autentiche. Sono decretali di pontefici e canoni di concili. Il problema è che sono decretali e canoni. Nel liber extra ci sono norme prodotte da pontefici e da concili. Qualche giurista si potrebbe chiedere se sia giuridicamente più importante come fonte la norma prodotta dal concilio o la norma prodotta dal pontefice: il canone o la decretale. Questo è un problema mai risolto. Il papa, per evitare una possibile gradazione delle fonti dice che anche se nel liber extra ci sono dei canoni, si presume che appartengono tutte all’autenticità pontificia. Per il fatto di essere inserite nel liber extra vengono tutte parificate al livello di norme del pontefice. Nel 1234 con Gregorio IX abbiamo il Liber Extra, primo tentativo della chiesa di sistemare il diritto successivo a Graziano. Con questa opera nasce lo ius decretalium, il diritto delle decretali. La chiesa, da questo periodo in poi, osserverà una serie di regole che sono contenute in questo ius decretalium. Questo liber extra, insieme al decreto di Graziano e ad altre opere, rimaranno il diritto ufficiale della chiesa fino a quando la chiesa non adotterà il primo codice in senso moderno, cioè fino al 1917. Il Liber extra rimane diritto ufficiale della chiesa dal 1234 al 1917. Si tratta di opere nate in questo periodo ma che per la chiesa rimangono ferme nei secoli. Accanto a Irnerio abbiamo Graziano e tanti pontefici legislatori. Accanto al diritto civile abbiamo il diritto canonico. Nella scuola di Bologna, quando qualcuno si laureava, per essere vero laureato doveva essere doctor in utroque iure, dottore in tutt’e due i diritti. Vigeva il latinetto: “civilista sine canonista parum valet, canonista sine civilista nihil valet”. Per esser un vero giurista bisognerà avere una formazione completa di diritto romano e di diritto canonico.
Accanto allo ius commune esistono gli iura propria. La scienza giuridica bolognese, con Irnerio e Graziano, studia il diritto canonico. Esistevano degli ordinamenti particolari che erano anche artefici di norme (comuni, corporazioni, regni etc.). L’atteggiamento dei giuristi verso questi diritti particolari era di disprezzo (lo chiamano ius asininum) non solo per la qualità di norme realizzate ma soprattutto perché ritenevano che questi istituti non avessero la competenza e la potestà di fare diritto. Irnerio studia il diritto romano perché è diritto imperiale di ispirazione divina. Gli altri diritti particolari, oltre all’essere disprezzati, non sono diritto. Non esistono sulla scena giuridica. Il diritto particolare non esiste sulla scena giuridica. Abbiamo due gruppi normativi in antitesi:
- Ius Commune, formato da Corpus Iuris Civilis e Diritto Canonico
- Iura Propria, formato da statuti comunali, statuti corporativi e consuetudini
Ci dobbiamo mettere nelle due prospettive. Iniziamo dagli iura propria. Siamo un giurista di diritto particolare, comunale e consuetudinario. Questo comune ha prodotto il suo statuto e lo difende, ma non ci fa molto. Lo statuto è stato prodotto da assemblee non composte da giuristi. L’assemblea cittadina è convocata in maniera del tutto eccezionale per affrontare singoli problemi giuridici e dare risposte a singole questioni. Lo statuto, raccogliendo le risposte a queste questioni specifiche, non contiene tutto il necessario. Lo statuto non basta per regolare la vita giuridica del comune. Nello statuto ci sono solo poche norme, fatte per lo più da persone inesperte di diritto. Usando solo lo statuto non si riesce a gestire il comune. I comuni lottano per la loro autonomia, non per la loro sovranità, che è una cosa diversa. I comuni non hanno problemi a riconoscere la sovranità dell’imperatore. Il comune vuole solo che vengano garantite le autonomie, ma non presume di essere allo stesso livello dell’imperatore. Il comune si accontenta della sua sfera di libertà nell’impero. Il comune non nega l’esistenza dello ius commune. Allo stesso modo il comune non nega l’esistenza del diritto romano, ma non vuole che il proprio statuto sia cancellato. Siccome nella concezione dei giuristi il diritto romano è completo, la conseguenza è che non c’è bisogno dello statuto. Se applicassi il diritto romano, questo cancellerebbe direttamente il diritto romano. Allora si conserva lo statuto e non si nega il diritto romano. In concreto un giurista comunale applica una gerarchia di validità delle fonti. Sa benissimo in quale ordine vanno applicate le fonti. Come prima fonte dovrà applicare lo statuto. Nell’ipotesi in cui manchino norme nello statuto, potrà fare ricorso come fonte sussidiaria allo ius commune. La prima fonte da applicare è quella particolare (se non facessi così la fonte particolare non l’applicherei mai); la seconda fonte è il diritto comune. Il diritto particolare non potrebbe neanche vivere senza diritto comune. Siccome il diritto particolare è solo un’eccezione, lo statuto stesso non potrebbe sopravvivere. I due impianti normativi devono viaggiare in sintonia. Si torna a prendere in considerazione il diritto comune. Questa è una soluzione pratica applicata dai comuni, ma è una soluzione che non va a genio ai giuristi. Dal punto di vista della teoria, non si può ragionare in termini di facilità e comodità. Per un glossatore il diritto particolare non esiste, però essi viene applicato da centinaia di comuni. L’astrazione, la teoria si distacca dalla vita. Il maestro di diritto romano può dire pure che il diritto particolare non esiste, però lo studente, appena uscito dalla scuola, trovandosi a Bologna, deve relazionarsi con un comune che produce norme di ius proprium. Si deve trovare una soluzione teorica a questo problema. La soluzione pratica già c’è, ma non può andar bene per il giurista. Tutto questo può essere risolto solo dall’imperatore. Per il giurista l’unica fonte del diritto è l’imperatore. Al di fuori di lui non c’è fonte normativa. Difatti a Roncaglia Federico Barbarossa, quando è sceso in Italia per convincere i comuni del loro colossale errore nel contrapporsi all’impero, ha chiamato i giuristi di Bologna. L’imperatore non ha mai detto che l’imperatore possono fare diritto fino a quando Federico Barbarossa è arrivato in Italia. Verso la metà del 1100 l’imperatore tedesco vuole ricondurre all’obbedienza i comuni italiani. Allora Federico prima cerca di convincere con le buone i comuni. Fallito il tentativo, dichiara guerra. È una guerra cruenta. Milano viene rasa al suolo. Lodi viene trucidata. È una guerra che compromette la sopravvivenza dei comuni italiani. Per sopravvivere i comuni fanno la stessa cosa che avevano fatto i piccoli feudatari: si associano. Quello che non riesce a uno solo riesce a tanti. Con il giuramento di Pontida, Alberto da Giussano crea la Lega Lombarda. Oggi l’emblema della Lega Nord è un cavaliere con una spada sguainata: è la statua di Pontida di Alberto da Giussano. Nel 1167 a Pontida i comuni aggregano le loro forze. Nello scontro contro l’impero, capitanato da Milano, i comuni sul campo di battaglia portano il Carroccio. Su questo carroccio montano la campana, perché la campana è il simbolo della libertà, dell’autonomia comunale. In questo scontro i comuni sono fortunati. Riescono a contrapporsi all’imperatore e a sconfiggerlo nella battaglia di Legnano nel 1176. È successa una cosa inaudita. Federico Barbarossa e gli altri imperatori non tenteranno più l’impresa. I comuni possono continuare a comportarsi da comuni liberi. Però bisogna disciplinare il tutto. Nel 1183 si incontrano i rappresentati dei comuni e l’imperatore sul lago di Costanza per siglare la Pace di Costanza. In realtà non è affatto una pace. La pace si fa tra due che sono allo stesso livello. Qui il pari livello non c’è. La pace presupporrebbe l’incontro di due volontà sovrane, paritetiche. L’imperatore, a Costanza, formalmente perdona i comuni, che si sono ribellati all’impero. Il crimine di ribellione all’impero è uno dei crimini più gravi. Gli eretici venivano condannati a morte con il rogo perché contestavano il potere imperiale (la lesa maestà). L’imperatore perdona i comuni in modo tale che i comuni rientrino nella legalità con l’impero. Questo ai comuni non basta. Allora chiedono il rispetto della loro autonomia. Chiedono l’esenzione dalle tasse che dovrebbero fare all’imperatore ma soprattutto chiedono il riconoscimento dei loro statuti. E l’imperatore fa questo. Nella pace di Costanza riconosce l’esistenza e la validità degli statuti comunali. A questo punto anche la scienza giuridica volta pagina. Essendo l’imperatore unica fonte di diritto, avendo l’imperatore riconosciuto ai comuni la possibilità di produrre diritto, a questo punto lo ius commune ha legittimato lo ius proprium. Non c’è più contrapposizione teorica. Questo meccanismo si chiama “teoria della permissio”. A questo punto il nodo teorico è risolto. Adesso i due diritti non sono in contrapposizione. Per questo binomio di fonti si parla di “sistema del diritto comune”. Nel sistema confluisce sia lo ius commune sia lo ius proprium. Questi due quadri normativi riescono a convergere nello stesso sistema. In questo modo il problema teorico è risolto. Esistono però dei limiti, ben presto messi in risalto. Siccome la scienza giuridica si basa su questa teoria della permissio, significa che baso un dato teorico della scienza giuridica su qualcosa di fragile: su un permesso. Il permesso può anche essere revocato. Ed è proprio quello che fa il nipote di Federico Barbarossa, Federico II Hohestaufen. Federico II revoca la libertà normativa dei comuni. A quel punto è difficile tornare indietro. Ma se tutto fosse basato solo sulla permissio, la scienza giuridica si sarebbe di nuovo trovata nei problemi. Questa giustificazione della permissio è comunque fragile perché siccome si basa sulla Pace di Costanza vale solo per i comuni che avevano lottato contro l’imperatore ed erano stati perdonati dall’imperatore. Tutti gli altri comuni paradossalmente rimanevano fuori dalla legittimazione. La città di Firenze in teoria non avrebbe potuto avere uno statuto comunale. La permissio dà l’arma alla scienza giuridica per avvicinare i due grandi blocchi normativi, però ancora è una legittimazione fragile. Occorrerà attendere un altro giurista successivo, Bartolo da Sassoferrato, che elabora una teoria diversa: la teoria della iurisdictio, sopravvissuta fino ad oggi, anche se rivista e corretta. Bartolo dice che ogni ordinamento, collettività organizzata, ha una iurisdictio, non nel senso di giurisdizione, ma nel senso di potere, di organizzazione normativa. Ma questo potere si esercita nei limiti della iurisdictio. C’è una iurisdictio minima che è quella del proprietario del suo fondo. Poi, ad un livello opposto, c’è la iurisdictio massima, che è quella dell’imperatore su tutto il mondo. Non esiste solo una giurisdizione minima e massima: esistono vari livelli di giurisdizione, e i comuni appartengono ad un certo grado di questa scala. Anche i comuni hanno la possibilità di disciplinare la loro realtà. Il problema è che questo potere dei comuni si può esercitare solo nei termini della iurisdictio. I poteri dell’imperatore e dei comuni non si contraddicono perché è diversa la iurisdictio. Il comune non pretenderebbe mai di dare norme all’impero. Si limita al suo potere normativo. Per questo le due sfere non sono in contrasto. Non nega nessuno dei due, poiché si esplicano ad un livello differente l’uno dall’altro. In questo modo la scienza giuridica metterà in sintonia i due ordinamenti. I comuni applicano lo ius proprium e sussidiariamente lo ius commune. La scienza giuridica studia lo ius commune ma accetta l’esistenza teorica dello ius proprium. Per molti secoli le due fonti viaggeranno di pari passo. Da questo momento in poi fino al 1800 il sistema sarà caratterizzato dalla presenza simultanea di diritto particolare e diritto comune.

Medievale Gen 8
Finora abbiamo visto l’evoluzione della scuola giuridica dei glossatori. Accursio conclude il genere letterario della glossa. Siamo nella metà del XIII sec. e Accursio, con la sua Magna Glossa, sintetizza ciò che di meglio avevano detto i glossatori. La fine della scuola della glossa non comporta però la fine della scuola di Bologna. A Bologna si continua ad insegnare diritto. Dal momento che Accursio aveva fatto la Magna Glossa, è evidente che il metodo dovesse cambiare. Infatti, dopo Accursio, abbiamo un breve periodo (50 anni) in cui viene sperimentato un genere diverso dalla glossa: il tractatus. Questa fase, detta “età dei post-accursiani”, vede alcuni giuristi sperimentare questa nuova strategia. La glossa è uno studio esegetico: tutta la compilazione giustinianea è sottoposta alla glossa e la glossa ha un’utilità proprio perché accompagna integralmente la compilazione giustinianea. È possibile quindi utilizzare la glossa solamente accanto al testo originale. Questo, se è un vantaggio perché consente di spiegare il testo giustinianeo, per un altro verso è un limite, perché la glossa non potrà mai essere un’opera a sé stante. Dovrà essere sempre un’opera di commento. Il tractatus invece è distinto dal testo originario giustinianeo. Non c’è bisogno del Corpus iuris per leggere il trattato. Specificamente il tractatus serve ad approfondire alcuni singoli aspetti della compilazione giustinianea. Per esempio, Rolandino de’ Passeggeri decide per la prima volta di isolare dalle fonti giustinianee tutto quello che riguardava l’arte notarile, quindi di scrivere un’opera che illustrasse in dettaglio solo il diritto notarile (il “Tractatus totius artis notarilis”). Abbiamo un testo specialistico per conoscere quella singola materia. Allo stesso modo si comporta Alberto da Gandino che scrive un Tractatus de maleficiis, ossia un trattato che riguarda i reati. Alberto da Gandino capisce che è più comodo per la scienza giuridica avere un testo unico che racchiuda tutta la materia penale e consenta, per chi lo desidera, di concentrarsi solo su questo testo. Infine Guglielmo Durante, vescovo francese, scrive lo Speculum iudiciale, lo specchio del giudizio, ossia un’opera che illustra in maniera fedele la materia del processo. Chi voleva studiare diritto processuale si affidava allo Speculum Iudiciale. Tutto questo è una grande novità perché prima di questi trattati, se si voleva conoscere la materia penale o la materia processuale si doveva andare all’interno del corpus iuris a selezionare i singoli passi. Fino a questa selezione, ogni giurista doveva trovare nelle fonti i passi rilevanti. Con il trattato si supera questa difficoltà delle fonti. Oggi è come se potessimo paragonare la glossa a un commentario, e il trattato al manuale. La scuola giuridica dei glossatori viene superata ed integrata con il trattato.
Ma tutto questo è solo provvisorio, perché in questi stessi anni sta avvenendo un cambiamento drastico della scienza. Sta cambiando il modo di fare scienza. In Francia, a Parigi, dove esiste la scuola di Teologia, viene riscoperta l’ultima opera aristotelica ancora sconosciuta. Aristotele era stato a lungo studiato. L’Organon era stato riscoperto dalle fondamenta ma con una eccezione: gli Analitici secondi. Tra le opere logiche di Aristotele ce ne era una considerata molto complessa e difficilmente comprensibile, ed erano gli analitici secondi. Queste opere erano in greco, avevano avuto forse una traduzione in arabo, ma non erano in latino. Quindi la riscoperta di Aristotele passa necessariamente attraverso la traduzione latina. Quest’opera non aveva mai avuto, a giudizio dei filosofi parigini, una soddisfacente traduzione latina. Quindi non era stata mai studiata. Siccome tutte le volte che veniva affrontata era considerata astrusa, si riteneva che le traduzioni fossero fatte male. Invece era proprio quell’opera che era un grosso problema. A un certo punto, quando si producono tante traduzioni di quest’opera si scopre che negli analitici secondi Aristotele ha detto qualcosa che cambia le regole del gioco. Negli analitici primi aveva detto che il sillogismo è uno strumento fondamentale per l’acquisizione della conoscenza. La divisio platonica è uno strumento infantile mentre il sillogismo permette di padroneggiare la conoscenza. Difatti tutte le scienze si fanno guidare dall’uso del sillogismo. La quaestio de facto è tutta basata sul sillogismo. Il guaio è che negli Analitici Secondi Aristotele dice non tutti i sillogismi sono uguali, e non tutti i sillogismi producono vera conoscenza scientifica. C’è una differenza profonda tra due tipi di sillogismi:
1) Sillogismo dialettico
2) Sillogismo apodittico
Aristotele dice che l’unico vero sillogismo scientifico è il sillogismo apodittico. Quello dialettico non serve per fare scienza. La differenza non è nello strumento (il sillogismo è sempre uguale a sé stesso), ma nelle premesse sillogistiche. Nel sillogismo dialettico si parte da  espressione greca che vuol dire “opinioni probabili”. Il sillogismo dialettico parte da una premessa probabile, può essere vera ma anche falsa. Al contrario, per quanto riguarda il sillogismo apodittico, per Aristotele si parte da verità, il latino principia. Ogni scienza ha dei principi indiscutibili, veri. Utilizzando questi principi e ricorrendo al sillogismo si fa scienza. Se non si parte da questi principi ma dalle opinioni probabili, si fa opinione. Nella geometria ci sono dei principi, degli assiomi che non hanno dimostrazione (due rette parallele non si incontrano mai; per due punti passa una sola retta). Attraverso questi principi primi si costruisce tutta la geometria euclidea. I teoremi sono sillogismi con premesse vere, gli assiomi. Il problema è che tutta la scuola dei glossatori non si era fondata sui principia. Dal momento che la conoscenza degli Analitici Secondi di Aristotele era assente, tutti i glossatori avevano dato per acquisito ciò che diceva Aristotele nelle altre opere, ossia la bontà del sillogismo a prescindere dalle sue premesse. I glossatori avevano costruito una scuola su “opinioni probabili”. La stessa quaestio de facto è un ragionamento probabile. Ciò è dimostrato dal fatto che la conclusione della quaestio de facto termina con le parole “sine preiudicio melioris sententiae”. Ci può essere qualcuno che dà una ricostruzione più credibile di questa vicenda. Allora questa soluzione non è la definitiva, ma una delle tante soluzioni, quella che attualmente sembra la più credibile. La quaestio de facto è il meccanismo della sentenza giudiziaria. Se non fosse così non avrebbe senso prevedere l’appello: i giudici valutano la sentenza di nuovo. Se la prima sentenza avesse usato un sillogismo apodittico, non avrebbe senso avere un appello. Invece il primo grado usa il sillogismo dialettico. Tutto quello svolto dai giuristi era basato solo su probabilità. La verità scientifica della scuola dei glossatori era solo stipulativa, frutto di un accordo. Si arrivava a individuare le verità scientifiche con il confronto dialettico, costruendo strutture solo sulle opinioni probabili. Ora, improvvisamente, a Parigi, viene detto che questo metodo di ragionamento che usa il sillogismo dialettico è sbagliato. Con questi ragionamenti non si arriva a niente. L’unico modo per fare scienza è usare il sillogismo apodittico. Allora ecco che tutto quello compiuto dai glossatori improvvisamente è considerato debole, inadatto come sicura base scientifica. In Francia, a Parigi, un giovane chierico, dopo aver appreso questo metodo del sillogismo apodittico, approfondisce i suoi studi giuridici a Orleans. Questo giovane francese, Jacques de Revigny, era diventato baccelliere (cioè non era ancora laureato). Incontra per puro caso il figlio di Accursio. Il figlio di Accursio si trova in Francia perché era stato esiliato da Bologna, avendo appoggiato la fazione ghibellina perdente. In Francia veniva invitato dalle varie università giovani per fare delle lezioni magistrali che dessero lustro alle sedi universitarie. Una lezione di Francesco di Accursio ad Orleans avrebbe attratto molti studenti. Francesco d’Accursio, sicuro della dottrina paterna (il padre aveva fatto la Magna Glossa), affronta la lezione senza particolari difficoltà. Jacques de Revigny, neanche laureato, gli pone una domanda banale ma fondamentale perché pone allo scoperto il nodo dei principia. Il testo scelto da Francesco d’Accursio era un testo difficile perché i testi della compilazione giustinianea facevano grande confusione su quel punto. Francesco era costretto ad attenersi ai testi della compilazione. Ma attraverso questi testi era costretto a confrontarsi con , opinioni probabili. Erano così conflittuali quei testi che le opinioni dei giuristi che le interpretavano erano meramente probabili. Jacques de Revigny è così bravo nell’usare il sillogismo che Francesco d’Accursio viene brillantemente sconfitto. Era andato lì per fare una lezione solenne invece su una domanda banale viene sconfessato. Tutta la dottrina dei glossatori bolognesi è inadeguata a rispondere a quella domanda banale, ma fondata su un principium, un elemento di chiave nel sistema. La scienza giuridica bolognese non aveva mai studiato i principia. Questa vittoria di Jacques de Revigny cambia in poco tempo la scienza giuridica. Subito tutti capiscono che per fare vera scienza giuridica non basta il lavoro dei glossatori ma occorre la conoscenza dei principia. Ma dove stanno questi principia? Anche i commentatori ritengono che tutto stia nella compilazione, quindi anche i principia sono da ricercare nella compilazione. I commentatori dicono che non si devono studiare le parole, i testi normativi, non la cortex scripturarum, ossia la corteccia delle parole. Quello che bisogna studiare è la ratio, la medulla rationis, ossia il midollo della ragione. La corteccia può anche cambiare, il midollo no. La Scuola del Commento o dei Commentatori, che nasce con Jacques de Revigny, dice che quello che conta nelle norme non sono le parole, ma la ratio, cioè il fondamento, l’essenza razionale. La stessa ratio può essere espressa in lingue diverse, ma questo non cambia la loro ratio (in Ue ci sono molte lingue ma la norma ha la stessa ratio). Non bisogna studiare troppo le parole; si può rimanere vittima delle parole. Quello che il giurista deve conoscere è la ratio. A quel punto conosce il principium. A quel punto, se a fondamento del sillogismo metto non opinioni probabili (parole) ma realtà assolute (principi) faccio sillogismi sicuri. Ecco che i commentatori vanno in cerca, all’interno della compilazione, della ratio. Da ogni frammento cercano di isolare il fondamento razionale. Anche qui c’è un problema. Ratio è ancora un concetto generico. La ratio può essere di due tipi:
1) Ratio impulsiva
2) Ratio finale
Nel negozio giuridico c’è differenza tra motivo (ratio impulsiva) e causa (ratio finale). Il motivo è irrilevante, la causa è fondamentale. La stessa cosa avviene nelle leggi. La Lex Calpurnia fu fatta per evitare che una donna, di nome Calpurnia, continuasse a far causa ai senatori. I romani fecero la Lex Calpurnia, nella quale era vietato alle donne intentare causa. La causa impulsiva era la presenza di Calpurnia; la causa finale era evitare l’impudicizia e mantenere il pudore delle donne. Se quello che contava era solo la ratio impulsiva, una volta morta Calpurnia quella legge avrebbe dovuto essere abrogata. Invece quello che conta è la ratio finale, che non tramonta. I commentatori vanno in cerca di tutti queste rationes finali. Quando hanno questi principi costruiscono dei sillogismi apodittici. La speranza è riuscire a costruire una scienza giuridica esatta, ossia non probabile come quella dei glossatori, ma indiscutibile. La stessa cosa era stata fatta da S. Tommaso. Utilizzando il sillogismo apodittico aveva preso gli articula fidei per costruire una teologia esatta, scientifica. La speranza dei commentatori è fondata su basi fragili ma nella loro epoca era una forte convinzione. Si pensava di poter creare impianti sillogistici che non potevano essere mai più scalfiti. Qualche tempo dopo tutto questo crollerà. Ma per un secolo, per tutto il XIV sec. l’idea di fondo era utilizzare finalmente gli Analitici Secondi per fare questo tipo di scienza innovativa. Perfino Dante usò il sillogismo apodittico nel “De Monarchia”.
Rimane ancora da definire un discorso relativo all’assetto pubblico medievale. La scienza giuridica è uno dei versanti del problema. C’è la scienza giuridica ma c’è anche la vita quotidiana del diritto. Abbiamo visto la contrapposizione tra ius commune e iura propria. Dal punto di vista teorico c’è la preminenza del diritto comune, ma nella realtà esistono ordinamenti particolari. Questi ordinamenti producono diritto e tutta la scienza medievale deve bilanciare questo rapporto dualistico. Tutto questo esiste fino a quando gli ordinamenti particolari hanno rappresentato un fenomeno giuridico. I comuni hanno dato vita a questa frizione tra il loro statuto e il diritto romano perché erano comuni liberi. In quanto liberi prevedevano l’esistenza di un’assemblea che legiferava (la piazza). La volontà della piazza viene inserita nello statuto comunale. Per poter avere tutto questo occorre un comune libero, dove il cittadino è libero di riunirsi. Nei comuni italiani (contrapposti ai comuni dell’Europa, sottostanti al feudo) il potere comunale è fonte di tanti disaccordi. Esistono le fazioni (guelfi, ghibellini). Le fazioni prevedevano delle guerre dentro e fuori la città. Tutti comuni sono attraversati da forti contrasti. Esiste la figura del podestà. I consoli sono stati sostituiti da podestà. I consoli non consentivano di avere una scelta politica veloce. Il potere monocratico del podestà è temperato dalla natura temporanea della sua carica. Dopo un anno c’è la restituzione della carica. Accade però che nelle città, oltre le varie fazioni, nasca anche un gruppo che finora non aveva trovato una sua coesione: il popolo. Finora la vita comunale era dominata dal popolo grasso (mercanti, corporazioni). Non era stata tutelata l’altra fascia della popolazione (artigiani, operai) che non poteva esprime la sua presenza delle magistrature cittadine. Il podestà era sì espressione della città, ma solo della città potente. Gradualmente il popolo minuto si organizza e pone una guida: il capitano del popolo. Ad un certo punto della vita urbana abbiamo due poteri concomitanti e diversi: podestà e capitano. Nella stessa città ci sono due magistrature che perseguono interessi differenti. Questo porta in pochi decenni allo scontro tra popolo grasso e popolo minuto. In questo scontro è evidente che la durata annuale della carica è un elemento deleterio. La figura del podestà e del capitano, che ha anche la funzione di capo militare, o sta vincendo (e sarebbe pericoloso rimuoverlo dalle funzioni) o sta perdendo (e anche in questo caso sarebbe pericolosissimo concedersi un periodo vagante, il sindacato, senza un capo militare). Sia in buona che in cattiva situazione bellica, entrambe le fazioni si devono affidare alle due magistrature, senza pretenderli di rimuoverli dopo un anno di carica. Accade che i poteri vengono protratti fin quando rimane lo scontro. Anzi, anche dopo la fine dello scontro, ci sono sempre i fuoriusciti, costretti all’esilio. Neanche alla fine dello scontro si possono restituire i poteri alla città. Quindi il podestà e il capitano del popolo, che dopo un anno avrebbero dovuto restituire le funzioni, lo conservano indefinitamente. Non viene più restituita al comune la libertà di scegliere la propria guida. Tanto è vero che Bartolo di Sassoferrato dirà, con tristezza, che “tota Italia plena est tirannis”. I podestà e i capitani sono diventati dei tiranni. Non restituiscono più il potere. Lo conservano in maniera vitalizia. Bartolo aggiunge che questo non è neanche il fatto peggiore. Bisogna distinguere tra:
- Tirannide ex parte exercitii
- Tirannide ex defecto tituli
La tirannide ex parte exercitii è quella dalla parte dell’esercizio, per quanto riguarda l’esercizio del potere. Il potere è stato legittimamente conferito, non c’è stata un’usurpazione. Quel podestà e capitano del popolo sono stati effettivamente investiti del potere. Il potere è stato conferito in maniera regolare. Poi però, una volta esaurito lo scontro, se ne dovevano andare. Il fatto che non restituiscano le loro funzioni diventa un cattivo esercizio di quel potere. La tirannide è dalla parte dell’esercizio, non per l’investitura (legittima), ma perché l’esercizio di quel potere è andato oltre i limiti.
La più odiosa tirannide è quella ex defecto tituli, per mancanza di titolo. In questo scontro tra popolo grasso e minuto abbiamo due fazioni che, pur mosse da buona volontà, sono costituite da persone inadatte alla guerra. Il popolo grasso e il popolo minuto sono costituiti da mercanti, artigiani, abitanti della città che non hanno dimestichezza con le armi. Questi abitanti della città fanno del loro meglio, ma non sono il massimo. Allora per vincere l’altra fazione si rivolgono a dei professionisti: le milizie di ventura, mercenari che si mettono al soldo delle varie fazioni purché lautamente stipendiati. A questo punto l’impatto è completamente diverso. Questi mercenari, che esercitano il mestiere delle armi, sconfiggono facilmente la fazione cittadina. È ovvio che chi vuole vincere cerca di acquisire il servizio dei mercenari migliori. Questi mercenari sono guidati dai capitani di ventura. Non sono sul mercato liberamente, ma fanno parte di eserciti che sono capitanati da specifiche figure. Di queste è piena la tradizione italiana: Braccio da Montone, Ettore Fieramosca, Giovanni dalle bande nere. Sono tutti nomi celebri di personaggi che guidavano intere compagnie di soldati. Succede che questo capitano di ventura, che ha sostenuto la guerra di una fazione contro un’altra, si trova ad aver vinto lo scontro e ad essere l’unico detentore del vero potere all’interno della città. Non consegna la città ai vincitori, ma si tiene il potere per sé. È quello che succede ad Urbino: Federico da Montefeltro era un capitano di ventura che aveva vinto lo scontro e conserva per sé il potere. Bartolo dice che questi tiranni sono ancora più odiosi perché la loro signoria è ex defecto tituli, per mancanza di titolo. Nessuno li ha nominati guida della città.
Quando la signoria si afferma non ha più minimamente il bisogno di tutelare la fazione che aveva condotto alla vittoria. Quando a Firenze prevale la signoria dei Medici, i Medici si affermano come capi di tutti i cittadini. Non avvantaggiano nessuna fazione a danno di altre. Nella loro ottica tutti i cittadini sono sudditi. Non esistono più cittadini liberi. Tanto è vero che la signoria costruisce il suo palazzo all’interno della piazza, in modo tale che non solo non sia più possibile riunirsi, ma si cancelli anche il ricordo visivo di questa libertà comunale. La piazza non c’è più. Non c’è più libertà. Il palazzo signorile è tra l’altro bellissimo. I Signori diventano mecenati; costruiscono palazzi fastosi. In questo periodo i signori costruiscono le loro fortezze, ma la maggior parte delle difese non guarda all’esterno della città, ma all’interno della città. Il signore non si deve più preoccupare dei pericoli esterni, ma dei suoi concittadini, dei sudditi. Essendo il suo potere illegittimo, è sempre soggetto al rischio di una congiura. Ecco che le difese sono all’interno della città per ricordare ai cittadini che il signore tiene il potere con la forza delle armi. Tutta l’Italia si riempie di Signorie. Se prima identificavamo il fenomeno politico con la città (comuni liberi), adesso il potere politico non si identifica più con il nome del comune, ma con il nome della signoria (i Medici, signori di Firenze e anche di buona parte della Toscana; gli Scaligeri a Verona: gli Estensi a Ferrara; i Visconti e gli Sforza a Milano; i Gonzaga a Mantova). Il potere trattenuto dal signore a titolo personale per tutta la vita diventa addirittura dinastico. Viene trasmesso ai figli. Quello che era un esercizio illegittimo del potere ma almeno limitato alla vita del signore supera anche questo limite. Ecco che a Firenze i Medici diventano una dinastia. Il comune non ha più la possibilità di esprimere liberamente il potere che era stato caratteristico all’interno della realtà medievale. Oltre ciò, dopo la signoria tutto questo si trasforma in Principato. I principati sono, dal punto di vista del potere, la stessa identica cosa della signoria. La signoria è un potere tirannico, si è affermata contro le regole comunali. Di fatto esercita il potere ma rimane l’illiceità. Per evitare l’illiceità si deve uscire dalla legittimazione originaria. Chi è in grado di cambiare questa situazione? Questi poteri andrebbero richiamati non dal basso, ma dall’alto. L’imperatore, che sta progressivamente perdendo gran parte del suo potere, ha il potere formale di riconoscere titoli feudali. Se i Medici e gli altri signori invocano dall’Imperatore la concessione di un titolo formale feudale, avviene che lo stesso potere, esercitato con la forza, potrebbe essere esercitato adesso con una legittima investitura imperiale. Ecco che quello il potere illegittimo diventa legittimo. A Firenze, i Medici chiedono l’investitura imperiale e sorge così il Granducato di Toscana. A quel punto l’imperatore, pur non potendo dare maggior potere, può dare una veste formale fondamentale. A quel punto si taglia il legame con la città che ha creato quel potere e affermano di esercitare quel potere per investitura imperiale. A quel punto il potere torna ad essere legittimo. I comuni, che nell’XI sec. erano diventati l’elemento fondamentale della politica medievale dopo aver lottato contro il sistema feudale, affrontando l’impero e diventando liberi, con l’esercizio eccessivo di questa libertà sono costretti ad affidarsi a capi che diventano signori e tiranni illegittimi, e alla fine degenerano in principato. Paradossalmente, dopo tanto contrasto fatto dai comuni al feudo, il feudo ritorna a condizionare la vita dei comuni, per investitura imperiale. Il signore, diventato principe, esercita la totalità dei poteri che prima spettava ai comuni liberi. La legge ora viene fatta in nome de principe; l’amministrazione viene organizzata in nome del principe. Ci avviciniamo alla fine del medioevo e il comune smette di esistere. Ci si avvia all’età moderna.

Medievale Gen 15
Vediamo come e perché il medioevo termina. Il medioevo, come qualsiasi periodo storico, dopo aver avuto un periodo di fioritura, conosce anche il suo tramonto. Il tramonto del medioevo è determinato dalla crisi di quegli ideali tipici di tutto il periodo. Dal momento che il medioevo è un periodo cristiano, il tramonto del medioevo è caratterizzato dalla fine politica di quelle grandi strutture che sulla religione cristiana fondavano la loro base e legittimità. Queste grandi idee politiche che tramontano solo l’impero e la chiesa.
Vediamo il Sacro Romano Impero. Gli uomini del medioevo accettano che il potere politico sia imperiale. Già Dante indica che il cruccio più grande è la fine della dignità e della forza dell’impero. Dante indica che ci sono due soli, riferimenti: l’imperatore e il papa. La sua preoccupazione è che questi due soli siano offuscati. Per quanto riguarda l’impero la crisi è determinata dalla nascita delle grandi monarchie. Mentre l’età medievale era caratterizzata dal feudo, espressione tipica dell’impero e interna alla macchina imperiale, e poi dai comuni, che avevano inizialmente messo in difficoltà l’impero ma poi erano stati riassorbiti dall’impero con la signoria e il principato, quello che l’impero non riesce a controllare (ed è il suo tracollo) sono le grandi monarchie. La monarchia francese, spagnola, inglese. La presenza di queste forti autorità monarchiche mette a repentaglio l’idea di un impero unico ed universale. L’imperatore esercita poteri universali, che devono abbracciare per loro stessa natura tutti i territori europei. L’impero è per definizione universale. Adesso invece nascono delle autorità, come il Re di Francia, che dicono di esercitare sui loro territori, un potere paragonabile a quello dell’imperatore. Sostengono di essere sovrani sulla terra francese, quindi non più dipendenti e sottomessi all’imperatore. Questa sovranità dei re comporta una disgregazione della logica imperiale. Nascono gli stati nazionali. L’Europa del medioevo era un’Europa unita. L’Europa che nasce alla fine del medioevo è un’Europa di Stati nazionali che prevedono dei confini. Per la prima volta in Europa si ha uno spezzettamento in entità territoriali distinte, sottomesse a diverse autorità sovrane. Questo è già una novità clamorosa.
Ma entra in chiesa anche la chiesa. Nel 1517 Martin Lutero affigge le sue 95 tesi contro le indulgenze sulla porta della cattedrale di Wittenberg, e da lì nasce la riforma. La chiesa di Roma inizialmente sottovaluta questo movimento ereticale, invece l’eresia luterana prende piena e viene gradualmente accolta in Germania, Svizzera, e tende addirittura ad aggredire l’Italia. La chiesa viene costretta a correre ai ripari e a progettare la Controriforma. Con il Concilio di Trento (1545-1563) si sviluppano delle idee di difesa dalla riforma. L’idea sarebbe quella di riconciliarsi con i protestanti ma questo non è possibile. Ormai la separazione tra protestanti e cattolici romani è inevitabile. Anche dal punto di vista religioso si registra una divisione. Dopo un millennio di unità religiosa dell’Europa per la prima volta c’è una frattura. Ci sono territori cattolici e ci sono territori protestanti. Tutto questo comporta anche delle conseguenze politiche. In Francia, laddove si affermano tendenze eretiche (Ugonotti), a reagire non è tanto la chiesa, ma il re, che teme che gli ugonotti diventano un potere alternativo rispetto alla forza del re. Per evitare questo, nella notte di S. Bartolomeo, il re provvede all’uccisione di tutti gli ugonotti. Il problema dell’eresia diventa anche un problema politico. Nasce anche l’Inquisizione moderna. La vera inquisizione non è quella medievale, ma quella moderna. L’oscurantismo che viene attribuito all’inquisizione non va visto nei secoli bui del medioevo, ma nei secoli fulgidi e spendenti dell’Umanesimo, Rinascimento e Illuminismo.
Tutto questo periodo va sotto il nome di Umanesimo. E viene chiamato “umanesimo”, cioè “riscoperta dell’uomo”. Questo perché, mentre nel il medioevo pone al centro di tutti gli interessi dell’uomo Dio, nell’età moderna questa fiducia verso gli ideali religiosi viene meno. Al posto di Dio viene innalzato l’uomo. È l’uomo il nuovo centro di interesse delle arti e della cultura. Non a caso l’emblema della nuova età è l’uomo di Vitruvio di Leonardo da Vinci. Quell’uomo, perfetto, può iscriversi sia nel cerchio che nel quadrato. Il cerchio rappresenta il cielo e il quadrato la terra: l’uomo è misura di tutte le cose. Il fulcro non è più Dio ma l’uomo. L’uomo è la nuova scoperta dell’umanesimo. Tutto ruota intorno all’uomo. Gli umanisti dicono che il medioevo ha sbagliato, perché il medioevo trascura di dare importanza all’uomo. Proprio per questo lo chiamano “medio evo”. Se il medioevo ha sbagliato, nell’ottica degli umanisti chi ha capito tutto sono i classici, l’età latina e greca. Lì c’era la vera considerazione dell’uomo. Allora gli umanisti, per esercitare bene questa loro attività di riscoperta dell’uomo, devono richiamarsi a modelli che saltano il medioevo e ritornano all’età classica. Ecco perché l’età si chiama Rinascimento: c’è la rinascita del modello classico di cultura e di scienza. Gli umanisti trascurano il medioevo e si rifanno solo all’età grecoromana. Se questo è vero, gli umanisti devono fare un’attività di ricerca e studio con strumenti che allora non esistevano:
1) Storia
2) Filologia
Storia. Nel medioevo non c’era stato interesse per la storia. Ora gli umanisti, per studiare l’antichità, devono avere una formazione storica approfondita. Non si possono ammettere errori nello studio del passato. C’è una fioritura di studi storici. Ma per ben studiare la storia c’era bisogno del secondo strumento: la filologia. Questo è il vero strumento cardine dell’umanesimo. La filologia è lo studio per la parola, cioè la necessità, prima di studiare un testo, di sapere se quel documento è autentico o meno. È inutile fare un studio storico su un documento senza sapere se quel documento è originario. La prima operazione necessaria è uno studio filologico. I testi sono stati trasmessi nei secoli da amanuensi. I testi classici non sono quelli originari, ma le copie eseguite nel corso del medioevo in cui ogni copia introduce degli errori. Ogni testo si è caricato di errori su errori. È inutile studiare Cicerone se quel documento è sbagliato. È un’opera inutile. La prima operazione da fare è togliere gli errori. Gli amanuensi si sbagliavano in buona fede. A volte sostituivano una parola non conosciuta con un’altra. Lorenzo Valla dimostra la falsità della Donazione di Costantino, per mezzo di strumenti filologici. Il problema della scienza giuridica si pone quando a qualcuno viene in mente di studiare i testi giuridici con intento filologico. Personaggi come Angelo Poliziano si trovano a interrogarsi se i testi giustinianei studiati a Bologna siano conformi al testo originario. Esiste una copia del Digesto che nel medioevo era stata venerata come una reliquia. Era stata conservata a Pisa e poi a Firenze. Era un testo antichissimo e reputato quasi sacro. Gli umanisti leggono il libro e si accorgono che la copia risale addirittura ai primi anni del VII secolo. Dista dal momento di redazione del Digesto solo qualche decennio. È ovvio che a quel punto gli umanisti dispongono di una copia del Digesto molto vicina all’originale. Confrontano la Littera fiorentina con la Littera bononiensis o Littera vulgata, e si accorgono che ci sono colossali differenze. Il testo originario non è conforme a quello insegnato nelle cattedre dei giuristi dell’età medievale. Il testo fiorentino esiste ancora oggi. La conseguenza di questa scoperta è una completa delegittimazione della scienza giuridica medievale. Non avrebbe senso studiare su di una copia non fedele all’originale. Gli umanisti dimostrano che i giuristi medievali hanno sviluppato tutta la loro scienza a partire da un testo sbagliato. Tutta la scienza è quindi sbagliata. Ma c’è di più. Se si dimostra che l’opera giustinianea è destinata a queste fluttuazioni nel tempo significa la compilazione non è assistita, come credevano i medievali, dall’autorità divina. Tutti i testi del medioevo erano sbagliati. Anche i glossatori e i commentatori avevano studiato un testo sbagliato. È evidente che il diritto romano è un diritto umano, prodotto da uomini, che risente delle disavventure umane. Il diritto romano non è sacro come si pensava, ma una delle tanti espressioni del diritto. tutto questo è un colpo micidiale al diritto romano. Da questo momento in poi la fiducia nella concezione del diritto romano come diritto perfetto cade. È stato dimostrato che il diritto romano non è perfetto. È un diritto umano come gli altri. Il problema è che non esiste alternativa al diritto romano. Dopo aver detto che il diritto romano è imperfetto, gli umanisti non sanno fornire alternativa a quel diritto. Inoltre questo movimento dell’umanesimo nasce in Italia, ma in Italia non ha successo, perché l’Italia è la terra per definizione degli studi giuridici. Tutte le università nate dal modello bolognese insegnavano il diritto romano come definito da glossatori e commentatori. La scienza giuridica è fortemente perplessa e ostile al cambiamento. Questo movimento acquista successo in Francia, dove si riconosce la doverosità dell’umanesimo giuridico. Ciò accade in Francia perché in Francia c’è il re, che ha un obiettivo: dimostrare che è sovrano, che non è suddito dell’imperatore. Un giurista che dimostra che il diritto romano è un diritto vecchio va più che bene al re di Francia. Questo significa che il diritto su cui si basa la forza dell’imperatore è un diritto che deve essere sostituito, imperfetto, vecchio. Questa è la dimostrazione che non solo l’impero ma anche il diritto dell’impero sono tramontati. L’umanesimo acquista successo in Francia e diventa il mos gallicus iura docendi, costume francese di insegnare il diritto, contrapposto al mos italicus iura docendi. In Italia si continua a fare come durante il medioevo, in Francia si fa nel modo nuovo. Questo nuovo modo si basa sulla storia e sulla filologia al punto tale che si parla di scuola culta o dei culti, perché prevale la cultura. Mentre in Italia prevale il tecnicismo, in Francia prevale un approccio culturale, storico. Questi umanisti vogliono arrivare alla perfezione. Il modello classico è studiato perché il loro proposito è scavare nei secoli per arrivare al primo modello di riferimento, al canone di bellezza e perfezione. Tutto il loto intento è trovare la prima espressione di ogni fenomeno. In questo modo sono certi di attingere alla perfezione. Facendo tutto questo si accorgono di cosa è il digesto. Se finora Poliziano aveva cercato di ripristinare con la filologia il testo del digesto a un certo punto considerano la vera natura del digesto. Il Digesto è un mosaico di fonti. Giustiniano ha ordinato a Triboniano di selezionare le opere classiche di giurisprudenza. Per gli umanisti tutto questo è un crimine. A questo punto dei giuristi classici conosco solo quello che hanno trasmesso i redattori della compilazione giustinianea e solo nel modo in cui me l’hanno trasmesso. I compilatori bizantini, per far funzionare il mosaico di fonti, a volte hanno tagliato i testi e a volte li hanno dovuti parzialmente riscrivere. Gli umanisti si accorgono che il Digesto è uno stravolgimento della giurisprudenza classica. Se voglio conoscere veramente il pensiero di Paolo, Ulpiano, Papiniano, il Digesto me ne dà una lettura deformata. Allora Otman scrive un’opera titolata “Antitriboniano”, responsabile del crimine di aver alterato i classici. Se Triboniano non avesse alterato i classici, potremmo ancora conoscere la giurisprudenza classica. Gli umanisti hanno un fallimento. Non riescono a risalire al modello originario. Supponevano che ci fosse una mitica opera di Cicerone (De lege) in cui avesse espresso l’essenza della scienza giuridica. Questi umanisti, nel tentativo disperato di risalire nel testo, falliscono. Il diritto romano, dopo le considerazioni degli umanisti, subisce questo grave colpo. Però non scompare. Il diritto romano sopravvive ancora per tre secoli. Ciò è certificato dal re di Francia il quale accetta ancora il diritto romano. Non esiste alternativa al diritto romano. Questo diritto romano viene studiato e applicato (dice il re di Francia) non ratione imperii, sed imperio rationis, cioè non perché esiste l’Impero, ma per comando della sua ragionevolezza. Il diritto romano è un diritto ragionevole, ben fatto. Rimarrà ancora vigente fino a quando non ci sarà qualcosa di migliore. Mentre nel medioevo la fiducia per il diritto romano era la fiducia in un diritto perfetto, nell’età moderna il diritto romano viene praticato perché è il modello migliore. L’offerta del modello migliore avverrà, ma si dovrà aspettare ancora tre secoli. Il primo diritto in grado di sostituire e abrogare il diritto romano sarà il Codice Napoleonico del 1804, primo codice moderno.
Vediamo la diffusione del diritto romano nel medioevo. La scuola di Bologna è il riferimento principale dello studio del diritto romano. Ma non è l’unico bacino di conoscenza del diritto romano. È un luogo da cui la conoscenza del diritto si irradia anche in territori molto distanti. Per esempio Bologna, al suo interno, prevede studenti citramontani e ultramontani. Questo interesse per il diritto romano è presente anche in studenti stranieri, che al termine degli studi tornano nella loro terra. Il primo vettore di diffusione del diritto romano sono gli studenti bolognesi. Altro potente strumento di diffusione del diritto romano è il processo romano-canonico. Nell’età altomedievale i barbari avevano adottato il processo ordalico (la prova di Dio, senza atti scritti). Nell’età della riscoperta del diritto romano e dello sviluppo del diritto canonico questo vecchio processo viene accantonato e si torna ad utilizzare il processo romano corretto dagli interventi della chiesa. Ecco che il nuovo processo prende il nome di processo romano-canonico, perché fatto con fonti romane e canoniche. La nuova età storica impone l’adozione di questo processo anche al di fuori dell’Italia. L’Europa è più unita ed è un'unica anima I mercanti che la percorrevano in lungo e in largo non potevano fondare la loro mercatura sul processo ordalico. Ciò comporta la conoscenza del diritto romano. Abbiamo alcuni territori in cui è palese la presenza del diritto romano. Le conseguenze di questa presenza hanno anche dei risultati inaspettati.
In Francia c’erano stati i Visigoti che avevano redatto la Lex Romana-Wisigothorum. La Francia aveva una raccolta addirittura curata dai barbari di norme romane. La situazione rimane per molto tempo invariata. La Francia conosce una particolare vicenda interna di divisione, perché i Visigoti erano stanziati nel sud della Francia. I franchi invece inizialmente conquistarono il nord della Francia. C’era una divisione territoriale tra territori settentrionali e meridionali, divisione estesa a tutti i settori. La Francia, per lungo tempo, ha due lingue: la lingua dell’oil e la lingua dell’oc (da hoc est). L’Occitania è la terra dell’oc. Questa spaccatura è anche giuridica. Nel meridione si continuerà ad utilizzare la lex romana-wisigothorum, e si continuerà ad avere un diritto scritto; il settentrione avrà soprattutto consuetudini orali. Anche dal punto di vista giuridico ci sarà la divisione tra pays de droit écrit (paesi di diritto scritto) e pays de droit coutumié (paesi di diritto consuetudinario). La presenza del diritto romano in Francia è rilevante. Tant’è vero che i re di Francia avranno l’arduo compito di sciogliere i problema di una frammentazione giuridica.
In Spagna il problema è la riconquista dei territori ai mori. La Spagna era stata conquistata dagli arabi, che avevano sconfitto i visigoti e varcato i Pirenei, ma erano stati poi fermati da Carlo Martello a Poitiers. Gli arabi si erano fermati nella Spagna e solo nel 1492 gli spagnoli riuscirono a cacciare i mori dall’ultimo califfato. La Spagna ha la stesso problema. Qual è il diritto della Spagna? Nel corso dei secoli della conquista araba, gli arabi non impongono il loro diritto. I romani e i visigoti conservano il loro patrimonio, anche giuridico. questo significa che nei secoli della conquista araba si formano profonde consuetudini che hanno una forte base romanistica. Anche in Spagna c’era stata la Les romana-Wisigothorum. Con la riconquista dei territori si formano i territori spagnoli (Castiglia, Leon, Aragona). In questi regni i re cercano di imporre un loro diritto, frutto non di fantasia, ma basato sul diritto romano canonico. Sono re cristiani e non possono che accogliere il diritto di Bologna. Nelle loro terre introducono il diritto romano-canonico della tradizione bolognese. Una raccolta importante per la Spagna è quella voluta da Alfonso X: la Legge delle sette parti, o “Ley de las siete partidas”, sinteticamente chiamata “le sette parti”. Questa legge è fatta di diritto romano-canonico. Ovviamente ci sarà resistenza da parte del popolo, perché il popolo continuerà ad utilizzare quelle consuetudini della conquista araba, per evitare di perdere qualsiasi difesa rispetto al potere monarchico. Allora le popolazioni spagnole cercano di resistere a queste leggi imposte con autorità dal re. Si trova una mediazione: queste leggi vengono rispettate, ma in qualità di fonti sussidiarie. Prima si applicano le consuetudini e poi, solo in caso di lacune, si ricorre al diritto romano in funzione sussidiaria. La legge delle sette parti diventa il diritto utilizzato da tutti i territori spagnoli. Tutto questo è importante perché la Spagna, in questi anni, diventa una potenza coloniale. Con la scoperta dell’America Spagna e Portogallo conquistano i territori dell’America meridionale ed introducono la lingua, la cultura e anche il diritto iberico. L’America latina diventa terra di diritto romano. Anzi, nell’America latina il diritto romano verrà seguito e studiato molto di più rispetto che nell’Europa. Mentre la Spagna conosce tutti i fermenti europei (umanesimo, illuminismo) che vogliono dimostrare la fragilità del diritto romano, in America Latina il diritto romano è l’unico modello. È considerato l’esempio di perfezione giuridica. Non esistono alternative culturali a questo diritto. Il diritto romano si radica profondamente in quei territori e la cultura del diritto romano diventa molto più viva in America latina che in Europa. Quando nel 1804 Napoleone abroga il diritto romano, l’America Latina continua ancora con il diritto romano. Tutto questo consente un colloquio culturale privilegiato tra Europa e America Latina.
Se il diritto romano è così forte da arrivare in America Latina (e addirittura in Giappone) perché il diritto romano non è l’unico diritto mondiale? Perché c’è il modello di common law. Come nasce? Nel 1066 i Normanni, guidati da Guglielmo il Conquistatore, invadono l’Inghilterra, dopo aver vinto la battaglia di Hastings. Gli anglosassoni erano pagani; i normanni sono invece cristiani cattolici. L’ingresso in Inghilterra comporta anche l’introduzione della religione, e quindi anche l’introduzione del diritto canonico, e ovviamente del diritto romano. Guglielmo si porta appresso come abate Lanfranco, uno studioso di diritto a Pavia. Era diventato abate in Normandia e poi in Inghilterra. Qualche decennio dopo un vescovo parte dall’Inghilterra per fare il suo viaggio a Roma: è il vescovo Teobaldo di Canterbury. Viene a Roma perché dopo la crisi della chiesa, Gregorio VII aveva imposto di nuovo l’autorità del papa sui vescovi. Una regola canonica era che il vescovo facesse un viaggio, durante la sua vita, a Roma per rendere omaggio al pontefice (visita ad limina). Questo Teobaldo fa questo viaggio e passa da Bologna. È il momento della piena fioritura della scuola dei glossatori. Vede il prestigio di cui godono i giuristi bolognesi. Siccome è un uomo di chiesa sa bene che la cultura è potere. Offre ad un glossatore bolognese la possibilità di seguirlo in Inghilterra. Uno di questi giuristi accetta. Si chiama Vacario. Segue il vescovo di Canterbury in Inghilterra e fonda uno studio del diritto romano: Oxford. Oxford nasce per iniziativa di un glossatore bolognese. Questo Vacario ha un successo incredibile. Egli ha una particolare vocazione per la didattica, soprattutto quella rivolta a tutti, ai più poveri. Scrive una summa del codice che si chiama Liber pauperum: era un testo così breve che anche chi non si poteva permettere l’acquisto di voluminosi manoscritti poteva affrontare la spesa del libro di Vacario. Questi elementi fanno di Vacario un insegnante ambitissimo. Se Vacario ha aperto questo studio, perché anche l’Inghilterra non è terra di diritto romano? Perché questo insegnamento suscita gelosie da parte degli altri maestri ma soprattutto genera delle ostilità politiche. I nobili ritengono il diritto romano pericoloso, perché i nobili hanno lottato contro il re per ottenere la Magna Charta Libertatum, cioè una dichiarazione del re di rispettare i diritti dei nobili. Il diritto romano è il diritto di Giustiniano, dell’età del dominato, di un imperatore assoluto che fa discrezionalmente diritto come meglio crede. I nobili non vogliono che si studi un diritto dove l’autorità politica gode di un potere legislativo assoluto. Neanche il re è contento di questo insegnamento. Ha le stesse motivazioni del re di Francia. Il diritto romano è il diritto dell’impero, che proviene dal Sacro Romano Imperatore. Come il re di Francia, anche il re d’Inghilterra afferma la sua autonomia dall’impero. Allora anche il re d’Inghilterra non accetta il diritto romano. Tutte queste ostilità sono troppe: il re impone a Vacario di interrompere l’insegnamento. Si vieta l’insegnamento del diritto romano in Inghilterra. Un allievo di Vacario dirà: “Vacario nostro indictum est silentium”, al nostro Vacario è ordinato il silenzio. A quel punto se l’Inghilterra non usa il diritto romano, si sviluppa un sistema diverso dal diritto romano. Acquista importanza l’autorità del precedente giurisprudenziale, la mancanza di scrittura. Mentre il giurista romanista parte dal testo scritto, il giurista anglosassone non ne sente il bisogno. L’Inghilterra non ha ancora una costituzione scritta. A quel punto i due sistemi si separano per sempre. Anche l’Inghilterra diventa una potenza coloniale, e il common law si espande a tutto il Commonwealth (America del nord, Australia). A questo punto il mondo è diviso in due blocchi. Chi segue il diritto romano e chi segue il diritto di common law. Il problema è ora pressante per il giurista europeo. È molto difficile unificare giuridicamente l’Europa. Mentre le nazioni continentali condividono la stessa base romana, l’Inghilterra no. Nella tradizione romanistica c’è il principio della buona fede. In Inghilterra non c’è. È difficile ora arrivare ad unità. Tra l’Europa e l’Inghilterra c’è un abisso di secoli di storia giuridica. La sfida dei giuristi dell’Europa è ricucire lo strappo oltre Manica e riportare quell’unità che c’era nel medioevo.